La fantasia della forma:
James Newton e i suoi flauti


James Newton
Flute Music
Formazione: James Newton (flauti),

Clovis Bordeaux (piano, clavicembalo),
Les Coulter (chitarra, percussioni),
Ed Brookshire (contrabbasso, percussioni),
Tylon Barea (batteria e percussioni)
+ Alt Valdez (batteria),
Glen Ferris (trombone).
Morning Trip, 2002


James Newton
Flute Music
Formazione: James Newton (flauti),

Clovis Bordeaux (piano, clavicembalo),
Les Coulter (chitarra, percussioni),
Ed Brookshire (contrabbasso, percussioni),
Tylon Barea (batteria e percussioni)
+ Alt Valdez (batteria),
Glen Ferris (trombone).
Morning Trip, 2002


Talento assai promettente, il giovane flautista James Newton diede vita nella seconda metà dei Settanta a una propria etichetta discografica: la Flute Music Productions. Era un’impresa realizzata con scarsi mezzi e dedicata (eloquente il nome) a uno strumento poco apprezzato dai jazzofili. Non ebbe vita lunga: uscito Flute Music dello stesso Newton, chiuse i battenti. Il disco rivede ora la luce (vinile o digital files) grazie alla Morning Trip dopo decenni di oblio. Newton terminò qui la sua attività di discografico in erba, ma non quella di musicista, anzi. Si trasferì a New York e iniziò un’ammirevole carriera. Veniva da Los Angeles dove aveva studiato il basso elettrico e vari strumenti ad ancia, suonando rock e R&B, maturando solo in seguito un’anima più squisitamente jazzistica. Vi rimase fino al 1977, il tempo di pubblicare il succitato album, una volta convertitosi del tutto alla monogamia, ovvero suonare esclusivamente il flauto.
Scelse uno strumento ingiustamente negletto, come accennato, che soltanto dalla seconda metà dei Cinquanta si era faticosamente ritagliato uno spazio negli organici meno consueti del jazz, il quale a sua volta aveva intrapreso una lunga marcia nel segno dell’inconsueto. Il flauto trovò cittadinanza definitiva grazie a due musicisti in particolare: Eric Dolphy, il più creativo tra i (tanti) sassofonisti alle prese anche con il flauto, ed Herbie Mann, il primo tra i musicisti dedicatosi unicamente allo strumento a ottenere fama e successo.
In realtà, il vero merito fu di Ian Anderson con i suoi Jethro Tull e di rimbalzo gli effetti si fecero sentire nel mondo del jazz, avendo Anderson un indubbio ed evidentissimo debito nei confronti di un altro jazzista: Rahsaan Roland Kirk. Polistrumentista mirabolante, Kirk esplorò non poco le possibilità offerte dalla tecnica dell’overblowing consistente nel soffiare nello strumento e canticchiare contemporaneamente in modo da ottenere l’effetto di due voci, talvolta anche di tre o quattro, grazie alla vibrazione dei toni alti. Tecnica di cui nel tempo Newton si è impadronito, impiegandola in modo magistrale, forse come nessun altro tutt’oggi.
Virtuosismo che gli ha anche complicato la vita nell’anno Duemila, quando si andò a impantanare in una causa legale finita male contro i Beastie Boys, rei di aver campionato, illegalmente a suo dire, un assolo che li aveva ammaliati. Acqua passata, mal digerita, ma passata. Sempre più sospinto dalla sua fede cristiana, oggi Newton compone soprattutto musica sacra per vari organici, tra cui una monumentale St. Matthew Passion, ha fatto incetta di premi e riconoscimenti nell’arco della sua carriera (segnata dal notevole sodalizio con il pianista Anthony Davis) e si dedica con altrettanta passione a un’attività nella quale crede con fede altrettanto assoluta: l’insegnamento della musica.

Trentatré giri… nel paese delle meraviglie sonore
Tutto o quasi cominciò da Flute Music, come si è detto. Quasi, perché quell’anno fu presente anche in altri due album. Il primo intitolato Flutes! era in condominio. Da un lato Sam Rivers con il suo Tuba Trio, dall’altro il giovane flautista con tre brani, tra cui una prima versione di Choir, quello ripreso dai Beastie Boys nella versione successiva che Newton inserì nell’album Axum (1981). L’altro si intitolava Solomon’s Sons ed era in duo col sassofonista losangelino David Murray.
Per registrare Flute Music Newton convocò Clovis Bordeaux (piano e clavicembalo), Les Coulter (chitarra e percussioni), Ed Brookshire (contrabbasso e percussioni), Tylon Barea (batteria e percussioni), un secondo batterista in un brano (Alt Valdez) e il trombonista Glen Ferris in un altro. Musicisti che in seguito combinarono poco o nulla, ma che nell’occasione si fecero notare un po’ tutti, vuoi perché Les Coulter e Bordeaux firmarono due brani a testa, tanti quanti ne scrisse il leader, vuoi perché la sezione ritmica si mostrò calibrata al punto giusto per sostenere uno strumento solista di fragile corporatura e infine per la misura di Bordeaux al clavicembalo, presente un po’ a sorpresa nei due brani firmati da Newton che aprono l’album: Bernie e Solomon’s Sons, le due sezioni della mini suite Arkansas Suite. Composizione che lascia subito intendere quanto Newton scrivesse musica affatto originale e fosse già un virtuoso dello strumento. Si perfezionerà col tempo, ma soffio, pizzicato, impiego di note multiple, effetti di vibrato e di glissando, finanche la percussione delle chiavi sono voci del repertorio chiaramente ascoltabili.

Bernie è in pratica un solo realizzato con sovraincisioni: strati sovrapposti e intrecciati intorno a una linea guida dal timbro ancestrale, suggestione suscitata da un flauto di bambù. L’insieme crea un’atmosfera ipnotica, avvolgente e un pizzico inquietante. Dall’ipnosi ci risveglia proprio l’ingresso del tutto inaspettato del clavicembalo, un fulmineo solo posto in coda che funge da ponte al brano successivo. Solomons’ Sons ha un tema che si libra soave e la vecchia tastiera funge da zavorra per evitare che fugga via del tutto.
Arkansas Suite è nel complesso musica davvero senza tempo. Nella successiva Skye sembra che si finisca da tutt’altra parte per il tuonare iniziale delle percussioni, ma Newton entra in scena presto e avvia una dolente conversazione con Les Coulter (autore del brano). Il lavoro chitarristico non è memorabile ma il leader tesse e ricama impreziosendo una trama altrimenti semplice. Repentino cambio di scena in Darlene’s Bossa: una piacevole frivolezza che tiene fede al titolo, firmata sempre dal chitarrista ancora una volta soverchiato dall’esuberanza di Newton che volteggia leggiadro. È il brano che vede Valdez alla batteria.
Ci si tuffa nella memoria e nella tradizione che conta con il classico ellingtoniano posto in chiusura del primo lato: Sophisticated Lady. È l’unico vero solo dell’album, privo anche di sovraincisioni. Sfoggio di bravura e al tempo stesso dichiarazione d’amore per una musica immortale, tradendo senza mai tradire la scrittura del Duca.
Il secondo lato a sua volta è un’altra suite: Poor Theron (Introduction and Call seguita da Main Theme), composta da Bordeaux. Qui si respira molto di più la temperie dell’epoca: afro-astrazioni sulla scia dell’esperienza dell’Art Ensemble Of Chicago. Introduction and Call è un intreccio prima rarefatto poi folto di percussioni assortite che sibilano, rimbombano, squittiscono e picchiettano. Ritorna il flauto di bambù in una dimensione molto più primitiva. Sul finire spunta da questa foresta di suoni spiritati un pianoforte e si scivola in Main Theme con la presenza dell’altro ospite, Glen Ferris. Post free da camera con un rapido scambio di battute tra questi e Newton, un lungo affondo di Bordeaux al piano non privo di spunti interessanti e un sunto pacato del leader con il supporto di Ferris a chiudere un brano privo di centro.
In definitiva, a quarantacinque anni compiuti, l’album passa l’esame del tempo: il suo fascino un po’ naïf è tuttora intatto.

Ascolti
  • James Newton, Axum, ECM, 1982.
  • James Newton & David Murray, Solomon’s Sons, Circle, 1977.
  • Sam Rivers, James Newton, Flutes!, Circle, 1977