La voce, il jazz
e il mistero della morte

Theo Bleckmann
Elegy
ECM, 2017
Formazione: Theo Bleckmann, voce; Ben Monder, chitarra; Shai Maestro piano; Chris Tordini, contrabbasso; John Hollenbeck, batteria

Theo Bleckmann
Elegy
ECM, 2017
Formazione: Theo Bleckmann, voce; Ben Monder, chitarra; Shai Maestro piano; Chris Tordini, contrabbasso; John Hollenbeck, batteria


A poco più di un anno dall’uscita di di A clear midnight. Kurt Weill and America, ospite del quartetto della pianista tedesca Julia Hülsmann, Theo Bleckmann firma Elegy, una nuova opera per la ECM. In questa occasione il cantante affronta per la prima volta un progetto interamente a suo nome per l’etichetta di Manfred Eicher, dopo le collaborazioni con Meredith Monk e la Hülsmann, dimostrandosi compositore e paroliere di grande raffinatezza e profondità. Bleckmann ha scelto di farsi affiancare da un quartetto d’eccezione (vedi scheda), in una formazione che solo superficialmente può essere riferita al jazz, ma che offre alla voce di Bleckmann un perfetto equilibrio tra improvvisazione e scrittura, ricerca sonora ed espressività. Abbiamo conversato con Bleckmann riguardo a Elegy e al suo lavoro come autore e cantante “non convenzionale”.

 

Come è nato Elegy?
Quattro o cinque anni fa ho cominciato a scrivere canzoni incentrate sul tema della morte e della trascendenza. Molti di questi brani sono nati dall’impulso di pensare, scrivere, cantare della morte, ma non in modo cupo e triste. Quando un anno e mezzo fa è morta mia madre, mi sono reso conto che quando qualcuno sta per andarsene non si prova solo una tristezza terribile, ma molte altre emozioni… anche luminosità e bellezza, così ho deciso di concentrarmi su questo aspetto. Pensavo in particolare a due cantate di Bach, Ich will den Kreuzstab gerne tragen e Ich habe genug, che parlano della morte come di qualcosa da attendere con impazienza, come un viaggio verso qualcosa di più grande e differente. Volevo provare a parlarne senza sfumature religiose.

Quindi la morte non dal punto di vista del lutto, ma da una prospettiva diversa, e soprattutto non da un punto di vista confessionale o istituzionale.
Non sono religioso, ecco perché ho voluto tenermi lontano da questo aspetto. Non ho problemi a cantare musica religiosa, ma non sono cattolico, non più almeno… ho fatto il chierichetto per dieci anni, quindi credo di aver già dato abbastanza…

Potremmo definirlo un approccio più filosofico.
Sì, si tratta di rendersi conto che la morte forse non è la cosa peggiore per la persona che sta morendo, ma qualcosa di liberatorio. In fondo la morte fa parte della vita, di questo mondo. Non è qualcosa che possiamo evitare. Tutti abbiamo paura di morire, io per primo, ma mi piace pensare che la morte possa essere qualcosa di misterioso e bellissimo.

Gli ultimi versi di Take My Life (“May there be no heaven’s gate / no other God than silence”) parlano del silenzio anziché dell’aldilà, o meglio del silenzio come autentico aldilà. Sembra che questo sia strettamente legato alla ricerca sonora che ha condotto in Elegy. Anche il mood di To Be Shown To Monks at a Certain Temple appare simile.
Il testo è una poesia che un centro zen di New York ha chiesto a me e Ben Monder di mettere in musica. Ho messo in musica questa poesia perché parla proprio dell’idea di non preoccuparsi troppo della morte, ma di continuare a vivere. È questo il messaggio della poesia. Ho scelto una forma molto semplice e breve, e il risultato è molto delicato.

Come ha cominciato a collaborare con Shai Maestro?
Shai mi ha scritto un’email tre anni fa, di punto in bianco, per dirmi che era un mio fan e che voleva suonare con me. Non lo conoscevo, ho guardato un suo video in rete… e abbiamo iniziato a suonare insieme. Il primo concerto si è tenuto alla Brooklyn Library nel 2015. È stato subito chiaro che avevamo un ottimo rapporto non solo come musicisti, ma anche come amici, il che è importante quando lavori su un materiale così difficile. Ho incontrato Chris Tordini quando John Hollenbeck mi ha invitato a suonare con il Claudia Quintet, e poi di nuovo nel Large Ensemble di John.

Manfred Eicher ha lavorato da subito al progetto o è arrivato successivamente?
Manfred ha collaborato al progetto fin dall’inizio. È stato determinante nel dare forma al disco. È stata sua l’idea di utilizzare alcuni brani come interludi strumentali e come base per altrettante improvvisazioni libere.

Definirebbe Elegy come un disco “jazz”?
Sì, suono con musicisti jazz, nel disco c’è molta improvvisazione, e io non ragiono in termini “classici”. Credo che “jazz” sia un termine abbastanza ampio per includere un cd come questo e, per esempio, l’hard bop.

A questo proposito, quali sono le sue influenze musicali?
Fra i musicisti che mi hanno più influenzato ci sono Erik Satie e Hanns Eisler. Come compositore sono attratto dalle forme semplici ed efficaci, essenziali, ma con una componente di mistero e di bellezza. Ho lavorato a lungo, e qualche anno fa ho realizzato un progetto discografico, su Charles Ives, un compositore molto più complesso, ma che utilizza forme in fondo piuttosto semplici, brani di appena sei battute, materiale stranissimo e qualche volta ai limiti dell’insuonabile. Mi piace molto perché va contro le regole. Anche Kenny Wheeler e Norma Winstone mi hanno influenzato molto, oltre ovviamente a Sheila Jordan, che è stata mia insegnante tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

Cosa pensa della sperimentazione?
Non mi ritengo un cantante sperimentale nel senso di qualcuno che propone le proprie cose a un pubblico senza sapere se funzionerà o meno. Non sperimento di fronte a un pubblico, ma a casa. Quando mi esibisco scelgo forme o sonorità ben definite. Ovviamente c’è anche molta improvvisazione, e le cose cambiano in continuazione, ma non si tratta di una forma completamente aperta. Credo che il termine “sperimentale” allontani molte persone, poiché implica che al performer non interessi del pubblico. “Adesso faccio qualcosa e vediamo cosa succede, sperando che funzioni”.

Da sinistra: John Hollenbeck, Shai Maestro, Theo Bleckmann, Chris Tordini, Ben Monder.
Foto: Caterina di Perri.

In effetti lo stile di Elegy è molto semplice, misurato. Per esempio, quasi non ci sono assoli, cosa che ci si aspetterebbe da dei jazzisti. Shai, Ben e gli altri si sono trovati a loro agio con questo approccio?
Sì, certo. Sono tutti compositori, conoscono molto bene le forme, sanno come devono procedere le cose. Non si tratta di costruire momenti individuali, e se accade tutto deve riferirsi a un arco più ampio. Credo sia per questo che mi piace lavorare con Ben, John, Chris and Shai, perché capiscono che il loro compito non è quello del solista. In fondo non fanno altro che suonare insieme. È più simile a una rock band, o una pop band, in questo senso.

Si può parlare di improvvisazione collettiva?
Bisogna scegliere le persone molto attentamente quando si fanno cose di questo tipo, perché si corre il rischio che suoni molto “sperimentale”. Quando parlo di “libertà”, penso alla libertà da ogni convenzione: siamo liberi di suonare in un’unica tonalità per tutta l’improvvisazione, oppure seguendo la pulsazione, e possiamo ottenere un risultato bellissimo. Quando si parla di musica sperimentale si pensa a una sonorità aggressiva, atonale, dove tutti suonano molto forte e in modo molto denso. Per me suonare liberamente significa essere liberi da tutto: ad esempio si può suonare in modo molto rarefatto o delicato, si possono scegliere suoni strani, si possono seguire metri diversi contemporaneamente. Sono molto soddisfatto di questi musicisti, perché capiscono tutto questo, e senza bisogno che io glielo spieghi.

Lei usa la voce in modo molto versatile, e si ha quasi la sensazione che faccia in modo che gli altri musicisti utilizzino il loro strumento come una voce.
Certo, è un’osservazione giustissima. Avevo paura che stesse per dire che uso la voce come uno strumento, cosa che rifiuto del tutto. Non voglio che la mia voce suoni come uno strumento, ma semplicemente come la mia voce!

A questo proposito ci sono brani, come ad esempio Mission, dove usa i vocalizzi. In realtà, riesce a dire molto senza ricorrere alle parole. Mi pare che riesca a fondere la sua voce con gli altri strumenti, rimanendo una voce ma senza assumere il ruolo del leader o del front man.
Poiché ci sono molte situazioni in cui non sono il protagonista e la mia voce si limita ad accompagnare, ho voluto che fosse così anche nella mia musica, ed essere parte della texture complessiva. In Mission, per esempio, io e Ben suoniamo le stesse note, ma il risultato è un suono composito, non è qualcosa che puoi ottenere solo da me o da Ben. Per sua natura il cantante è sempre davanti, semplicemente perché quando c’è qualcuno che canta tendiamo ad ascoltare la voce. Ho cercato di andare in una direzione diversa, prima di tutto evitando di cantare un testo, e in secondo luogo senza pormi “davanti”. Dal punto di vista musicale e dell’orchestrazione suonerebbe male se io fossi “di fronte” a cantare singole note.

In un’intervista ha definito la sua band “ambient”. Cosa intende esattamente?
Intendevo dire che mescoliamo molto i suoni. Il risultato è una nuvola di suoni, così compatta che è impossibile distinguere uno strumento dall’altro.

Lei usa spesso delay e loop machine, ma in modo molto misurato. Qual è il suo approccio alla tecnologia?
Non voglio che la mia voce diventi il sostituto di un altro strumento. Non cerco di fare la linea di basso, il trombone o la batteria. Uso l’elettronica come un’estensione della mia voce. Cerco di fare cose che non potresti fare con altri strumenti, con le tastiere o con gli archi. Trovo affascinanti e incredibili le cose che si possono fare con il beatbox, ma non è una tecnica che conosco abbastanza bene, e soprattutto non è quello che voglio fare davvero. Non mi piace fingere, o essere il sostituto di un altro strumento.