Intervista col marziano


Giovanni Caprara
Rosso Marte
UTET, Torino, 2016
pp. 272, € 16,00

Si potrebbe definire Giovanni Caprara la “memoria storica” dell’esplorazione spaziale in Italia. Firma notissima del Corriere della Sera, dove dal 2002 dirige la redazione scientifica, presidente dell’UGIS (l’Unione dei giornalisti scientifici italiani fondata nel lontano 1966), Caprara ha seguito in presa diretta alcune delle tappe più importanti ed emozionanti dell’Era Spaziale, intervistandone i protagonisti e raccontandone con lo stile e il garbo del divulgatore e del giornalista della vecchia scuola anche gli aspetti tecnici più complessi al grande pubblico, che poi è quello che finanzia, attraverso le proprie tasse, questi programmi ambiziosi che costituiscono l’aspetto forse più nobile e immaginifico della dimensione umana. A lui si sono rivolti tra gli altri l’Agenzia spaziale italiana, che gli ha affidato la stesura del fondamentale Storia italiana dello Spazio (2012), e le compagnie Thales Alenia Space e Telespazio, che hanno promosso la realizzazione del bellissimo volume illustrato Era spaziale (2007). Alcuni dei suoi tantissimi articoli sono inclusi nel volume pubblicato dalla Fondazione Corriere della Sera L’avventura della scienza. Sfide, invenzioni e scoperte nelle pagine del Corriere della Sera (2009), ma molti aneddoti raccolti direttamente a Cape Canaveral o nel cosmodromo di Bajkonur si ritrovano anche nel suo ultimo libro Rosso Marte, edito da Utet (2016). D’altronde è verso Marte che si sono dirette la maggior parte delle sonde inviate oltre l’orbita terrestre, ed è a Marte che guardiamo da molti anni con il preciso obiettivo di replicare, in grande, lo storico allunaggio del 1969. Il Pianeta Rosso rappresenta pertanto l’ultima frontiera, con cui tutti i programmi spaziali sono destinati a confrontarsi. Partendo dalle pagine del suo libro, abbiamo dunque rivolto a Giovanni Caprara alcune domande per comprendere meglio il rapporto tra Marte e il nostro futuro spaziale.

Nel ricostruire la storia dell’ossessione umana per Marte nel XIX e nei primi decenni del XX secolo, lei evidenzia il fatto che la convinzione di un Marte abitabile e anzi abitato, forse anche da miliardi di esseri viventi come noi, fosse molto comune all’epoca. Cosa alimentava queste idee?
Ci sono, credo, due aspetti. Il primo discende dalle origini della storia umana: guardando il cielo ci si è sempre chiesto se ci fossero altri esseri viventi intelligenti, altra vita al di fuori della Terra. Da qui nasceva immediatamente la fantasia di popolare l’universo di esseri alieni, quasi rispondendo a una domanda interiore dell’uomo; questa convinzione è stata sempre valida e da qui sono nati romanzi più o meno fantastici. Il secondo aspetto più specificamente legato a Marte deriva dalle osservazioni di Giovanni Schiaparelli che, parlando di canali, accese una fantasia ancora più concreta, soprattutto nel personaggio di Percival Lowell, il quale credette effettivamente alla possibilità che queste strutture sulla superficie marziana fossero opere artificiali di esseri intelligenti. Da lì è nata tutta un’idea che addirittura Marte fosse popolato da esseri ancora più intelligenti dei terrestri: vivendo su un pianeta ormai spento e costretti pertanto ad abitare nel sottosuolo e a emergere solo in certe stagioni dell’anno, questo significava che avevano sviluppato capacità superiori alle nostre; e da lì è nata poi tutta quella sequenza di romanzi e di film fantascientifici che ha oscillato a lungo tra marziani buoni e marziani cattivi, tra quelli che invadevano la Terra o che piuttosto ci prospettavano la possibilità di una civiltà superiore. La realtà è che c’è stato non solo un fraintendimento nella traduzione del termine “canali”, che Lowell erroneamente interpretò come opere artificiali, ma a questo si è legato in maniera più concreta quella fantasia che durava da secoli che proiettava nel cielo la convinzione che esso fosse in qualche maniera abitato. Tra l’altro oggi la scoperta di pianeti extrasolari rafforza sempre di più l’idea che non siamo soli nell’universo e che sui miliardi di pianeti intorno ad altre stelle possano essersi sviluppate altre forme di vita.

Lei ricorda il comunicato secco che la NASA rilasciò dopo il flyby di Mariner 7 del 1969: “Il pianeta Marte è un deserto freddo e inospitale”. Quale fu l’impatto di questa scoperta sui progetti all’epoca di moda di imminenti spedizioni umane per conquistare il Pianeta Rosso?
Paradossalmente ebbe un impatto positivo. Perché è vero che la sonda aveva visto un ambiente che non era sicuramente quello immaginato da Lowell, le cui caratteristiche erano così lontane dal lasciar immaginare qualsiasi forma di vita che diventava difficile pensare che da quel momento ci potesse essere un impegno a continuare l’esplorazione marziana. E invece è successo esattamente il contrario, perché pur con queste osservazioni il mito marziano reggeva; e, considerando la storia scientifica di Marte, si è cominciato a immaginare che quel pianeta potesse aver comunque ospitato, nel corso della sua evoluzione, una forma anche solo larvale di presenza biologica che andava cercata. Si è cominciato a capire che la tecnologia poteva essere ulteriormente perfezionata per vedere se quest’idea dell’evoluzione di Marte non avesse lasciato traccia perlomeno nelle profondità, ed è quello che si continua a fare da allora in maniera sempre più intensa.

Un’ampia parte del suo libro racconta la lunga sfilza di fallimenti americani e sovietici nella corsa al Pianeta Rosso, a cui si aggiunge quello europeo dell’ottobre scorso con la perdita del lander Schiaparelli. Perché è così difficile, ieri come oggi, andare su Marte?
Perché richiede una tipologia sofisticata per affrontare l’arrivo sul pianeta, che è un pianeta con la sua vitalità, nel senso che c’è ovviamente da contrastare una gravità, e da fare soprattutto i conti con un’atmosfera, la quale, seppur esile, pone una sfida indubbia a qualsiasi veicolo che si avvicini, diversamente per esempio dalla Luna. Le simulazioni sulla Terra hanno cercato di superare questa barriera, ma fino a un certo punto. Il disastro del lander Schiaparelli ha dimostrato appunto i limiti di questa concezione; il problema con Schiaparelli è nato da un’oscillazione eccessiva dopo l’apertura del paracadute che non era stata simulata e che ha innescato una catena di ordini da parte del computer che ha portato allo spegnimento del computer e alla caduta precipitosa. Ma come mai la sonda ha oscillato così tanto? Probabilmente c’erano delle condizioni metereologiche, in particolare venti con una forza superiore a quella prevista, che hanno fatto oscillare il sistema durante l’ultima fase della discesa. L’atmosfera marziana è appunto un aspetto che pone dei problemi difficilmente simulabili in maniera totale e questo costituisce una sfida sicuramente notevole. In futuro il problema verrà sempre limitato, da una parte costruendo veicoli che siano sempre più concepiti con margini di tolleranza notevoli e capaci di autogestirsi in condizioni impreviste, quindi con una maggior “intelligenza” di bordo e strumenti capaci di neutralizzare disturbi finali; dall’altra con un’intensificazione della simulazione grazie a una sempre migliore conoscenza dell’ambiente attraverso i dati raccolti delle sonde, che permetta di affinare la comprensione del potenziale ambiente nel quale la sonda si troverà a operare.

A tal proposito c’è un certo dibattito tra gli addetti ai lavori tra chi sostiene che sarebbe ormai inutile mandare astronauti su Marte o altri corpi celesti perché basterebbe rendere più evolute sonde e rover, attraverso intelligenze artificiali sempre più sofisticate in grado di agire in totale autonomia, e in prospettiva imitando anche l’agilità dell’essere umano, senza quindi affrontare i costi e i rischi di un’esplorazione umana, e chi invece sostiene che non si possa fare a mano della presenza di astronauti nello spazio, perché le loro capacità resteranno sempre superiori a quelle di qualsiasi macchina potremo riuscire a costruire. Lei ritiene che ci sia un futuro per l’esplorazione umana del sistema solare?
Io credo che non si possa immaginare l’esplorazione cosmica affidata solo ai robot e alle sonde. Penso che la presenza dell’uomo sia fondamentale, perché le sonde possono fare da battistrada per l’esplorazione iniziale, ma poi dopo deve arrivare l’uomo. È un fatto insito nel concetto stesso di esplorazione, nel quale l’uomo è sempre stato protagonista nonostante le difficoltà tecnologiche del momento; è inimmaginabile che a un certo punto si rinunci alla prospettiva della presenza umana nello spazio, considerando che l’uomo tra l’altro ha capacità ben superiori di affrontare emergenze e di osservare e scrutare con occhi molto più intelligenti di qualsiasi sonda che potremo costruire.

La NASA tuttavia continua a rinviare la data della prima missione umana su Marte: oggi si parla vagamente della seconda metà degli anni Trenta, ma in assenza di un programma specifico come l’Apollo. Qualcuno comincia a credere che, semmai andremo su Marte, a portarci lì sarà la SpaceX di Elon Musk, che lo scorso settembre ha presentato un progetto ambiziosissimo per realizzare una colonia umana su Marte in tempi ragionevoli. Se dovesse scommettere su chi dei due arriverà prima, su chi punterebbe?
Per la verità non credo che ci sarà un primo e un secondo piazzamento nella corsa per Marte. Lo stesso Elon Musk ha detto che il suo progetto, concepito in maniera molto visionaria e che ha bisogno di un’evoluzione tecnologica e ingegneristica straordinaria, nonché di immensi fondi, per essere concretizzato, va concepito come un’impresa che veda insieme pubblico e privato; è impensabile che sia un progetto sostenibile solo con capitali privati. Credo che il suo grandissimo merito sia quello di aver sollevato una visione che è sempre mancata finora all’America, e non solo all’America. Ha avuto insomma la funzione preziosa di stimolare l’ambiente aerospaziale ad accelerare degli impegni e una progettualità che finora è mancata agli Stati Uniti prima di tutto. Siccome tutti poi devono fare i conti con quello che faranno gli Stati Uniti in questo settore, di conseguenza il piano di Musk finirà per trascinare un cambiamento sicuramente positivo, ma in una logica di più stretta collaborazione tra pubblico e privato.

Nel suo libro lei scrive: “La Terra ha risorse limitate e già le consumiamo a un ritmo accelerato. La popolazione cresce in modo inarrestabile cercando di soddisfare al meglio le necessità. Si arriverà a un momento nel quale sarà indispensabile trovare un altro luogo dove abitare e prosperare, un’altra cosa dove la vita possa essere garantita in sicurezza”. È quindi dell’idea che la colonizzazione di Marte sia innanzitutto una necessità della nostra specie? Condivide l’idea di Elon Musk secondo cui l’unica possibilità per la sopravvivenza dell’Uomo consista nel diventare una specie “multiplanetaria”, magari attraverso la terraformazione di Marte?
Credo di sì, che questa sia una prospettiva alla quale guardare in maniera seria, seppure oggi siamo abituati a vederla come a un qualcosa di più fantascientifico che reale. Però si cerca di costruire questa pista in maniera molto seria con progetti davvero interessanti dal punto di vista della concretezza, e questo è un primo passo che si accompagna a una visione di sopravvivenza della specie che non potrà che trovare il suo futuro se non uscendo dalla Terra. Ciò perché la Terra ha una vita necessariamente limitata, legata a quella del Sole, e quindi la specie umana potrà sopravvivere solo quando avrà imparato a vivere nello spazio, allontanandosi dalla Terra; Marte è pertanto il luogo più adatto per immaginare un primo insediamento. In un secondo momento, poi, immaginando fantascientificamente un futuro remotissimo, sarà inevitabile allontanarsi anche dal Sistema Solare con astronavi e città spaziali che permettano all’umanità di essere in grado di sopravvivere nel cosmo indipendentemente dalla culla d’origine. Tutto questo ha a che fare con una concezione quasi filosofica di specie, la quale ha a mio avviso insito nel suo DNA il concetto di esplorazione e di sopravvivenza: una specie non può autoestinguersi, anche quando deve affrontare difficoltà ambientali e di adattamento troverà sempre il modo per rinascere e perpetuarsi, perché questo istinto di sopravvivenza è inscritto nel nostro codice genetico.

Se però un giorno arrivasse la scoperta che su Marte esistono ancora, sotto la superficie, forme elementari di vita, questo potrebbe costituire un ostacolo ai piani di “colonizzazione” del Pianeta Rosso? Da un punto di vista, diciamo, bioetico, dovremmo interrompere ogni progetto di trasformare l’ecosistema marziano e immaginare i futuri insediamenti umani sul pianeta come quelli in Antartide, finalizzati esclusivamente alla ricerca scientifica?
Intanto, una simile scoperta porterebbe a rivedere il concetto stesso di esplorazione e di rapporto con il cosmo, perché se trovassimo nuove forme di vita dovremmo in qualche maniera fare i conti con questa presenza, capire che caratteristiche possieda, quale forma di intelligenza esprima (se la esprime); in ogni caso un’altra forma di vita pone il problema dell’interazione, e da qui nascono altre risposte conseguenti che possono essere variegate. Da una parte, cioè, vedere se un’interazione è possibile: quando, nel corso della sua esplorazione del mondo, Homo Sapiens è uscito dall’Africa e, arrivando in Europa, ha incontrato Neanderthal, poi quest’ultimo si è estinto, forse proprio a causa dell’interazione con Sapiens. Anche in questo caso c’è da vedere che cosa porterà questa interazione, se si limiterà cioè a un rapporto distaccato all’interno di una colonia di ricerca, attraverso un sistema di infrastrutture simile a quello dell’Antartide, abitate solo da un ristretto numero di scienziati, oppure (cosa che mi sembra molto più verosimile) se non accadrà piuttosto che l’uomo cerchi un’interazione più stretta con la vita marziana, proprio perché, come dicevo, è insito nella nostra stessa natura andare oltre, sempre oltre, superando gli ostacoli che si incontrano strada facendo. Tutto dipende da cosa troveremo su Marte.

Letture
  • Giovanni Caprara, Era Spaziale, Mondadori Electa, Milano, 2007.
  • Giovanni Caprara, L’avventura della scienza. Sfide, invenzioni e scoperte nelle pagine del Corriere della Sera, Fondazione Corriere della Sera, Milano, 2009.
  • Giovanni Caprara, Storia italiana dello spazio, Rizzoli, Milano, 2012.