Futuri videoludici:
Cold War e altri inferni


In una pubblicazione del 1947 intitolata The Cold War: A Study in U.S. Foreign Policy, il giornalista americano Walter Lippmann definì la situazione sociopolitica che si era delineata in seguito agli avvenimenti della Seconda Guerra mondiale utilizzando il termine Guerra Fredda, che in breve tempo entrò a far parte del vocabolario comune (cfr. Lippman, 1987).
Nei quarant’anni successivi, testimoni della devastazione causata dalla bomba atomica, paura, diffidenza, paranoia, e un forte senso di precarietà erano parte della vita quotidiana. Tutto veniva letto secondo una logica binaria: Comunismo e Capitalismo, Bene e Male, Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, Oriente e Occidente.
Il videogame e la Guerra Fredda hanno molto in comune, sia dal punto di vista “genetico”, sia da quello cronologico. Si può affermare, infatti, che la tecnologia militare sviluppata durante la Guerra sia alla base di quella utilizzata, agli inizi degli anni Sessanta, per creare quelli che convenzionalmente vengono considerati i primi videogame. Inoltre, come nota Clemens Reisner, il momento di maggior diffusione del videogame coincide “con l’atto finale e infine con il superamento del momento di stallo della Guerra Fredda” (cfr. Reisner, 2013).

Inevitabilmente, le dinamiche politiche e temi con i quali gli studenti prima e gli sviluppatori poi avevano a che a fare quotidianamente si riversarono all’interno dei loro giochi, al punto che il videogame può in un certo senso essere considerato una testimonianza attraverso la quale leggere le diverse fasi che hanno caratterizzato il mezzo secolo di Guerra Fredda e, grazie alla sua straordinaria diffusione, elemento che ha contribuito attivamente a plasmare l’opinione pubblica (ibidem).
È facile, per esempio, ritrovare l’ossessione per la “corsa allo spazio” nei videogame creati tra l’inizio degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta.
In questo senso, Spacewar! (1962), opera pionieristica frutto della collaborazione di alcuni studenti del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ebbri di matematica, hacker culture e letteratura sci-fi, rappresenta un caso eccellente. Nella sua semplicità, dando la possibilità a due giocatori di scontrarsi in una battaglia uno-contro-uno a bordo di navicelle spaziali, il gioco già anticipava un futuro prossimo temuto e reso verosimile dal ripetuto lancio in orbita di missili, sonde, satelliti, e dalle dichiarazioni di John F. Kennedy, certo di approdare sulla Luna prima della fine del decennio.
Dall’inizio degli anni Ottanta, anche grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, cominciarono ad apparire centinaia di titoli che, pur mantenendosi sulla scia della sempre attuale “corsa allo spazio”, lasciavano emergere un altro grande tema che ha caratterizzato gli anni più tesi della Guerra Fredda: la paura dell’invasione.
Il capostipite, in questo caso, è Space Invaders, sviluppato da Toshihiro Nishikado per Taito nel 1978. Il gioco si basava su un principio molto semplice: il giocatore, nei panni di un difensore della Galassia, non doveva far altro che sparare alle orde di alieni che, organizzati in file ordinatissime, scendevano inesorabilmente dalla parte alta dello schermo con il solo scopo di distruggere la Terra. In qualche modo, ciò che emerge in Space Invaders, così come in Gorf (Midway, 1981), Pleiads (Tecmo, 1981), Phoenix (Taito, 1980) e in tanti altri giochi più o meno vicini al capolavoro di Nishikado, è la determinazione a contrastare l’altro in una messa in scena interattiva dell’eterna lotta tra il Bene (il giocatore) e il Male (l’invasore). Quale fosse poi questo temibile invasore appare chiaro in un gioco irriverente sviluppato da Starpath e intitolato Communist Mutants from Space (1982).
Sebbene nella maggior parte dei casi questi giochi non avessero velleità politiche (perlomeno non dichiarate), possono facilmente considerarsi sintomi di un sentimento condiviso, una proiezione futura e possibile di uno scenario presente e reale.

Il ritorno del reale
Nel suo articolo Sulla distopia, con riferimento alla letteratura distopica, Manuela Ceretta ha notato che “come l’utopia, anche la distopia inventa una società che, benché frutto dell’immaginazione, non ha caratteri arbitrari, ma riflette come una cartina di tornasole paure ed angosce tipiche di un’epoca” (Ceretta, 2012).
Nel 1981 la GDI pubblicò il gioco Red Alert che, pur presentando un gameplay simile a quello di Space Invaders, dava al tema dell’invasione una dimensione reale, scegliendo come ambientazioni l’Italia, la Francia, il Giappone, la Germania Ovest, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ognuna delle quali caratterizzata da riferimenti specifici, come la Tour Eiffel o il Monte Fuji. L’anno dopo, nel 1982, la Strategic Simulations Inc. pubblicò per Apple II e Commodore 64 Germany 1985, primo episodio della serie When Superpowers Collide.
Il gioco simulava il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica a partire da un’ipotetica invasione della Germania Ovest da parte della Russia. Ambientato in un futuro immediato, più che prossimo, Germany 1985 metteva in atto, simulandole e senza preoccuparsi di mascherarle, le paure più grandi del momento storico nel quale era stato concepito.

Alla luce delle parole di Ceretta, tuttavia, è possibile leggere come vere e proprie distopie non solo i videogame ad ambientazione spaziale o i wargame, ma anche opere apparentemente insospettabili, come suggerisce Clive Fencott quando parla di Pac-Man (Namco, 1980) nel volume Game Invaders (cfr. Fencott, 2012). In un’analisi approfondita dell’opera, che tiene conto del contesto storico nel quale è stata concepita, l’insaziabile avatar giallo potrebbe considerarsi come la rappresentazione del consumatore “modello”, colui che sfida forze soprannaturali per il solo scopo di consumare ancora.
Una connotazione, questa, che secondo Fencott “mette in scena i miti della Guerra Fredda, che dominavano tutti gli aspetti della vita quotidiana nel momento in cui è stato concepito” (ibidem). Assumendo questo punto di vista, persino il gioco apparentemente più innocuo di tutti i tempi, per ammissione dello stesso sviluppatore creato per portare le ragazze in sala giochi, si trasforma involontariamente in un’opera distopica.
A partire grossomodo dalla metà degli anni Ottanta, i rapporti tra blocchi opposti si fecero sempre meno aspri, e l’opinione pubblica cominciava a percepire questo calo di tensione come l’inizio della fine della guerra.
In questo periodo, la produzione videoludica dedicata alla Guerra Fredda si fece sempre meno corposa, ma non sparì mai del tutto (cfr. Hussey): giochi come Harpoon, (Spectrum Holobyte, 1991), battaglia navale simulata, Crisis in the Kremlin (Spectrum HoloByte, 1991) e F-117A Stealth Fighter (MicroProse, 1992) continuavano a evocare quello che ormai appariva come uno scampato pericolo.
Tuttavia, è interessante notare come gli ultimi due, pur partendo da elementi, fatti o ambientazioni reali, si lanciassero in simulazioni di possibili di scenari bellici futuri. In F-117A Stealth Fighter, per esempio, oltre a missioni storiche come il bombardamento della Libia o l’invasione di Panama da parte degli Stati Uniti, sono previsti come teatri di guerra anche la Corea e l’Unione Sovietica. Allo stesso modo, in Crisis in the Kremlin il giocatore, dittatore dell’Unione Sovietica a partire dal 1985, si trova ad affrontare numerose crisi che in parte traggono ispirazione da fatti realmente accaduti (come il disastro di Chernobyl), e che, man mano che il gioco prosegue, diventano frutto della fantasia degli sviluppatori.

Ancora oggi, la Guerra Fredda continua a essere fonte di ispirazione per numerosi videogame. Lucas Pope, sviluppatore indipendente, è balzato agli onori della cronaca con il suo Papers, Please (2013), definito dallo stesso autore un “thriller distopico” ambientato ad Arstotzka, nazione di fantasia nella quale vige il regime comunista, tra il 1982 e il 1983. Il giocatore impersona un funzionario di frontiera che con la sua misera paga dovrà far fronte alle esigenze della sua famiglia. Da lui dipenderà la sicurezza di Arstotzka, ma anche il destino delle persone che proveranno in tutti i modi a varcare i confini della nazione per i motivi più disparati, talvolta legati a situazioni familiari (come il ricongiungimento con un coniuge), talvolta a questioni politiche. Anche in questo caso, realtà e fantasia non sono poi così distanti.

Apocalisse nucleare
Proprio a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’evoluzione del medium permise agli sviluppatori di videogame di cimentarsi in narrazioni sempre più articolate. Complice ancora una volta il clima di insicurezza generato da una situazione tutto sommato ancora instabile e dalla corsa agli armamenti nucleari, in questo periodo emersero numerose distopie videoludiche di grande successo, alcune delle quali ambientate proprio in un futuro segnato dalla presenza di piccole comunità di sopravvissuti riorganizzatesi in seguito all’apocalisse nucleare. Così come lo scrittore di distopie, che “presenta […] la società ideale come l’evoluzione di condizioni contemporanee negative, cercando di mettere in evidenza i pericoli a cui si andrà incontro se si continuerà la via attualmente intrapresa” (cfr. Cafuri, 2012), anche lo sviluppatore di distopie parte da tendenze negative reali (come la minaccia nucleare) e presenti, proiettandole in un futuro che le amplifica e le concretizza portandole a compimento.
In questo senso, il titolo che stabilì alcuni dei canoni ai cui molti dei giochi “di genere” si sono ispirati e continuano tutt’oggi a riferirsi è Wasteland, un gioco di ruolo sviluppato nel 1988 da Interplay.
L’olocausto nucleare che dà inizio agli avvenimenti narrati avviene nel 1998, quando la situazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica si fa tanto tesa da coinvolgere il mondo intero (ad eccezione di Svizzera, Irlanda e Svezia che rimangono neutrali), e i due blocchi decidono di scatenare, l’uno contro l’altro, il novanta percento della loro potenza nucleare. Un gruppo di sopravvissuti, ex-militari statunitensi chiamati “Ranger”, prende possesso di una prigione in Arizona, che nell’arco di un secolo raccoglierà molte delle comunità che nel frattempo si erano organizzate autonomamente nei territori circostanti. Nel 2087 i Ranger, allarmati da strani avvenimenti, intraprendono un viaggio che li porterà a scoprire l’esistenza di comunità sconosciute e, soprattutto, la minaccia di un’Intelligenza Artificiale che progetta di sterminare quel poco che rimane dell’umanità per sostituirla con esseri geneticamente modificati.

Erede morale di Wasteland è Fallout, serie di grande successo che conta numerosi episodi sviluppati tra il 1997 e il 2015 da Interplay prima e da Bethesda poi, ambientati in California tra il XXII e il XXIII secolo.
Il titolo fa riferimento alla ricaduta di materiale radioattivo causata da un’esplosione nucleare sotto forma di pulviscolo, e già preannuncia i contenuti del gioco. Il mondo di Fallout, infatti, è reso aspro e inospitale a causa di una guerra scoppiata nel 2077 tra Stati Uniti e Cina, che ha costretto i superstiti a rifugiarsi all’interno dei Vault, vere e proprie cittadine sotterranee che proteggono dalle radiazioni chi le abita.
Dal punto di vista del riferimento alla Guerra Fredda, è interessante notare come l’estetica del gioco si rifà a quella degli anni Cinquanta, decennio in cui vennero effettuati numerosi test per l’utilizzo dell’energia nucleare sia in ambito militare sia civile.

Declinazioni sociali e naturali
Roberta Cafuri individua due tipi di distopia: la Distopia Sociale, “luogo dove la società opprime il singolo”, e la Distopia Naturale, dove a opprimere il singolo è la natura.
La prima ha George Orwell e il romanzo 1984 (1949) come suo massimo esponente, mentre la seconda ha come punto di riferimento The Time Machine (1895) di George Wells (cfr. Cafuri, 2012). Seguendo Cafuri nella sua suddivisione tra distopia sociale, sono tante le distopie videoludiche che possono considerarsi “sociali”, mentre meno diffuse sono quelle considerabili “naturali”.
In queste ultime, la catastrofe naturale è più un pretesto, uno sfondo sul quale cucire una narrazione. È questo, per esempio, il caso di The Last of Us (Naughty Dog, 2008), o della serie Resident Evil. Per quanto riguarda le Distopie Sociali, l’elemento tratto da 1984 che viene declinato in chiave videoludica è molto spesso la questione del controllo e della sorveglianza, alimentata e resa verosimile dalla diffusione delle più recenti tecnologie e dai social network che instaurano nell’utente più accorto il dubbio di essere continuamente osservato.

Direttamente ispirato al capolavoro orwelliano è Orwell. Keeping an Eye on You (Osmotic, 2016). Nel gioco, “Orwell” è il nome di un programma di controllo in grado di tracciare e monitorare ogni persona all’interno della Nazione. Non tutte le informazioni raccolte, però, vengono rese pubbliche: un gruppo ristretto di researchers ha il compito di vagliarle, selezionando quali trasmettere alle forze di sicurezza.
In seguito a un attentato nella città di Bonton, capitale della Nazione, il giocatore vestirà i panni di un researcher, con il compito di filtrare le informazioni per individuare i colpevoli. Le conseguenze, anche negative, delle decisioni prese, mettono in evidenza il pericolo, già presagito dallo scrittore britannico, di un clima di sospetto e generale pregiudizio conseguenza di un controllo capillare che invade, condizionandola, la vita di ogni singola persona.
Temi simili sono trattati in Watch Dogs (Ubisoft, 2014) e in Mirror’s Edge (DICE, 2008). Nel primo caso, il Grande Fratello è rappresentato dalla Blume Corporation, che grazie al Central Operating System (ctOS) è in grado di avere accesso praticamente a tutti i dispositivi elettronici di Chicago, compresi telefoni, telecamere di sicurezza, webcam e ATM.
Il giocatore veste i panni di Aiden Pearce, hacker dal passato turbolento in grado di infiltrarsi del ctOS e utilizzarlo per i suoi scopi. Così come in Watch Dogs, anche la società di Mirror’s Edge è sottoposta a un controllo serrato, perpetrato da un regime totalitario che controlla i cittadini monitorando ogni forma di comunicazione. Anche in questo caso, gruppi di persone chiamate runners contrastano il sistema recapitando informazioni riservate grazie alla loro abilità nel parkour. 
Interessante, infine, è il caso di Bioshock (Irrational Games, 2007), che bene illustra il rapporto tra utopia e distopia.

Come afferma Roberta Cafuri riprendendo Paola Gatti, “la distopia sarebbe un avvertimento […], un avviso che gli scrittori vogliono lanciare alla popolazione affinché non segua i sogni utopici, ma se ne tenga distante e cerchi di bloccare le avvisaglie della realizzazione dell’utopia. Essi cercano di mettere in guardia dall’utopia, esasperando le caratteristiche negative del loro tempo. Le distopie perciò riproducono alcune delle caratteristiche delle utopie di cui sono considerate il disvelamento, le rivelatrici della loro celata perversità, capaci di impedirne la realizzazione” (cfr. Cafuri, 2012). Anche Bioshock parte da presupposti utopici, poiché ambientato in una città sottomarina, Rapture, costruita negli anni Quaranta dal magnate americano Andrew Ryan per ospitare menti eccelse, liberandole dai principi morali ed etici della società, lasciandole perciò libere di esprimere la loro creatività. Nella migliore tradizione distopica, questa società iper-selezionata e illuminata finirà per implodere a causa dell’egoismo e della presunzione dei suoi abitanti.

LETTURE
––   Roberta Cafuri, L’arte tra distopie e utopie, in dadarivista.com, Speciale n. 1, 2012 – Utopia e Contro-utopie.
––   Manuela Ceretta, Sulla Distopia in Storia del pensiero politico, vol. 2, il Mulino, Bologna, 2012.
––   Clive Fencott et al. (a cura di), Game Invaders. The Theory and Understanding of Computer Games, Wiley-IEEE Computer Society PR, 2012.
––   David R. Hussey, Reading into the Cold War in Video Games, 1 ottobre 2013.
––   Walter Lippman, The Cold War in Foreign Affairs, vol. 65, n. 4, 1987.
––   Clemens Reisner, “The Reality Behind It All Is Very True”. Call of Duty: Black Ops and the Remembrance of the Cold War in Matthew Wilhelm Kapell, Andrew B. R. Elliott (a cura di), Playing With the Past. Digital games and the simulation of history, Bloomsbury, New York, 2013.

VISIONI
––   Interplay, Wasteland, Electronic Arts, 1988, videogame.
––   Irem, Red Alert, GDI, 1981, videogame.
––   Toru Iwatani, Pac Man, Namco, 1980, videogame.
––   Toshihiro Nishikado, Space Invaders, Taito, 1978, videogame.
––   Osmotic, Orwell, Keeping an Eye On You, Surprise Attack Games, 2016, videogame.
––   Lucas Pope, Papers, Please, 2013, videogame.