L’eroe dai mille corpi:
Blanqui e la politica cosmica

Auguste Blanqui
L’eternità viene dagli astri
Traduzione di Raffaele Fragola
Postfazione di Ottavio Fatica
Adelphi, Milano, 2023
pp.132, € 13,00

Auguste Blanqui
L’eternità viene dagli astri
Traduzione di Raffaele Fragola
Postfazione di Ottavio Fatica
Adelphi, Milano, 2023
pp.132, € 13,00


Perché un attivista politico, un uomo d’azione e di orazione che cavalca la storia della Francia repubblicana, assetato di “violenza fattistica, vale a dire nutrita di fatti” (la citazione di Benito Mussolini è riportata nella pregevole postfazione di Ottavio Fatica alla nuova edizione Adelphi de L’eternità viene dagli astri di Auguste Blanqui) e votato all’ideale socialista, dovrebbe mai scrivere un trattato sullo spazio siderale? Perché in una delle sue numerose prigionie, segregato in una cella in Bretagna, Blanqui spese tempo a pensare, come un filosofo greco, agli astri? Perché il cielo, quando ci si trova gettati nelle caverne? Immaginiamo che su un pianeta molto simile alla terra due uomini si incontrino nei pressi di un lago chiamato come quello sulla nostra Terra, Silvaplana. Uno è un anziano francese, uscito di recente da più di vent’anni di prigionia in Francia; l’altro è sulla quarantina, tedesco. Sarebbe il 1881, e sulla nostra terra Blanqui è già morto da circa sei mesi quando Friedrich Nietzsche ha la sua visione dell’Eterno Ritorno fra le montagne svizzere. Ma su questo pianeta alternativo, apparentato ma differente, la malattia non ha ancora stroncato il rivoluzionario socialista. Una qualche ricombinazione particolare della materia permette a Blanqui e Nietzsche di incontrarsi sulle rive del Silvaplana, e forse anche di parlare, di discorrere circa il tema dell’eternità, caro a entrambi. Che accadrebbe se, propone Nietzsche al vecchio francese, questa vita come l’hai vissuta la dovessi rivivere infinite volte? Distogliendo il pensiero dalla sua propria figura ripetuta nel tempo, Blanqui tenta di avvicinare tutte le copie di sé che abitano proprio in quello stesso istante infiniti mondi uguali al suo. Non è una questione della nostra individualità, risponderebbe a Nietzsche; in questione è una comunità di esseri identici, sofferenti gli stessi dolori e gioiosi delle stesse fortune proprio ora, e non domani.

“Non è forse una consolazione sapersi costantemente, su miliardi di terre, in compagnia di persone amate?”.

È il 1872 quando l’opuscolo L’eternità viene dagli astri è pubblicato da un piccolo editore francese previo anticipo in denaro. Di nove anni precede le cruciali intuizioni nicciane sull’Eterno Ritorno, ma il pensiero del Novecento, escluso uno sprezzante Walter Benjamin, non baderà molto al precursore. “Quarantatré anni e due mesi di prigione, di arresti domiciliari e d’esilio, su settantacique”  è la vita di Auguste Blanqui (1805-1881), rivoluzionario francese paragonato, per gravitas e influenza nella storia politica europea, a Giuseppe Mazzini. Fondatore del blanquismo come corrente e metodologia rivoluzionaria, egli fu esponente di quella frangia del socialismo definito utopistico – cioè riformista e non prettamente rivoluzionario – da cui proprio per la sua attenzione alla sovversione violenta dell’ordine statale si discostò. Per Blanqui, il socialismo era il fine, la rivoluzione il necessario e unico mezzo. Il trattato astronomico lo scrive, come sottolinea Fatica nella succitata postfazione, durante i sei mesi di prigionia a Fort du Taureau, in Bretagna. Da fervente attivista politico, Blanqui diventa d’improvviso un metafisico e un astronomo. Il suo primo obiettivo di guerra: l’armonia celeste di Laplace, che definirà, utilizzando una parola che ricorre spesso nel libercolo, “assurda”. Salvo poi ritornarvi, ma è un ritorno che ha molto di hegeliano, o eracliteo: è la visione dell’immobilità armonica di ciò che brucia, si raffredda, e poi brucia di nuovo. Il divenire, ma di nuovo prigioniero dell’identità.

L’eternità viene dagli astri è in prima istanza una riflessione sulla natura del cosmo. Mostrandosi ben cosciente delle teorie scientifiche del suo tempo, pagina dopo pagina il sovversivo prigioniero abbandona sempre di più quello che sembra in prima battuta un commentario scientifico. Il testo si immerge in ciò che è a tutti gli effetti una teoria metafisica, a tratti più estesa di quella di Nietzsche. Gli elementi fondamentali a cui Blanqui fa riferimento sono l’idea di uno spazio infinito popolato da un insieme finito di elementi chimici semplici, e forze come la gravitazione e il calore che agiscono continuamente sugli elementi nello spazio. Le nebulose si aggregano in astri brucianti, e questi ultimi hanno una vita destinata a spegnersi, a dissolversi in nuove nebulose e via di nuovo, attraverso urti e collisioni verso nuove vite. Oppure, se non si producono stelle, saranno allora i pianeti a venir costituiti, dapprima roventi e poi via via più freddi; laddove c’era magma ora riposa l’acqua. Nebulose fisse, pianeti eterni; nulla ha meno senso per Blanqui, che disegna un cerchio senza contorni e offre l’immagine di un cosmo in continuo turbine – padre di tutte le cose, fra scontri, urti, disintegrazioni, è ancora Polemos.

Il Grande Infinito
Elementi finiti – ne indica cento per semplicità – di una materia eterna, capaci di ricombinarsi in uno spazio infinito, sono latori di una teoria dell’infinito quantitativo ed esteso. Ogni elemento, si afferma a partire dal paragrafo VI, Origine dei mondi, è singolo ma infinito: ogni elemento materiale è composto da infinite particelle. Combinati fra loro, gli elementi non potranno però che offrire una serie finita di possibilità. Eppure, se lo spazio è infinito e pieno di materia, le forze aggreganti e disgreganti richiederanno uno sforzo ulteriore a queste combinazioni: a ogni singolarità possibile saranno giustapposte copie identiche. Ogni variazione sarà accompagnata da un infinito numero di repliche e ripetizioni di sé. Per riempire lo spazio non bastano i tipi originali, poiché di materia libera, di idrogeno e carbonio e quant’altro, ve n’è sempre a disposizioni e sempre ve ne sarà. Differenza pura e ripetizione: per ogni differente vi è una miriade di eguali, ecco la legge. Il Grande Infinito è così una composizione peculiare, l’insieme di quelli che sono definiti infiniti parziali accanto alle singolarità originali, i tipi. Da una stessa origine – è sempre la stessa, è lo svolgimento che cambia – la materia agglomerata in molte possibilità andrà a distribuirsi spontaneamente su piani giustapposti per comporre poi una dimensione ulteriore. Ma non c’è alcun architetto nè intelletto divino; è la cecità meccanica della natura. Nessuna volontà trascende le leggi della materia.

Il pianeta di Blanqui si dovrà aspettare, nello spazio siderale, di possedere infinite copie di sé, esattamente identiche, così come molti ma limitati gemelli diversi. Quella in gioco è un’estensione: la compresenza totale di molti sé nell’universo, nello stesso istante. Blanqui farà, negli ultimi capitoli, il passo stoico di immettere nell’equazione il tempo nella sua forma ciclica: se la materia è eterna, ed è soggetta a questo divenire di conflagrazioni, collisioni, agglomeramenti, cristallizzazioni, allora ogni morte preannuncia una ricombinazione uguale alla precedente, a un certo punto. Eterno ritorno ed eterna compresenza dell’eguale. Del ritorno, il soggetto nietzscheano ha bisogno. Il peso più grande (titolo del famoso aforisma 341 de la Gaia Scienza) è per il cuore dell’uomo, di un singolo uomo, che si misura con questo seme ormai piantato, quest’olio rovente che penetra nei solchi del cervello e lo modifica per sempre. Che fare di questa vita, se fossi condannato a riviverla? La rivivrei uguale identica, ancora e ancora? Ne sarei orgoglioso, ne sarei terrorizzato?

Una nuova struttura mitologica
Il soggetto diventa l’eroe e l’antagonista di sé stesso, nuova struttura mitologica che si aggiunge ai mille volti di cui parla Joseph Campbell: la profezia di una chiusura soggettiva totale, in cui la coscienza abita le mura del proprio teatro. L’eternità di Blanqui è invece caratterizzata dalla compresenza di soggettività identiche, ripetizioni di sé e di ogni propria vicissitudine umana. Se Nietzsche mostra facilmente il fianco a posture fasciste, a prospettive particolarmente voraci sulla natura del soggetto – che d’altronde è chiuso nel suo dramma ouroborico, nella sua tragedia personale e singolare –, l’eterna compresenza di Blanqui è tutta un’altra storia. Ogni atto volontario non si misura soltanto con la mia soggettività, ma con una famiglia d’eguali che popola il cosmo intero: non sarò solo io a patire o a gioire, a violare o a consacrare, ma ogni aggregato che porta il mio viso e che veste la mia sofferenza. È una dimensione sociale – di un socius che parrebbe però non riuscire mai a costituirsi di fatto.

Una comune catastrofe
Una postilla speciale può seguire l’eterna compresenza. Se il destino degli astri è obbligato, ovvero tende necessariamente verso la morte, il Sole che esplode e la Terra che ne viene travolta, la catastrofe interessa tutti i mondi, identici o differenti. Tutto è in cammino verso il proprio annichilimento, e ciò che in quel tutto fa da casa a qualcuno o qualcosa, tutto ciò che è popolato, sarà la sentenza non soltanto della propria morte, ma di quella di ogni singolo agglomerato. La ricchezza e l’abbondanza saranno destinate, in un momento forse fugace o forse eterno prima della resurrezione, a venire azzerate nelle nebulose. Ma quanto è legata la vita di coloro che popolano a ciò che è popolato? Se quella di Nietzsche è una cosmologia ripiegata sul soggetto-eroe, l’individuo capace di abitare e superare abitando l’ultimo nemico, la morte, per ritrovarsi là dove si è lasciato, forse che quella di Blanqui tende verso nuovi protagonisti al di là dell’uomo e delle sue possibili forme? È già, quella in grembo al rivoluzionario francese, una storia della materia e dell’energia. Né popoli, ne case.

In numerosi passaggi, il più famoso dei quali contenuto in Sulla possibilità di pensare senza corpo (2001), Jean-François Lyotard sviluppa la “favola postmoderna” della catastrofe solare. Il sole, un giorno, esploderà, e si porterà dietro ogni residuo di vita organica che abita questa nostra terra. Per “l’umano”, e soprattutto per il pensiero, è quello il vero limite assoluto. Come si può pensare al di là della fine del pensiero? E chi è che pensa? Che responsabilità e che compito esiste nel pensare l’estinzione di un sistema complesso come è l’essere umano? Che responsabilità ha l’uomo verso la ricchezza e la complessità materiale che egli stesso è? Quello che Lyotard mette in gioco è un esempio di ciò che accade alla prospettiva narratologica dopo quella che egli stesso definì nel 1979 la caduta delle Grandi Narrazioni umanistiche di emancipazione – marxismo, cristianesimo, positivismo, eccetera. Laddove molte visioni future componevano il mosaico della modernità occidentale dal punto di vista di questo umano in relazione a forme di salvezza, di finalità, di scopo e di senso, dopo le grandi guerre e il tumulto che è stato il ventesimo secolo (ma ben prima: è Nietzsche ad annunciare il nichilismo), la postmodernità si sarebbe definita come il trascinarsi di schemi narrativi comunque propri dell’epoca passata (la modernità del postmoderno) ma scevri dei contenuti e delle speranze (caratterizzante allora il post).
La favola postmoderna è (volutamente) una grande narrazione nel quale, però, l’uomo non figura se non come manifestazione particolare della materia a un alto grado d’organizzazione. Suo antagonista è quindi l’entropia e la dissipazione – la morte, la quiete, l’equilibrio tanto degli astri che dell’universo. L’uomo diventa un agente capace di ridurre localmente l’entropia a scapito del suo ambiente, accumulare energia al fine di prolungare la sua condizione. Come affermava Norbert Wiener, padre della cibernetica, siamo esseri che corrono più forte che possono controcorrente (cfr. Wiener, 1964). Pensare la morte solare, allora, equivale a pensare la vita oltre la Terra, oltre il Sole, verso altri sistemi stellari, correre sempre più forte e fuggire sempre con maggior vigore fino all’ultimo giorno. Sarà ancora un uomo, quello che lascerà la Terra? Serve che lo sia? Ecco, secondo Lyotard, l’ultima grande favola che la modernità lascia in dote.

“Queste differenti collettività umane hanno soltanto una cosa in comune, la durata, giacché sono nate sulla base di copie dello stesso tipo originario, e ciascuna ne scrive il proprio esemplare a modo suo. […] Ciascuna delle storie particolari che caratterizzano una stessa collettività si riproduce in miliardi di copie uguali. […] Sappiamo che ogni uomo può comparire contemporaneamente in più varianti in seguito ai cambiamenti di strada che i suoi sosia effettuano sulle rispettive terre, cambiamenti che sdoppiano la vita senza modificare la personalità”
(Blanqui , 2023).

Tutti gli infiniti parziali di Blanqui si sviluppano su un unico piano materiale caratterizzato dal movimento che è possibile operare sulla superficie. Il tempo tiene traccia di questo movimento, che è libero soltanto nella misura in cui le leggi di combinazione e probabilità lo consentono, ma tale tempo non è che un fantasma. Una volta conclusosi un movimento da A a B, solo allora, il tempo è passato. Quando parla di durata, Blanqui coglie la differenza fra ciò che è esteso e ciò che è intenso, concentrato. Ogni nozione di progresso è fittizia, fallimento della prospettiva: sul piano è già tutto composto e scomposto, i movimenti sono aperti e conclusi, sono eterni. Se potessimo accedere all’eternità, vedremmo tutto sovrapposto e completato; l’infinito, in quanto composto da ripetizioni, vive di una libertà molto limitata, o di nessuna. Se non la libertà di affermare, direbbe Nietzsche. Ma cosa? Sé stessi? La propria individualità? Ma se l’eroe silenzioso fossero materia ed energia – la natura che, scrive Blanqui “non conosce né pratica la morale quando agisce”?

Nozione attuale di umanità
Le morti solari, ancora prima che quelle universali, rappresentano dei punti di contrazione massima del movimento. Sono come dense masse che piegano lo spazio in una maniera peculiare: in maniera da produrre perturbazioni su tutto il piano. Le collettività umane, identiche o differenti, originanti dallo stesso vagito, percorrono certamente sentieri uguali o poco difformi, ma non per questo comunicano. A entrare in gioco è una nozione di umanità molto vicina a quella elaborata dagli antropologi contemporanei come Eduardo Viveiros de Castro: umano è una prospettiva, non un’essenza. Ogni essere identico e ripetuto nel cosmo di Blanqui è lo stesso da diverse prospettive, e ciò vale anche per gli animali: per il ghepardo, ciò che appartiene al suo mondo è umano (cfr. Viveiros de Castro, 2020). Unica eccezione al silenzio radio sono quei punti di contrazione; un giorno il sole esploderà per tutti – ma per la natura amorale ciò non è che un bagno purificante nel fiume. Come le anime nel mito platonico di Er, fra una vita e un’altra non c’è che una bevuta dalle acque del Lete, per dimenticare che si è già stati mera carne.

Lo spazio contratto rende la velocità di movimento limitata. La materia che l’uomo è pensa al proprio destino, morire e poi resuscitare. Se la natura “fa, [ma] non lo fa di proposito” cos’è allora questo sistema complesso che può sapere di tutto il destino e il movimento del cosmo? Può vedere la propria fine, può testimoniarne, e può, forse, tentare di rifiutarla – fare la rivoluzione contro la natura, per dire a quest’ultima: io “natura” lo sono tanto quanto lo sei tu. Perché rivoluzione è sempre ricongiungimento con qualcosa di più vero. Il pensiero si misura con la sua propria fine, con il suo silenzio dopo aver parlato e parlato fino a riempire lo spazio e moltiplicarlo miliardi di volte più di quanto già non fosse multiplo e pieno.
Lasciare la Terra, fuggire dalla sentenza solare, viaggiare attraverso gli astri: forse che, un giorno, le molte e infinite istanze di questa materia pensante non possano incontrarsi in uno stesso punto? Al centro dell’universo – una coordinata qualsiasi dell’infinito? Perché? Per assistere a una morte ancora più grande e spettacolare? Che forse, però, sarebbe l’ultima… o ci aspetterebbero comunque altre resurrezioni? Ma se tutto è materia, eterna e infinitamente estesa, al di là dell’universo (al di là di ogni nozione-limite) altro ancora sta in attesa. Fuggire per sempre dalla disintegrazione. L’eterna compresenza di Blanqui ha un potenziale inespresso rispetto all’eterno ritorno di Nietzsche: una sola vita vivente contro miliardi e miliardi di gemelle presenti soltanto al pensiero, alla preoccupazione, forse alla responsabilità. La natura si fa morale e sociale; tutto deve morire ma, come mostra Socrate, la libertà è scegliere come. Dopo la rivoluzione: la comunità.

Il mito della caverna di Platone è una planimetria: un modello a cui manca, e deve essere sempre aggiunto, il vissuto singolare, che nel mito riverbera e a quest’ultimo dona consistenza. “[U]n altro cielo fu la superficie della caverna, così come il cielo stesso era la faccia interna della immensa caverna cosmica” (Calasso, 2016): nella sua caverna, Auguste Blanqui vive il suo proprio mito. Negli astri e nell’armonia apparente che regola l’universo della cieca natura vi sono ombre e statuette, e poi un fuoco alle spalle, e un cammino verso l’apertura della grotta. E certamente, necessario, sarà il ritorno – Blanqui non rimarrà e non potrà rimanere un metafisico. Come sottolinea magistralmente Giorgio Colli, “è solo parlando di oggetti che si può trattare del soggetto” (1969). Perché un vecchio attivista politico socialista scrive, nelle segrete di una prigione affacciata sul mare, un trattato sugli astri? Non lo fa; è sempre della stessa cosa che Auguste Blanqui discute – la vita collettiva.

Letture
  • Georges Bataille, Il labirinto, SE, Milano, 2014.
  • Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, Milano, 2016.
  • Giorgio Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano,1969.
  • Jean-François Lyotard, L’inumano: divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano, 2001.
  • Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano, 1977.
  • Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali, Ombre Corte, Milano, 2020.
  • Nobert Wiener, I Am a Mathematician: The Later Life of a Prodigy, MIT Press, Cambridge, 1964.