Ferdydurke, o i turbamenti
del giovane Witold

Witold Gombrowicz
Ferdydurke
A cura e con una postfazione

di Francesco M. Cataluccio
Prefazione di Michele Mari
Traduzione di Irene Salvatori
e Michele Mari

il Saggiatore, Milano, 2020
pp. 336, € 22,00

Witold Gombrowicz
Ferdydurke
A cura e con una postfazione

di Francesco M. Cataluccio
Prefazione di Michele Mari
Traduzione di Irene Salvatori
e Michele Mari

il Saggiatore, Milano, 2020
pp. 336, € 22,00


Riecco Ferdydurke in una nuova traduzione. Arriva grazie a il Saggiatore e completa la riedizione dei quattro romanzi pubblicati da Witold Gombrowicz a proprio nome. Un lavoro editoriale svolto in senso inverso, partendo dall’ultimo, Cosmo, e proseguito riproponendo successivamente Pornografia e Trans-Atlantico, oltre all’inedito diario privato, Kronos.
Folgorante romanzo pubblicato a Varsavia nel 1937 dall’editore Rój, Ferdydurke uscì recando la data del 1938, segnale di scollamento dalla nostra presunta realtà da non sottovalutare (un time out of joint dickiano ante litteram). D’altronde, essendo un romanzo incatalogabile, è annoverabile anche tra le più bizzarre storie di viaggi nel tempo: il narratore, Giuso, è un trentenne ricondotto alla condizione di studentello da tal professor Pimko che lo riporta tra i banchi. Alle pseudo vicende scolastiche del redivivo adolescente è dedicata la prima parte del romanzo, segnata da un memorabile duello a suon di ghigne tra altri due studenti: Mentino e Sifone. Una pugna che si rivedrà soltanto quarant’anni dopo nel corto Dimensions of Dialogue (1982) di Jan Švankmajer con le figure di plastilina che si deformano, si avvinghiano e si distruggono a vicenda. Nella seconda parte, Giuso si trasferisce in casa di una famiglia indicata come modello di modernità, composta da genitori ossessionati dall’essere giovani e dunque in forma fisica eccellente (i Jovinelli) e dalla loro figliola (Zutka, o “la liceale”), che presto diventerà un contorto oggetto del desiderio. Infine, Giuso si trasferisce in campagna nella magione di una zia incrociata in periferia mentre è a zonzo con il compagno di scuola Mentino in cerca di un garzone con cui familiarizzare, frangente da cui tralaltro fa capolino più nettamente l’omosessualità di Gombrowicz.

La copertina e le illustrazioni dell’edizione originale erano di Bruno Schulz, il secondo dei tre moschettieri della letteratura polacca d’anteguerra (il terzo era Stanisław Witkiewicz), come li definì Angelo Maria Ripellino, “tre cavalieri di quel «materiale esplosivo che si chiama Forma», tre bislacchi sui margini o, come dice lo stesso Gombrowicz, tre «wariaci», tre pazzi: lui «pazzo ribelle», Witkiewicz «pazzo disperato», Schulz «pazzo sommerso»” (Ripellino, in Schulz, 1991). Il caso e la storia posero presto fine all’ideale terzetto. Il solo Gombrowicz sopravvisse alla guerra, trovandosi per caso in Argentina da qualche giorno prima dell’invasione della Polonia e dove ritornerà soltanto dopo ventiquattro anni. Schulz venne freddato da un ufficiale della Gestapo nel 1942. Witkiewicz si era già suicidato il 18 settembre del 1939, il giorno dopo l’attacco sovietico alla Polonia. Ferdydurke era stato preceduto nel 1934 da una raccolta di racconti, intitolata Diario del periodo della maturazione. L’anno successivo scrisse un’opera teatrale, Iwona, principessa di Borgogna e iniziò il suo romanzo dinamitardo, inconsueto, inafferrabile, a iniziare da una struttura assai singolare.
La narrazione è suddivisa in tre parti, come si è detto, inframmezzata da due racconti: Filidor foderato d’infanzia e Filibert foderato d’infanzia. “Intermezzi buffoneschi” li definisce acutamente il curatore Francesco M. Cataluccio, privi di alcun legame con la vicenda che si racconta, ed entrambi preceduti, a loro volta, da due capitoli in forma di saggio, dal medesimo carattere clownesco: Premessa a Filidor foderato d’infanzia e Premessa a Filibert foderato d’infanzia. Quando nel 1957, i racconti giovanili vennero ripubblicati nella raccolta intitolata Bacacay, Gombrowicz vi incluse anche i due suddetti racconti senza però espungerli dal romanzo. Scelta eccentrica e non l’unica, anzi.

L’adattamento teatrale di Ferdydurke realizzato da Magdalena Miklasz.

Sfavillante e febbricitante anzichenò, Ferdydurke si fregia di un titolo che non vuol dir niente in polacco e ancor meno in altre lingue. È semplicemente un titolo, una forma dovuta che il romanzo richiede; un obbligo non esclusivo, vigente in tutte e nove le arti, dal quale pittura e scultura talvolta si sono esentate nel corso del Novecento dispensando frotte di opere chiamate appunto Senza titolo. Ferdydurke no, il titolo se l’è appiccicato perbene indosso ed è ancora lì beffardo a solleticare l’inesorabile domanda: che vuol dire? Lo si potrà capire leggendolo da cima a fondo? Macché, anzi a fine lettura la domanda risorgerà ancora più imperiosa, tanto più che per contrappasso il romanzo di cose ne dice molte, tantissime, affidate a una trama a sua volta singolare, a episodi grotteschi, a una mescola di registri, a una lingua immaginifica, cangiante, pura invenzione di un funambolo della forma. Gombrowicz scompiglia, disorienta, sovverte, si diverte a prendere in giro il lettore e al tempo stesso lo seduce, lo conquista adottando una lingua sfrontata, disinibita, che non si arresta di fronte a nulla: una pura invenzione, come si è detto. Prova ne sia che siamo ormai alla terza versione italiana e questa volta addirittura si è giocato al rialzo con un doppio giro di traduzione: dapprima quella dal polacco di Irene Salvatori (già all’opera per il citato Kronos) e poi la reinvenzione di Michele Mari sul testo tradotto.

Ferdydurke portato a teatro da Magdalena Miklasz .

Arriva così al suo terzo battesimo italiano il protagonista Józio, che qui diventa Giuso dopo essere stato Gingio (nella precedente versione di Vera Verdiani del 1991) e Momo nella prima traduzione italiana (1961), condotta da Sergio Miniussi sull’edizione francese del testo. L’esperimento letterario di Mari appare affine nello spirito alla vertiginosa prima versione in spagnolo realizzata in Argentina, quando lo stesso Gombrowicz presiedé addirittura un “Comitato di traduzione” appositamente formatosi tra i sui seguaci/ammiratori/discepoli nonché compari d’ozio e altro al bar Café Rex in Avenida Corrientes di Buenos Aires. Vicenda ricordata da Cataluccio con l’opportuno rimando a La straduzione, il romanzo di Laura Pariani nel quale si ricostruiscono le gesta dell’avventurosa vicenda.
La lingua di Gombrowicz germoglia libera ovunque: vale per le traduzioni e per le singole parole. In Ferdydurke si assiste a una vera e propria giostra verbale ruotante intorno al “culculo”, la “parola-cosa fra il dada e il limerick variata lungo tutto il libro come un motivo musicale”, come lo stesso Mari annotò anni fa (Mari, 2017) e che in questa sbarbagliante traduzione d’autore si fa repertorio stordente, zeppo di suffissi in diminuendo, in accrescimento in fuga laterale, di giustapposizioni e di termini composti: culetto, culame, culatello, culemme, culezio, culoide, culambio, culastico, culenza, culergia, culòmero, culese, culandro, cucullo, culollo, culestro, culassa, culòstrato, culòstrega, culime, culettico, culémene, culèssere e così via.

Un altro adattamento teatrale di Ferdydurke per la regia di Alejandro Genes Radawski.

I mille piani di Ferdydurke prendono le mosse da quella che appare sulle prime una satira sociale, uno sberleffo nei confronti delle istituzioni, con la scuola a far da sinnedoche, nonché un gesto d’insofferenza verso il perbenismo e la miopia della società polacca. Invece si va ben oltre. “Martedì mi svegliai a quell’ora esanime e labile in cui la notte è già finita e però l’alba non è ancora incominciata davvero”.
La vicenda prende avvio al termine della notte quando il protagonista si risveglia in preda a un radicale conflitto identitario ed esistenziale. Giuso è fresco d’esordio letterario e scottato dalla delusione per le critiche ricevute. È un passaggio biografico sfacciato, poiché il libro si intitola Diario del periodo della maturazione

“Invano gli amici mi suggerirono di evitare un titolo simile e di evitare in generale qualsiasi allusione all’immaturità. «Non farlo» dicevano «l’immaturità è un concetto pericoloso, se tu stesso ti consideri immaturo, chi dovrebbe poi crederti maturo? Non capisci che il primo requisito della maturità, senza il quale nulla di nulla, è considerarsi adulti da soli?» Ma a me sembrava che non fosse poi così facile e semplice togliersi il moccioso di dosso, che gli adulti fossero troppo furbi e astuti per farsi fregare, e che chi è inseguito senza requie dal proprio moccioso non potesse poi presentarsi in pubblico senza di lui. Forse avevo un’attitudine troppo seria verso la serietà, e oltre a ciò sopravvalutavo l’adultità degli adulti”.

“Era il panico della non esistenza, lo sgomento del non essere, l’angoscia della non vita, il dubbio della non esistenza, il grido biologico di tutte le mie cellule nei confronti del disfacimento interiore, della dispersione, della dissoluzione. Era timore dell’indecente piccineria e meschinità, ansia della deconcentrazione, panico del frazionamento, paura della violenza che mi portavo dentro e di quella che mi minacciava dall’esterno… E soprattutto c’era qualcosa che mi accompagnava continuamente non allontanandosi mai neanche di un passo, qualcosa che avrei potuto chiamare la consapevolezza inframolecolare di uno scherno interiore, di un intimo dileggio fra le capricciose parti del mio corpo e le corrispondenti parti della mia anima.”

Ecco tratteggiate le architravi del pensiero, o meglio delle ossessioni di Gombrowicz: la forma, la gioventù e l’immaturità. Si esiste, si possiede un’identità in virtù di una forma che ci viene assegnata dall’esterno, una forma cangiante, un rimodellamento continuo: sono gli altri a segnarci, a plasmarci ad attribuirci uno status d’esistenza. Esistenzialismo in altre parole, e non a caso Gombrowicz rivendicò di averne concepito per primo i concetti chiave. “L’uomo è creato dagli uomini, e gli uomini che si creano a vicenda sono, appunto, esistenza e non essenza” annoterà nel Diario (Gombrowicz, 2004). Forma che è in primis Faccia, quella imberbe imposta a Giuso e non solo nel corso della narrazione. Forma che è quella plastica della lingua che si rimodella ri/formando e de/formando la realtà in un processo di reciproca ri/creazione.

Anticipazioni e pre/visioni
Romanzo inesauribile nelle invenzioni e farcito di intuizioni filosofiche visionarie; anche sociologiche, a ben vedere, anticipando di qualche decina d’anni le analisi critiche rivolte alla società dei consumi e ai suoi abitanti, i consumatori, infantilizzati reiteratamente. Una regressione studiata da un altro grande polacco, Zygmunt Bauman, e soprattutto da Benjamin R. Barber. La sindrome di Peter Pan è esposta con un corredo di morbosità assortite nelle storie di Gombrowicz e ciò avviene soprattutto in Ferdydurke. Morbosità e deformazioni. Tutto il mondo grottesco di Gombrowicz fiorisce sotto il segno di Peter Pan, segnato per intero dall’ossessione per la gioventù, per il suo corollario, l’immaturità, e la conseguente imperfezione che vi è connaturata, essendo l’adolescenza destinata a (de)perire nell’adulto. Gombrowicz scrutava incessantemente il mondo, probabilmente per noia e lo faceva privilegiando l’adolescente. Il suo sguardo è fissato ossessivamente sui particolari, sui dettagli, sulle parti, su frammenti di realtà e in fondo è la giovinezza è uno stadio della vita, una parte, appunto. Osservazioni e congetture viaggiano in coppia come si mostrerà mirabilmente in Cosmo. In Ferdydurke si fanno già le prove generali, si azzardano fantasticherie speculando su minimi pretesti. Ecco che cosa accade quando Giuso sbircia Zutka dal buco della serratura (il tòpos per eccellenza del voyer):

“Ma dopo qualche minuto il buco della serratura che la spiava insieme al mio sguardo dovette incominciare a darle fastidio, tanto che per ostentare la propria indipendenza e ribadire la propria indifferenza tirò su rumorosamente col naso, in modo volgare, sciatto, come a dire: «Guarda quanto vuoi, me ne frega così poco che tiro su col naso». È così che le ragazze manifestano il loro più profondo disprezzo. Non aspettavo altro. Dopo il suo errore tattico di tirar su, anch’io al di qua della porta tirai su col naso, distintamente ma non troppo forte, proprio come se, contagiato dal suo tirar su, non potessi trattenermi. Ammutolì come un coniglio, quel duetto nasale era inconcepibile per lei: ma una volta mobilitato, il naso tornò a farsi vivo, e dopo una breve resistenza fu costretta a soffiarselo con un fazzoletto, dopodiché, a intervalli, piano, continuò nervosamente a tirar su, e ogni volta io replicavo il gesto al di qua della porta”.

Le pagine di Gombrowicz pullulano di analoghe arzigogolate costruzioni mentali. Sembrerebbe un autore impossibile per il cinema e invece non si può far finta di nulla riguardo a un singolare record detenuto dallo scrittore polacco, che ha visto ben tre dei suoi quattro romanzi trasposti cinematograficamente: una media che umilia quella autentica fabbrica di storie per cinema e televisione che risponde al nome di Stephen King. C’è da restare stupefatti, specie considerata la difficoltà (meglio: l’impossibilità) di portare sul grande schermo le avventure esistenziali/surreali inventate da Gombrowicz. Tre connazionali si sono cimentati con buoni esiti, a riprova che eppur si sviluppa una rappresentabilità in queste storie bislacche. Andrzej Żuławski ha adattato Cosmo, Jan Jakub Kolsky Pornografia e Jerzy Skolimowski ha affrontato senza subire gravi danni proprio Ferdydurke. Il film si fregia di un doppio titolo e quello inglese è in realtà un gioco fonetico che rimanda all’originale: 30 Door Key. Manca all’appello Transatlantico, se escludiamo Schiavi delle tenebre, il feuilleton a tinte gotiche firmato con lo pseudonimo di Zdisław Niewieski pubblicato solo nel 1973 (e poi integrato con capitoli ritrovati nel 1990). Eppure le tre parti di Ferdydurke hanno medesime conclusioni, come notò Ripellino nell’introduzione alla edizione Einaudi di Ferdydurke, ovvero tutto finisce in zuffa e tutti sono contro tutti, un po’ come nelle comiche eroiche del cinema muto.

La versione teatrale di Ferdydurke firmata da Jakub Margosiak.

A ben vedere anche Filibert foderato d’infanzia è una vertiginosa sequenza cinematografica, degna dei pirotecnici cartoon della Warner Bros. et similia, con una sequenza irrefrenabile di cause ed effetti impensabili originata da un colpo di rivoltella sparato alla pallina da tennis nel mentre di un match da un colonnello e terminante con un parto sugli spalti fra gli applausi del pubblico!
Questo era Witold Gombrowicz, il suo procedere ad altezze impensabili poggiando sul nulla, in fondo come tocca a tutti nel nostro esistere.

Letture
  • Witold Gombrowicz, Diario. Vol. I, Feltrinelli, Milano, 2004.
  • Michele Mari, Gombrowicz, in I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, Milano, 2017.
  • Angelo Maria Ripellino, Introduzione a Bruno Schulz, Le botteghe color cannella, Einaudi, Torino, 1991.