Mediterraneo e verde:
il Solarpunk di Clelia Farris 

Clelia Farris
I Vegumani
Future Fiction, Roma, 2022

pp. 152, € 15,00

Clelia Farris
I Vegumani
Future Fiction, Roma, 2022

pp. 152, € 15,00


“Frondi tenere e belle
del mio platano amato…”
(Händel, 1738)

È stato detto che Ombra mai fu, l’aria iniziale dell’opera Serse (1738) di Georg Friedrich Händel, è la più bella canzone d’amore mai scritta per un albero. Può sembrare una battuta – quante canzoni d’amore saranno mai state scritte per un albero, almeno finora? – ma questa impressione decade all’istante se l’aria (il cui primo verso è in esergo) la si ascolta sospendendo l’attimo che sempre fugge e assorbendone durante l’ascolto il languore che ne trasuda. Quando poi è una scrittrice, Clelia Farris, a comporre un intero romanzo d’amore per il regno vegetale, affondando fino al manico la lama del suo pennino fantascientifico nel verde planetario, ben altri sensi che l’udito ne verranno perturbati. L’opera in questione è I Vegumani, e già dopo averne letto le sole prime due righe ci si ritrova col sangue bollente per la canicola:

“Alle dieci del mattino, fuori dalla serra, la temperatura raggiungeva i trentacinque gradi. Insolitamente fresco per il mese di marzo”.

Nonostante il numero dei gradi, l’autrice sta scegliendo il punto di vista termometrico più rassicurante tra quelli possibili. Avrebbe potuto usare i corrispondenti novantasei Fahrenheit o, peggio, i trecentotto della nobile scala di Lord Kelvin; invece colloca il suo marzo non tra i mesi più crudeli quanto a temperatura e metrica delle temperature. Considerato il caldo che ha segnato il 2022 appena trascorso, è evidente che non è il clima a costituire il tratto così scombussolante e avveniristico de I Vegumani. Non lo è nemmeno il fatto che l’umanità abbia rovesciato il ritmo circadiano dormendo col sole e rimanendo sveglia di notte, perché, come dice il primo personaggio con cui facciamo conoscenza, la Nonna nerovestita: “il giorno è sempre cattivo!”. Siccità e desertificazione degli habitat sono la norma nella società del futuro immaginata da Farris, nella quale una Organizzazione mondiale del Clima aiuta le popolazioni a spostarsi sempre più a nord, alla ricerca di territori coltivabili. Nell’isola del Mediterraneo in cui è ambientata la vicenda, però, non tutti sono disposti a lasciare le loro case e la loro terra, come il gruppo di giovani coltivatrici e coltivatori della cooperativa Astarte e come la Nonna stessa che, anzi, accetta scommesse in cui la Permanenza (sull’isola) contro l’Esodo è data cinquanta a uno (certo, solo lei sa bene perché). La mancanza di acqua e l’assenza delle piogge, tuttavia, costituiscono due aspetti dello stesso problema che dovrebbe essere angosciante. Come quando i bambini trovano vasche vuote e si rivolgono a Nidosette Gazania, la protagonista de I Vegumani, per chiederle a cosa servono:

“«Nell’antichità si chiamavano fontane ed erano piene d’acqua», rispose Gazania.
«Acqua?» I bambini sgranarono gli occhi. «Così in pieno Sole?»
«Gli Antichi erano spreconi»”.

E, di nuovo, ciò che ci colpisce nella lettura come inquietante non lo è poi così tanto, a ben guardare il nostro presente, perché è stato effettivamente da pazzi scialacquare le risorse idriche come fossero sempre facilmente rinnovabili. In ogni modo, senza più fontane, in un mondo vinto dal caldo, non è possibile sopravvivere a meno di non essere “dotati di foglie modificate in forma di aghi”. Quindi la soluzione, lo stratagemma sostenibile e inter(n)amente sconvolgente individuato dall’autrice, piuttosto che scegliere l’Esodo verso nord, è quello di verdeggiare. Come questo poi riesca a verificarsi lo lasciamo alla curiosità di chi vorrà leggere il romanzo. Va qui ricordato che Verdeggiare è anche il titolo di un racconto di Farris (2021) che contiene i semi, potremmo dire, del romanzo I Vegumani. Verdeggiare è un verbo smeraldino che quando viene pronunciato ri-verbera il colore da cui nasce e riassume in una sola parola la strategia di ispirazione solarpunk per rimanere vivi su un pianeta dal clima decisamente mutato. Verdeggiare, tuttavia, è declinato non solo nel senso romantico e magari un po’ naïf che si potrebbe dedurre incrociando le piante di pomodori nella serra:

“Ogni cespo formava un groviglio di filamenti candidi e succosi, che non si limitavano a sostenere la singola pianta ma si diramavano ai lati, mescolandosi con quelli delle piante vicine. I pomodori si tengono per mano come tante sorelline, pensava Gazania. E ogni volta quella solidarietà fra simili la commuoveva. Ah, se anche gli esseri umani fossero stati come i pomodori!”.

Oppure leggendo:

“«Mi sta venendo il mal di testa. Vado a fare un giro tra i limoni.» Gazania approvò. Le piante erano la soluzione di ogni problema”.

Di fatto, verdeggiare per i membri di Astarte (e la Nonna) significa letteralmente trasformarsi in piante: “essere albero” come – opportunamente – si intitola anche un capitolo de I Vegumani. Farris modella con perizia parole e frasi, raffigura vivide immagini e metafore che ci persuadono della naturalità di una trasmutazione da umano a vegetale senza traumi o mostruosità. Come se potessimo immaginare l’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini scalpellando via il predatore, non prima – però – di avergli rubato la serena espressione facciale per intagliarla sul viso di lei (cancellandone la paura) mentre beatamente lascia che le sue estremità si trasformino in verdura odorosa. La transizione volontaria di Gazania da un regno naturale all’altro (per le creature viventi pare siano cinque: animali, piante, funghi, protisti, monere) è già nell’aria quando incontriamo per la prima volta Aster, protagonista vegetale e figura verdeggiante del romanzo:

“Sfregò la schiena nuda sulla pelle vellutata di Aster. Da quando il Comune aveva assegnato loro la serra, Gazania aveva fraternizzato con un imponente esemplare di Rosa del Deserto, cresciuta sulla linea della parete sud”.

Il trasporto amoroso per la Rosa del Deserto è celebrato leggendo della “molteplicità delle braccia carnose… circonvolute, pronte ad accogliere e cullare le membra lisce di Gazania” e della “procacità rotonda e soda” di Aster.  Alcuni dubbi sulla sola verde platonicità del rapporto tra Gazania e Aster, evocati peraltro dall’autrice stessa – incestuosa e soave – quando scrive che Gazania “si sentiva figlia e sorella di Aster, come se fosse scaturita da un suo pollone”, sorgono arrivando alle seguenti due righe:

“Mentre ancora indugiava nella cavità accogliente di Aster, Gazania percepì alcuni rigonfiamenti della linfa che scorrevano a intervalli frequenti, picchiettandole la schiena”.

Se poi si va a dare un’occhiata tra le righe del racconto Verdeggiare, sopra citato, i dubbi diventano certezze leggendo a proposito di Gazania infilatasi nel passaggio tra due ramificazioni di Aster:

“La pulsazione delle pareti succose la risucchiava dolcemente e lei la assecondava con leggere spinte delle reni… sfiorando con le dita una serie di rigonfiamenti diseguali, simili a piccoli seni”
(Farris, 2021).

Farris ci ha già abituati in altre opere al suo pensiero sulla continuità/armonia/fusione tra umano e non umano, una sorta di suo specifico aspecismo coniugato ad artifici fantascientifici più o meno stranianti. In questo caso la metamorfosi da umano a vegetale arriva come piccolo aiuto all’evoluzione (che tra le sue virtù non annovera certo il tempismo) per ri-adattare la popolazione al pianeta creando totem vegumani, ovvero esseri in transizione tra i regni naturali, né piante né umani, ma entrambi. Gazania fiorisce in una intima estraneità con Aster, ritrova sé stessa diventando temporaneamente/totalmente altro da sé e recupera il vincolo salvifico che lega ogni essere a madre terra, ad Astarte (che è anche il nome della cooperativa), la grande madre fenicia e cananea, adorata dagli egizi con il nome di Iside, dea sicuramente cara all’autrice.

Come cara le è l’i(dea) dei vegetali da arredamento che riprende anche ne I Vegumani dopo averla impiegata in almeno altri due romanzi. Piante allevate, fatte crescere, per far loro assumere la forma utile di sedie, tavoli, sgabelli, e così via, usando la captazione, cioè una sorta di coercizione meno dura (depurando il termine da valenze etiche), che può consistere nel dosare ad arte alcuni nutrimenti. Per quanto riguarda gli animali, quelli umani riservano a quelli non umani un trattamento che va dalla crudeltà di ghiaccio della Nonna, che taglia di netto in due una povera lucertola senza colpe, all’empatia dei bambini che rifiutano di cibarsi di tutte le lumache; il futuro che si intravede, insomma, forse porterà una maggiore gentilezza interspecie. Rimane, ne I Vegumani, la tensione filosofica di sempre: tra movimento e staticità, tra Eraclito e Parmenide. Tensione che non è facile risolvere, salvo forse in quei momenti in cui dalle piante dei piedi, piccole escrescenze si protendono nel terreno, si uncinano ai granelli di terreno e collegano chi possiede quei piedi al mondo di sotto, non più disgiunto dal mondo di sopra.

Ascolti
  • Georg Friedrich Händel, Ombra mai fu, in Cecilia Bartoli, Giovanni Antonini, Il Giardino Armonico, Sacrificium, Decca, 2009.
Letture
  • Clelia Farris, Verdeggiare, in Solarpunk dalla disperazione alla strategia, a cura di Francesco Verso, Future Fiction, Roma, 2021.