C’è un Giappone sommerso, raccontato da Yoshiharu Tsuge in L’uomo senza talento e custodito oggi dalle yonigeya, le agenzie per la fuga notturna, che aiutano le persone a sparire. O a subire una evaporazione: tale è il significato della nozione di jōhatsu, con cui si indica il fenomeno culturale della scomparsa volontaria. È il Giappone degli uomini e delle donne che non reggono il ritmo, che scelgono di dissolversi dalla scena sociale senza morire: vite che non si vedono più, ma che restano, come presenze che non disturbano. Il protagonista dell’opera di Tsuge, Sukegawa, non è uno spettro che perseguita, ma un corpo svuotato, un guscio senza fantasma. È ciò che sta un passo al di qua della fuga notturna. Non infesta, non ritorna: resiste passivamente, aderendo al vuoto che il Giappone occidentale degli anni Ottanta gli assegna. Nella figura di Sukegawa si coglie l’ambiguità più radicale: il guscio senza fantasma diventa esso stesso un fantasma puro, una traccia vivente di ciò che la società esclude dal discorso pur avendolo già piegato alle proprie logiche. È il nulla prodotto dal sistema, ma anche il resto che non può essere del tutto eliminato. È un uomo che rende merci le pietre raccolte a pochi passi da dove le vende. Parodia del mercato.
Quella di Tsuge non è soltanto una storia marginale del Giappone degli anni Ottanta, ma una parabola universale: cosa accade quando il sociale non sa più contenere i propri resti? È qui che Derrida, otto anni dopo, porta lo sguardo in un’altra direzione, ma sullo stesso problema: gli spettri che nascono quando un’epoca perde i suoi margini. Nel 1993, in Spettri di Marx, riedito oggi da Cortina dopo trentun anni dalla prima apparizione in Italia, egli mostra come il nostro tempo sia popolato da presenze che non sono né vive né morte, né presenti né assenti: gli spettri.

Non è un problema nuovo; gli spettri di Marx, come sottolinea Derrida stesso, sono suoi sia nel senso che scaturiscono da lui, sia nel senso che gli giungono addosso, lo assediano e lo impauriscono. Il gesto di Derrida, a differenza di quello di Marx, non è quello dell’esorcista. Non dice: liberiamoci dei fantasmi una volta per tutte. Piuttosto: impariamo a vivere con loro, a riconoscere come ogni società (ogni individualità) li produca inevitabilmente. Per questo la ripubblicazione di Spettri di Marx oggi non riguarda solo la caduta del socialismo reale o il dibattito con Fukuyama sulla “fine della storia”. Non è un libro che parla di Marxismo, né vecchio né nuovo. Parla attraverso di esso, ma riguardo a qualcosa che ha l’ampiezza di tutto ciò che concerne il pensare e l’esistere dell’Occidente. Ci riguarda intimamente, perché mette a nudo il meccanismo con cui i nostri contenitori sociali – la legge, il mercato, la famiglia, i media – generano gusci vuoti, vite spettrali, ma anche eredità e lutti. Tsuge ci mostra l’uomo-senza-talento, contenitore senza fantasma, entità che abita il margine del sistema. Derrida ci mostra la fenomenologia dello spettro, che da oltre i margini spinge per romperli. I jōhatsu ci mostrano l’evaporare del fantasma e del guscio, il valico dei confini e la conseguente inesistenza. Insieme, ci obbligano a una domanda cruciale: non come liberarci dei fantasmi, ma come distinguere tra corpi vuoti e presenze spettrali, e come pensare i contenitori che li ospitano. Forse, richiamando Derrida stesso, ci obbligano a tornare sui margini.
Il contesto storico e filosofico dell’opera
Quando Derrida nel 1993 tiene a Riverside le conferenze che diventeranno Spettri di Marx, il contesto è preciso: la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’URSS, il trionfo del neoliberismo e la proclamata “fine della storia”. Spettri è, innanzitutto, una risposta a Francis Fukuyama; a quella che per i filosofi emerge come una ri-evangelizzazione di Hegel, e per il mondo politico-economico occidentale la vittoria del liberalismo e del capitalismo moderni. Cosa vuol dire rievangelizzare Hegel? Significa operare per gli spettri, ai loro ordini: dare a concetti e valori universalità, legittimazione, giustificazione trascendentale. È quello che Fukuyama tenta di fare – ingenuamente, per Derrida – immettendo i fatti recenti degli anni Novanta in uno schema più ampio e necessario del processo storico. Il crollo dell’URSS è stato il momento in cui molti pensavano che Marx fosse definitivamente archiviato, un fantasma del passato. Se il dibattito con Fukuyama riguarda il destino politico del comunismo, la posta in gioco per Derrida è più radicale: non il comunismo soltanto, ma la struttura stessa del politico come spazio in cui gli spettri ritornano. In questo senso, Spettri segna il punto in cui Derrida porta la sua decostruzione sul terreno della politica globale: non per riproporre un “nuovo marxismo”, ma per mostrare che la logica spettrale (ciò che è presente in quanto assente, vivo in quanto morto) è la condizione stessa di ogni pensiero della giustizia.

Le cinque conferenze di Riverside si muovono tutte attorno a un’unica intuizione: non c’è politica – e forse non c’è teoria – senza fantasmi. Derrida apre con Amleto: “The time is out of joint”. È la formula che segna anche Marx: il tempo è disallineato, comandato da un appello che non viene da una presenza piena ma da un’assenza, quella di giustizia, che insiste. Da qui Derrida legge la fine del comunismo come una gigantesca congiura: l’Occidente che dichiara morto Marx, che lo bandisce dal discorso pubblico, e che proprio così ne mostra la paura. Perché ogni esorcismo, dice Derrida, genera nuove infestazioni. Il dopo-1989 non è fine della storia: è usura della mondializzazione. Anche la rivoluzione, quella di Victor Hugo e di Marx, appare come un teatro di spettri, fatta di immagini e di frasi che contano più degli eventi stessi. Rivoluzione contro rivoluzione, ripetizione che non produce evento: il fantasma dell’atto mancato che torna a perseguitarci. Come direbbe Mark Fisher, gli spettri sono anche quelli dei futuri incompiuti (cfr. Fisher, 2019). Il cuore è però la diatriba con Max Stirner, che nella quinta conferenza diventa nodo cruciale. Marx aveva provato a distinguere lo spirito dal fantasma, a smascherare l’illusione stirneriana dell’“Unico”. Non c’è smascheramento che non ricrei ciò che intende dissolvere: ogni fantasma chiede un corpo minimo, una fenomenalità, un contenitore che gli dia consistenza. Per Marx è questione di condizioni materiali (capovolgere Hegel; cfr. Marx, 2024). Tali condizioni sono i margini stessi, i punti da cui si definisce il fuori e il dentro di ogni epoca e di ogni contesto.
L’Uomo senza talento: fantasmagoria dell’individuo mercantile
Per cogliere fino in fondo la posta in gioco di Spettri di Marx può essere utile guardare all’opera citata in partenza, un’opera che sembra lontana, ma che illumina il problema da un’altra angolatura: L’uomo senza talento (Munō no hito, 1985) di Yoshiharu Tsuge. Il manga nasce in un Giappone che ha ereditato l’impianto socio-economico del “Nuovo Occidente” americano postbellico – quel sistema globale che Carl Schmitt, ne Il nomos della terra, criticava come matrice di un nuovo ordine planetario – e traduce la questione degli spettri in termini concreti, rendendola leggibile attraverso un elemento spesso marginale: il contenitore. Il protagonista, Sukegawa, alter ego di Tsuge, è un ex disegnatore incapace di pubblicare che vive con la moglie e il figlio in miseria. Passa le giornate provando a guadagnarsi da vivere in attività senza futuro: raccoglie pietre lungo il fiume Tama per venderle, traffica in libri e macchine fotografiche usate, tenta di trasformare scarti in merci. Tutto fallisce. Più che a lavorare, sembra impegnato a mantenersi ai margini: ostinato, irresponsabile agli occhi della moglie, prigioniero di una impotenza che non riesce a sciogliere.

Tsuge alterna momenti di malinconica ironia e lampi di introspezione, costruendo un universo popolato di vite spettrali, sospese tra presenza e sparizione. L’uomo senza talento diventa così il ritratto di una “morte sociale”: un uomo che non muore, ma che scompare dal riconoscimento sociale, trasformato in fantasma dal capitalismo stesso. È insieme autoritratto e denuncia: dietro il fallito si rivela un sistema che non sa contenere la differenza, che riduce la vita a guscio vuoto. Le ultime pagine sono le più eloquenti. Sukegawa ascolta la storia di un poeta errante, capace di comporre haiku fulminei ma destinato a morire di stenti, ridotto a un corpo che gli altri sfruttano solo per estorcergli poesia. Tsuge contrappone però al poeta che sceglie di sparire un protagonista che invece riemerge: nelle ultime tavole lo vediamo di nuovo in scena, disteso accanto alle sue pietre in attesa di un acquirente. Sukegawa non è eroe né martire: non si immola come Yukio Mishima, non scompare come il poeta; resta contenuto dentro i margini del mercato. È il nulla che il sistema produce e di cui ha bisogno: non fantasma che infesta, ma contenitore vuoto che sostiene. Lo si può descrivere secondo la formula del paradosso di Russell: Sukegawa è “L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi.”
Stirner e Marx contro gli spettri
L’uomo senza talento traduce la spettralità nel linguaggio dei contenitori. Sukegawa è un involucro senza contenuto; e proprio così diventa fantasma puro, resto vivo dell’esclusione socialmente amministrata. È qui che L’uomo senza talento ci restituisce il centro del discorso derridiano. Spettri di Marx, soprattutto nel quinto capitolo, Apparizione dell’inapparente, mostra come la filosofia del fantasma sia annodata attorno alla diatriba Marx–Stirner: da un lato, gli spettri come astrazioni che ci dominano (Dio, Stato, Uomo, Società), dall’altro le condizioni materiali che li rendono operativi. In una formula: lo spettro è ciò che appare senza corpo pieno, e che continua ad agire proprio dal suo mancare. Come in un lutto, la mancanza di un caro ci assilla in maniere che eccedono la nostra cognizione, così l’assenza di un simbolo per lo Stato, o un’essenza per l’Uomo, o un volto e una voce per Dio ci assediano. Non sappiamo contenere oggetti che sono nati per contenerci; non sappiamo delineare i margini di corpi che abbiamo fabbricato noi. Se Stirner denuncia l’operare spettrale dei concetti, Tsuge ci mostra i corpi svuotati che questi concetti producono. Gusci vuoti, contenitori saturi, vite che spariscono restando: lo spettro e il contenitore, due facce dello stesso problema.

Come mostra Mattia Luigi Pozzi ne L’erede che ride (cfr. Pozzi, 2015), Stirner si muove contro gli spettri sacralizzati della sua epoca consumandoli e profanandoli piuttosto che distruggendoli, cioè parodiandone il carattere intoccabile. La sua politica non è una missione morale in nome di fini universali, ma una pratica di uso: forme di associazione e insurrezione che sciolgono i conflitti ideologici in esperimenti concreti, situati, reversibili. Per questo, spiega Pozzi, l’orizzonte stirneriano implica contenitori istituzionali meno “sacri”, più porosi, capaci di essere impiegati e poi lasciati cadere senza feticismo. La posta in gioco in Stirner è la liberazione dell’individuo da ogni forma di potere impersonale per affermare sé stesso come unico, irriducibile a qualsiasi principio che lo trascenda.

La risposta stirneriana all’impero delle astrazioni è, infatti, l’Unico: non una sostanza, un fondamento o un concetto universale, ma la singolarità irriducibile di ciascuno, colta non come proprietà naturale né come “io penso”, ma come evento che accade solo nell’atto di appropriarsi – di scelte, gesti, atti, linguaggi, desideri. L’Unico non è materiale, ma ha un contenitore preciso: il corpo proprio. È qui che si innesta la critica di Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca. L’Unico depositato nel corpo-proprietà diventa il più sottile degli spettri: ciò che il corpo contiene, ma che non coincide con esso, esistente soltanto nell’atto di appropriazione. Per Marx, “San Max” resta nei margini: la sua emancipazione è la promessa di un vuoto che si fa spettro letteralmente poggiato su una garanzia concreta, un segno (il corpo) che indica l’Unico. Senza legare i fantasmi alle condizioni materiali che li evocano – rapporti di produzione, bisogni, relazioni storiche – ogni sforzo è destinato a fallire o, peggio, a ripetersi come fantasmagoria. Ma la questione non riguarda solo le astrazioni concettuali: riguarda anche la possibilità stessa di pensare. Qui la lezione di Stirner sembra incontrare, a distanza di un secolo, quella di Wilfred Bion: se gli spettri sono il prodotto di contenitori simbolici che non reggono, la funzione del contenitore diventa il nodo attraverso cui passano tanto la critica filosofica quanto la nascita del pensiero psicoanalitico.

Questo è il nodo del discorso di Derrida, per cui non esiste esorcismo definitivo. Ogni delimitazione (concettuale, sociale, politica) è anche un atto di esclusione, e ogni vittoria – come quelle celebrate dal capitalismo – è al tempo stesso un conjuring, l’evocazione di nuovi fantasmi, di nuove infestazioni, di resti che non si lasciano dissolvere. Sono le rimozioni freudiane: contenuti espulsi che continuano a operare alle nostre spalle, guidando in silenzio il nostro esistere. È in questo senso che vanno intesi i due concetti che attraversano tutta la filosofia di Derrida: eredità e lutto. Un’eredità non assunta resta come obbligo; un lutto non elaborato ritorna sempre in forme nuove. Ciò che viene escluso non scompare: resta fuori dal quadro della storia, che è solo un’inquadratura, un dispositivo che rende leggibile qualcosa e lascia nell’ombra altro. Per questo Derrida insiste: elaborare il lutto non è chiudere, ma riconoscere; accettare un’eredità non è scegliere, ma comprendere che noi stessi siamo eredità, che viviamo sempre già abitati da ciò che ci precede (e ci segue).
Le profezie di Derrida
A trent’anni di distanza, la ripubblicazione di Spettri di Marx appare tanto necessaria quanto amara, perché le diagnosi che Derrida formulava allora, spesso liquidate come cautele, oggi si leggono come vere e proprie profezie. La prima riguarda la questione sociale: già nel 1993 Derrida avvertiva che la globalizzazione non avrebbe portato pace, ma nuove forme di ingiustizia, precarietà, sfruttamento. Oggi vediamo quell’annuncio materializzarsi nelle disuguaglianze planetarie e nelle migrazioni forzate; i movimenti che hanno attraversato il XXI secolo – da Occupy Wall Street alle primavere arabe, fino a Black Lives Matter – sono spettri della promessa di giustizia tradita, revenants che disturbano la normalità neoliberale.
La seconda profezia riguarda l’ecologia. Derrida parlava di un “debito” verso le generazioni future, di una nuova frontiera di guerra ecologica: è il nostro presente. Il cambiamento climatico agisce come spettro puro, un futuro non ancora compiuto che però incombe e obbliga, condizionando ogni scelta politica e quotidiana. Poi c’è la tecnologia. Derrida intuiva che ogni nuovo supporto produce spettri: archivi, media, tele-tecnologie che amplificano l’effetto fantasmatico. Oggi questo è tangibile: deepfake, avatar postumi, voci sintetiche dei morti, le allucinazioni delle intelligenze artificiali. Presenze senza corpo che parlano e agiscono, incarnando perfettamente la logica spettrale.

Infine, la questione geopolitica e religiosa. Derrida ammoniva che la fine dei blocchi non avrebbe inaugurato un’armonia, ma il ritorno violento dei fondamentalismi e dei nazionalismi. Egli evoca perfino lo spettro di una “guerra mondiale per Gerusalemme”: il rischio che il conflitto per la Città Santa – crocevia simbolico e politico delle tre religioni monoteiste – diventi l’epicentro di uno scontro planetario. E la Palestina geografica è effettivamente l’epicentro dei disequilibri geopolitici contemporanei, nonché il punto di manifestazione di questioni ormai decennali che si stanno affrontando con metodi che abbiamo pensato non fossero più di questo mondo, e che l’ingenuo e sensibile idealismo di Fukuyama non sarebbe stato in grado di intercettare. Se la soluzione di un conflitto è la cancellazione totale e materiale del nemico, si è sullo stesso campo di Marx prima della venuta del suo spettro: la fede in un esorcismo totale. Ma di spettri ce ne sono e ce ne saranno sempre di nuovi; ogni guerra evoca i suoi futuri contrappassi, ogni morte torna come odio calcificato – perché la possibilità è anche che gli spettri siano in grado di creare contenitori propri. Che essi, in altre parole, sappiano disegnare margini. Immaginiamo un lutto non affrontato, un dolore rimosso. Se questo vale per gli individui, vale anche per le collettività. Là dove i contenitori storici non reggono o non hanno compiuto il lavoro del lutto, emergono nuove forme di spettralità politica. Immaginiamo la questione, per dirne una, del fascismo in Italia: un discorso mai fatto fino in fondo, mai affrontato in tutta la sua complessità. Sarebbe complesso argomentare contro il fatto che gli spettri del ventennio, sepolti nel dopoguerra, abbiano continuato a tessere i propri involucri fino a porre le basi per il ritorno del nazionalismo odierno.

Su tutto, Derrida individua la struttura messianica: il bisogno di una giustizia sempre a-venire, mai compiuta. La vediamo nei micro-messianismi politici, che ripongono speranze effimere in leader o movimenti che vengono abbandonati non appena il loro discorso fa i conti con la materia concreta, e lo vediamo nelle versioni secolarizzate del mito della salvezza: il transumanesimo di cui Peter Thiel si fa concreto promotore, la fede nella singolarità tecnologica. Sono varianti della stessa logica: l’attesa di un evento che non arriva mai, che proprio per questo ci comanda come spettro. Ciò va a braccetto con un altro fenomeno contemporaneo su cui Derrida non si sofferma (perché il problema allora era l’esplosione di un ingenuo ottimismo): il feticismo per le apocalissi. Il nostro tempo è composto e ritmato dalle catastrofi; la nostra letteratura, cinematografia, e non solo si struttura attorno al post-apocalittico come orizzonte di liberazione, il mondo che sembra essere al di là del margine del mondo ma che è totalmente parte di esso; lo diceva già Marx che il capitalismo si nutre delle crisi. Questo è ciò che unisce politicamente la classe più abbiente, a livello globale, con le classi più povere: la convinzione che il mondo stia finendo. Non è forse L’uomo senza talento un’apocalisse senza catastrofe? Eppure, un uomo che vende pietre è anche una parodia di quella stessa apocalisse: è una stupidità sapiente – è la follia che produce la luce della ragione del nostro tempo.
Cosa fare con gli spettri?
Ma a questo punto la questione si rovescia: non basta descrivere gli spettri, bisogna chiedersi cosa farne. La forza dell’opera di Derrida (e dell’editore Raffaello Cortina che lo ripubblica adesso) sta proprio qui: trasformare un problema teorico in un compito pratico, quasi etico. Se prendiamo sul serio Spettri di Marx oggi, il punto non è contare i fantasmi, ma vedere che cosa li contiene, e che involucri producono essi stessi. Bisogna percorrere quei margini, parodiarli seriamente come Stirner. Bisogna, soprattutto, fare i conti con l’eredità, che significa: bisogna fare i conti con la storia, e ognuno deve fare i conti con la propria. Neofascismo e sovranismo, per esempio, possono essere letti come due contenitori spettrali, nati da lutti storici mai elaborati. Nel primo caso, il fascismo storico rimasto irrisolto riaffiora sotto forma di nostalgia per il capo forte, mito della comunità organica, simboli e rituali reiterati senza contesto, sostituendo la memoria critica con un deposito inconscio di risentimenti. Nel secondo, lo spettro non è il fascismo ma la globalizzazione: la perdita percepita di sovranità, la precarietà e le diseguaglianze trasformate in rabbia, la promessa tradita della democrazia ridotta a dominio delle élite. In entrambi i casi, ciò che non è stato simbolicamente sepolto ritorna come materia grezza che coagula in identità difensive: il passato fascista non elaborato da un lato, il lutto per la fine delle sovranità nazionali dall’altro. Entrambi trasformano il non detto in nostalgia e paura, costruendo così i margini del proprio contenitore politico. Qui si capisce bene la lezione derridiana: il fantasma non è un accidente da esorcizzare, ma un modo in cui il presente si organizza quando i suoi contenitori – giuridici, economici, familiari, mediali – non reggono, o reggono troppo.

Forse la domanda, che cosa fare con gli spettri, si concede a una interpretazione letterale. Serve davvero metaforizzare una questione che è completa già così com’è? Non basterebbe chiedersi, al massimo con un taciuto intento parodico, cosa si farebbe davvero di fronte a un fantasma? E per comprenderlo, si intende: ciò che Derrida impone è di non fuggire, e se si riesce anche di non urlare. La nostra arte ci ha sempre offerto molti spunti, dalle ghost stories vittoriane alle case infestate, i romanzi dell’orrore – che hanno preso il posto dei miti antichi, in cui gli spettri abitavano l’Ade, vagavano nel buio, e occasionalmente incontravano i vivi. Nelle culture animiste i fantasmi degli antenati non vengono scacciati, ma accolti e collocati entro margini simbolici ben definiti. Attraverso altari domestici, rituali di offerta, feste periodiche come l’Obon giapponese o il Día de los Muertos, e tramite la mediazione di figure sciamaniche, i morti ricevono attenzione e riconoscimento, evitando così di tornare come presenze caotiche o persecutorie. Il fantasma diventa antenato: non più spettro inquieto, ma presenza integrata che fonda la continuità e la coesione del gruppo.

Se il fantasma si prestava a letteralità, è chiaro che i contesti culturali necessitino di un certo grado di generalizzazione. Spettri di Marx non è un invito a creare giorni di festa o rituali in onore degli spettri – men che meno per quelli di Marx. In L’ideologia tedesca Marx ed Engels chiedono di smascherare i fantasmi delle ideologie, rivelandoli come costruzioni storiche senza sostanza autonoma. Il fantasma, qui, è un’illusione che va dissolta con la critica materialista. In Spettri, invece, Derrida rovescia la prospettiva: i fantasmi non possono essere liquidati, perché la loro forza sta proprio nel fatto che continuano a ritornare come richieste di giustizia. “Cosa fare degli spettri?”, allora, significa né scacciarli né idolatrarli, ma dar loro un posto, un margine simbolico che consenta di vivere con essi senza esserne invasi. Le culture animiste ci offrono un’immagine concreta di questo atteggiamento: il fantasma dell’antenato diventa antenato attraverso il rito, cioè attraverso una forma di ospitalità che riconosce il suo ritorno dandogli confini e regole. Filosoficamente, ciò significa che gli spettri sono ciò che ci lega a un passato non chiuso, ma che non per questo deve governarci: richiedono un lavoro di ospitalità critica, che li mantenga visibili senza lasciarli degenerare in ideologia o in rimozione. Richiedono il lavoro di pensare al morto, di far lutto. Semplificando ancora, richiedono il lavoro di pensare alle cose – invece che essere da esse pensati, guidati, distratti, alienati.
“Pensare è ereditare”
Ritorniamo, in conclusione, ai contenitori; prendiamo in prestito la grammatica psicoanalitica di Wilfred Bion, per il quale il pensiero nasce solo là dove esiste un contenitore capace di trasformare l’esperienza grezza in qualcosa di pensabile (cfr. Bion, 2019). Il neonato, travolto da sensazioni incerte e ingestibili, non potrebbe mai organizzare da sé queste emozioni: esse rimarrebbero elementi beta, pura angoscia. È l’altro – la madre, il caregiver, il gruppo, l’ambiente – che accoglie quell’angoscia, la elabora e la restituisce in forma digerita, permettendo al bambino di interiorizzare la possibilità stessa di pensare. In questo senso, il contenitore non elimina lo spettro dell’angoscia, ma lo rende abitabile: non lo scaccia, lo ospita entro un margine simbolico. Senza contenitori, o anzi senza l’esperienza di un contenitore, il pensiero rischia di non entrare in moto, rischia di rimanere inefficace, dissociato dall’esperienza grezza e in essa frammentato

In sostanza, per Bion il pensare si eredita – ma possono essere ereditati anche i pensieri. La differenza è marcata. Il pensare si eredita come gesto, come postura; i pensieri si ereditano come oggetti, rappresentazioni di oggetti, e associazioni coatte fra oggetti. Il cruccio di Marx e Stirner è assolutamente psicoanalitico: come liberarsi dei pensieri, delle associazioni, delle rappresentazioni che non ci appartengono, che forse ci opprimono, e appropriarsi totalmente del pensare libero? È in questo esatto senso che Fisher poneva i disagi mentali, come la depressione, come questioni di classe (cfr. Fisher, 2019, 2023): le condizioni materiali di vita decidono sulla possibilità degli individui di elaborare per loro stessi la propria esperienza vissuta. Tsuge e gli yonigeya mostrano cosa accade quando la società abdica alla funzione di contenere ed elaborare: il contenimento si privatizza, diventa sparizione, autodisinnesco, vita in sottrazione. I corpi vengono svuotati, ma i loro fantasmi persistono altrove. Il punto di Spettri di Marx oggi è allora un’indicazione cruciale: servono contenitori, serve produrre deliberatamente involucri di pensiero giusti. Spettri è uno di quelli – ma da solo, visto lo stato del mondo, non basta.
- Wilfred R. Bion, Apprendere dall’esperienza, Astrolabio/Ubaldini, Roma, 2019.
- Mark Fisher, Buono a nulla, in Non siamo qui per intrattenervi. Scritti sulla letteratura, interviste e riflessioni K-punk / 4, Minimum Fax, Roma, 2023.
- Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntology e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019.
- Karl Marx, Il Capitale, volume I, Einaudi, Torino, 2024
- Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972.
- Mattia Luigi Pozzi, L’erede che ride. Parodia ed etica della consumazione in Max Stirner, Mimesis, Milano-Udine, 2015.
- Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Adelphi, Milano, 1991.
- Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1983.
- Yoshiharu Tsuge, L’uomo senza talento, Canicola, Bologna, 2023.

