“«Le piace la mia stanza?»
«È una stanza».
«È la mia stanza»”.
* Con queste parole Titta (Toni Servillo) accoglie nella sua camera d’albergo Olivia (Sofia Giorgi), di cui è innamorato nel film Le conseguenze dell’amore (2004) di Paolo Sorrentino. È un dialogo comune, eppure racchiude un significato più profondo: Titta, che vive da solo da anni, concede a qualcuno di accedere al suo spazio privato. Quest’ultimo è rappresentato dalla stanza di hotel, impersonale, pensata per essere riprodotta in serie e offrire alloggio alle persone più differenti. Questo, almeno, è ciò che vede Olivia. Ma per Titta non è una stanza come le altre: è la sua stanza, un luogo che lo accoglie da tempo. Quelle pareti racchiudono un pezzetto della sua vita privata, hanno assorbito un frammento della sua personalità. La casa e le sue stanze rappresentano spazi di intimità, un rifugio impenetrabile alle minacce esterne. Le pareti aiutano a separare situazioni diverse, in cui assumere comportamenti distinti e adeguati. In uno spazio personale è possibile esercitare un maggiore potere, si può “controllare il flusso delle […] azioni ed emozioni, esponendosi in modo selettivo al contatto di eventi ed altre persone” (Meyrowitz, 1995). Questa possibilità risulta determinante nella società attuale, in cui la sfera privata ha un valore indiscutibile.

A oggi, il mondo viene percepito sulla base della personalità del singolo, da sviluppare tramite rapporti sociali intimi e sinceri, appiattendo così i contatti con la folla sconosciuta e pericolosa (cfr. Sennett, 2006). Da ciò, la frattura fra la sfera pubblica e privata, che porta le persone a cercare nell’intimo la stabilità che non sanno costruirsi all’esterno. La dicotomia fra ciò che siamo nei rapporti sociali o in solitudine può dunque determinare diversi squilibri. Questi ultimi vengono spesso tematizzati nel cinema di Wes Anderson. Il regista texano è in grado di dare risalto allo stretto legame fra i suoi personaggi e l’ambiente in cui vivono, grazie a un’accurata messa in scena. Così la rappresentazione degli spazi risulta fondamentale per la comprensione dei protagonisti, illuminando aspetti della loro caratterizzazione e del loro rapporto con sé stessi e gli altri. Infatti Anderson predilige temi relazionali, in particolare complicati legami familiari fra personaggi traumatizzati, nel caso del suo ultimo La trama fenicia (2025) come in I Tenenbaum (2001), uno dei primi film ad accendere i riflettori sul regista. Ma per comprendere meglio il rapporto fra i protagonisti di questi film e i luoghi che abitano, è necessario indagare le radici del nostro attaccamento al nido familiare.
L’origine della nostra concezione di casa
L’idea di casa come luogo di accoglienza deriva dall’Ottocento, con la crescita della classe borghese. In quel secolo, la dimensione privata assume un’importanza crescente: quando gli uomini iniziano ad aver timore del modo in cui appaiono in pubblico, della folla delle grandi metropoli, tendono a cercare un riparo sicuro nell’ambito familiare (cfr. Sennett, 2006). Spesso la vita dell’uomo viene paragonata ad una rappresentazione teatrale, come recita lo shakespeariano “tutto il mondo è un palcoscenico”. Questa metafora è stata adottata per spiegare il comportamento umano: secondo Erving Goffman, l’uomo conduce la propria vita come un attore, adeguando il comportamento agli spettatori che lo stanno osservando e al luogo in cui si trova (cfr. Goffman, 1997). Eppure dal XX secolo si perde gradualmente la capacità di stare al gioco della rappresentazione, a causa di “una cultura trasformata in «spettacolo» dalla borghesia, che sottrae alla sfera pubblica il suo valore di forma di socievolezza” (Sennett, 2006).

La classe borghese avverte la responsabilità di recitare convincentemente il proprio ruolo, variandolo a ogni situazione sociale. Poiché la sfera pubblica viene avvertita come altamente codificata, ogni forma di spontaneità nei rapporti sociali diventa pericolosa. Questo meccanismo è avviato dallo sviluppo della coscienza della personalità individuale, dovuto al capitalismo e alla secolarizzazione della cultura (ibidem). Quest’ultima implica che ogni cosa sia significante di per sé, senza essere espressione di una realtà trascendente: ogni particolare dell’atteggiamento di un individuo può rivelarne l’essenza. Il modo di vestire, camminare, presentarsi agli altri non rientra più in un ordine generale che ne giustifica l’esistenza, come in passato. Piuttosto, dipende dalla persona agente, che diventa vulnerabile: intessere relazioni comporta il rischio di rivelare l’uomo al di sotto della maschera, indossata per convenzione nello “spettacolo” della vita pubblica. Da ciò si sviluppa l’idea di personalità e la conseguente paura di mostrarla inavvertitamente agli altri. Dato che “la complessità viene ritenuta un ostacolo alla stabilità del carattere, si sviluppa un atteggiamento ostile all’idea e alla pratica di una vita pubblica” (ibidem), che porta a preferire la sfera privata, nella sicurezza della propria abitazione. Per questi motivi, l’Ottocento apporta dei cambiamenti alla concezione della casa. È in questo periodo che diventa sinonimo di rifugio e viene associata alla figura femminile, a causa della permanenza della donna negli ambienti familiari (ibidem).
Una modernità domestica
Da qui, la concezione moderna della casa come ambiente accogliente, estensione del grembo materno. Nonostante ciò, la suddivisione fra sfera pubblica e privata permane anche all’interno delle case, che hanno un assetto da rifugio e palcoscenico (cfr. Frykman, Lofgren, 1987), poiché composte da stanze per l’accoglienza degli ospiti e camere da letto, fuori dalla portata dei visitatori. A partire dalla camera matrimoniale, nell’Ottocento questi ambienti assumono il ruolo di luogo di riposo e meditazione. Se l’abitazione è un luogo in cui fuggire l’esterno, la camera da letto è l’apoteosi di questo pensiero: la privacy che garantisce permette comportamenti definiti “da retroscena”, contrapposti a quelli “da ribalta” (cfr. Goffman, 1997). Questi sono adatti a contesti codificati e formali, come fra medico e paziente. Al contrario, i primi sono informali e intimi, per cui è concessa più spontaneità. Gli uomini ottocenteschi temono la ribalta, in quanto hanno paura di rivelare inavvertitamente sé stessi (cfr. Sennett, 2006), e per questo accordano maggiore importanza all’ambiente privato della casa, sentendosi minacciati dai rapporti sociali.

Secondo Richard Sennett, un secondo fattore che promuove il timore della vita pubblica è il dilagare del capitalismo. Nello specifico, la disponibilità di merci comporta due conseguenze: da un lato, si tende all’omologazione nel modo di presentarsi in pubblico, in quanto le persone acquistano oggetti prodotti in serie; d’altra parte, poiché tutti i prodotti si somigliano, si è attratti da quelli con caratteristiche inusuali. Questo fa scaturire nelle persone il desiderio apparentemente contraddittorio di conformarsi e distinguersi. In questo modo, diventa possibile esprimere la propria appartenenza alla società, senza il rischio di venirne fagocitati. Anche le merci acquistate diventano espressione di chi le possiede. Queste sono le radici di quella che Sennett definisce “società intimista” (ibidem) contemporanea, contraddistinta dal “desiderio di fuggire e di trovare nella vita privata, in particolare nella famiglia, un principio d’ordine nella percezione della personalità” (ibidem).
La ricerca di privacy e la necessità di stabilizzare la propria personalità tendono a dare risalto alla casa e alle sue stanze. Nello specifico, una stanza personale in cui essere sé stessi, in solitudine, può rappresentare il più grande rifugio per il raccoglimento individuale e la costruzione del sé. Infatti, se il nostro atteggiamento varia in base agli spazi in cui ci troviamo e alla nostra compagnia, avere una “stanza tutta per sé”, come recita il titolo di un saggio di Virginia Woolf, può essere cruciale per assumere gli atteggiamenti più rilassati da retroscena. Un luogo personale, in cui stabilizzare la situazione e controllare lo spazio, risulta fondamentale per lo sviluppo della sfera privata. In questi luoghi avviene la prova della messa in scena, lo sviluppo di una personalità da portare sulla ribalta (cfr. Goffman, 1997) per intessere una vita pubblica soddisfacente.
La messa in scena di Wes Anderson e l’espressione del privato
Il cinema di Wes Anderson ben rappresenta il tema delle stanze come prolungamento della personalità dei suoi personaggi. Questo è dovuto a una grande attenzione del regista per gli spazi della messa in scena, derivante dal suo status di autore indipendente, che segue maniacalmente ogni aspetto della produzione. I suoi film sono caratterizzati da una gran cura nella scelta delle inquadrature e dell’apparato scenico, spesso carico di elementi fuori dal comune, volutamente artificiosi. Per la saturazione delle inquadrature e dei set, il cinema di Anderson può essere definito da “collezionista”: l’abbondanza di oggetti inusuali è un tentativo di riempire il vuoto e il senso di perdita dei suoi protagonisti (cfr. Kornhaber, 2017). Questo è un tema ricorrente nei film del regista, che presentano personaggi alla ricerca di stabilità e di un luogo di appartenenza. Il loro tentativo di riordinare la propria vita interiore viene espresso tramite la scenografia, rigidamente organizzata per uno straniante effetto visivo.
Questi personaggi hanno a loro volta vaste collezioni, tramite le quali cercano di creare un’identità stabile, “realizzando attraverso la selezione e la disposizione una logica ed un’espressione interamente personali” (Kornhaber, 2017). Questa estetica artefatta rende riconoscibili i film di Anderson, che sembrano svolgersi in una dimensione favolistica, pur conservando la veridicità dei sentimenti rappresentati. Ciò porta il regista ad essere associato alla corrente della “New Sincerity” (MacDowell, 2011), che vuole suscitare l’empatia del pubblico tramite il distacco ironico. Per questo, il cinema del texano viene rifiutato da alcuni, poiché persiste l’idea per cui “gli artifici e le regole appaiono come un ostacolo alla rivelazione dell’individuo, dell’espressione dell’intimità” (Sennett, 2006). Al contrario, Anderson realizza uno scavo nell’interiorità tramite il distanziamento, ottenuto con l’artificialità di set e riprese.
Il treno per il Darjeeling (2007) offre un esempio magistrale di rappresentazione degli spazi come espressione di un microcosmo interiore.

Il film racconta della riunione familiare dei tre fratelli Whitman, Francis (Owen Wilson), Peter (Adrien Brody) e Jack (Jason Schwartzman), in seguito alla morte del padre. Il loro incontro è un viaggio spirituale nell’entroterra indiano, durante il quale dovranno imparare a lasciar andare un bagaglio emotivo ingombrante, rappresentato alla lettera dalle valigie lasciate in eredità dal padre. I loro pesanti bauli sono carichi di traumi, fra cui il lutto recente e l’abbandono da parte della madre. Durante il loro viaggio collezionano esperienze e persone, a loro modo in cammino, alla ricerca di stabilità. Tutto ciò viene presentato dal regista con una lunga carrellata orizzontale, con la quale vengono immortalati i vagoni del treno in sezione, così da mostrare chi vi abita. Sulle note di Play With Fire dei Rolling Stones, Wes Anderson mostra i suoi personaggi come rinchiusi in piccole scatole da scarpe, mentre il mondo scorre al di là delle finestre dei vagoni. Ma quest’ultimi non sono i classici scompartimenti del treno: dei bambini giocano nella loro abitazione in pietra dipinta di azzurro; l’assistente licenziato da Francis è in aereo, i sedili tagliati a metà dalle pareti dei vagoni; la donna amata da Jack sorseggia un Bloody Mary dal letto di un hotel francese; la moglie di Peter è incinta in una camera d’ospedale. I vagoni si susseguono davanti agli occhi degli spettatori, funzionando come un’ulteriore inquadratura, uno spazio claustrofobico che ritaglia una porzione di un ambiente più ampio, un frammento di vita. Mai come in questo caso la messa in scena degli spazi da parte del regista può rappresentare le stanze come estensione della personalità del singolo, un guscio che protegge dall’esterno.
La trama fenicia: le stanze come specchio di chi vi abita
Questa particolare attenzione per la caratterizzazione degli spazi è evidente nella maggior parte della filmografia del regista, da I Tenenbaum (2001), la prima pellicola in cui emerge consapevolmente la sua estetica visuale, al suo ultimo La trama fenicia (2025). Questi due film, così distanti nel tempo, continuano una ricerca costante sulla rappresentazione dei luoghi, come espressione tangibile dell’equilibrio fra un mondo privato, intimo e confortevole, e uno pubblico, esterno e minaccioso.
La trama fenicia torna sul tema della famiglia, questa volta analizzato nel legame padre-figlia di Zsa-zsa Korda (Benicio del Toro) e Liesl (Mia Threapleton). Il primo è un industriale ricercato in tutto il mondo per i suoi affari illeciti, mentre la seconda è una novizia, sta completando il suo percorso per diventare suora. Nonostante i due non si vedano da anni, Korda decide di riallacciare i rapporti con la figlia in seguito all’ennesimo tentato omicidio, affinchè qualcuno possa continuare i suoi piani in caso di decesso. La ragazza accetta la proposta, poiché crede di poter compiere delle buone azioni guidando gli investimenti del padre, seppur sospetti che sia l’assassino di sua madre e delle due mogli precedenti. Quando l’uomo proclama la sua innocenza, indicando invece lo zio Noubar (Benedict Cumberbatch) come colpevole, promette a Liesl che potrà vendicare la madre.

Talvolta l’ambientazione di un film permette un ulteriore livello di narrazione visuale. Nel caso in esame, le personalità dei personaggi sono rappresentate attraverso le sistemazioni spaziali, l’architettura supporta la storia (cfr. Inceoğlu, Gündem, 2024): il regista racconta particolari della vita dei suoi protagonisti tramite l’arredamento delle loro stanze. Palazzo Korda, residenza del protagonista, è un’imponente villa in marmo, liberamente ispirata agli edifici del Rinascimento italiano (un intertitolo indica che risale al 1585, e il nome originario era “Ca D’Argento”). È qui che avviene l’incontro fra padre e figlia, a un tavolo nell’ampio salone rettangolare. La stanza ricorda un’aula di tribunale di cui Zsa-zsa, seduto al centro di un lungo tavolo in legno, è il giudice indiscusso nell’accogliere i suoi ospiti, figlia compresa. Allo stesso tempo, il salone ricorda una chiesa: il tavolo al centro della sala, sopra un piedistallo rialzato in marmo, è un altare metaforico, la sede di un padre che condivide le caratteristiche di un dio. Pur non avendo incontrato la figlia per anni, conosce ogni particolare della sua vita, è onnisciente. Allo stesso tempo sembra immortale, riuscendo a sopravvivere a ogni attentato che viene tramato a suo danno. Il paragone con l’aula di una chiesa viene inoltre suggerito dallo stesso regista in una scena del film. In salotto, Liesl incontra la sua superiora, che le sconsiglia di terminare il percorso vocazionale: durante il loro discorso, la sala si oscura, delle croci di luce vengono proiettate sulle pareti. In realtà sono proprio queste ultime a evidenziare il rispecchiamento dell’uomo nel suo ambiente. Infatti, come in molti edifici rinascimentali, le pareti sono dipinte in prospettiva, in maniera illusionistica.
Illusionismi a misura d’identità
Seguendo gli esempi della Farnesina, della Camera degli Sposi e delle Stanze Vaticane, molti degli elementi architettonici del salotto di Palazzo Korda sono solamente dipinti, non esistono. Così le colonne sono solamente affrescate, facendo apparire la stanza come più ampia di quanto sia in realtà. Inoltre, immediatamente sotto al soffitto cassettonato sono dipinte delle tende, che nascondono panorami inesistenti. L’illusionismo della stanza ben rispecchia il carattere del suo proprietario: durante tutto il film, Korda viene accusato di essere un bugiardo, di rappresentare la realtà in modo distorto. È questo il motivo della diffidenza di Liesl e dei suoi colleghi in affari. Wes Anderson si diverte così a segnalare visivamente le qualità del suo protagonista, che viene addirittura immortalato mentre è immerso nella lettura di un libro dal titolo Questionable Authenticity.
Un altro ambiente associato a Zsa-zsa è il suo bagno. Per l’intera durata dei titoli di apertura, il regista riprende il suo protagonista con un’inquadratura perpendicolare al pavimento. Come se dio in persona stesse osservando Korda dall’alto, mentre mangia e fuma nella vasca da bagno e molte infermiere si susseguono per assisterlo dopo un incidente aereo. Per Korda non c’è tregua: anche nel suo bagno, l’ambiente privato per eccellenza, viene scrutinato. Zsa-zsa è incapace di avere una dimensione privata: è un uomo d’affari costantemente in pericolo, spiato e controllato. Nel suo caso, l’inferenza del mondo esterno è talmente pervasiva da impedirgli di coltivare una sana vita intima. Infatti, i suoi tre matrimoni sono saltati, così come il rapporto con tutti i suoi figli, Liesl compresa.

Il suo salotto ne è la prova: è un’aula, un ambiente da palcoscenico. E lo è anche il bagno, in costante rapporto con l’esterno tramite il telegrafo. La sua personalità è un’illusione, come gli ambienti che vive. Al contrario, Liesl ha un’esistenza racchiusa in un ambiente intimo. Vive in convento da quando aveva cinque anni, per volontà del padre. Di conseguenza, conosce poco il mondo al di fuori della realtà ecclesiastica. Ciò si evince anche dalla rappresentazione della sua camera, un guscio appartato, in grado di proteggerla dal mondo esterno. La sua stanza nel Palazzo Korda è un ambiente spartano, con ben pochi arredi. Solo la carta da parati e le tende con i fiorellini rosa testimoniano il passaggio di una bambina, che ormai non vive lì da molto tempo. Tutto rimanda alla religione: un leggio per recitare le preghiere, un crocifisso in uno stanzino che ricorda un confessionale, un letto incassato nella parete e chiuso da un baldacchino rimanda alle nicchie e alle cappelle nelle cattedrali. Ma nell’arco del film riuscirà ad aprirsi all’esterno. È un passaggio graduale, visibile prima di tutto dal vestiario: ben presto, Liesl abbandona l’aspetto austero da suora, imparando a truccarsi con colori sgargianti e indossando calze verdi. Impara a relazionarsi con un mondo esterno che non ha mai vissuto, innamorandosi di un uomo e recuperando il rapporto con il padre. Infatti, anche Korda è artefice di un’evoluzione, arricchendo invece la propria vita privata. Invece, Liesl recupera la dimensione pubblica, decidendo infine di abbandonare il proposito di diventare suora. Quello che cercava in Dio, in realtà, era la figura paterna che non aveva mai avuto.
I Tenenbaum: le stanze come rifugio di una personalità inespressa
La trama fenicia dimostra quanto la rappresentazione degli spazi nei film di Wes Anderson sia significativa per la comprensione dei personaggi, e delle loro dinamiche conflittuali fra la loro vita privata e pubblica. Gli stessi temi erano stati affrontati da Anderson in I Tenenbaum, nel lontano 2001. In riferimento a questa pellicola, il regista può essere ben definito come un “architetto”: lo spazio ha un ruolo da protagonista, permettendo lo svolgimento della trama (Inceoğlu, Gündem, 2024).
Il film è incentrato sulla famiglia Tenenbaum, composta da Royal (Gene Hackman) ed Etheline (Anjelica Huston), e i tre figli Chas (Ben Stiller), Richie (Luke Wilson) e Margot (Gwyneth Paltrow). Questi ultimi si rivelano dei prodigi fin da bambini, emergendo come geni nel campo della finanza, del tennis e della drammaturgia. Nonostante le loro capacità brillanti, vivono un’infanzia traumatica, segnata dal rapporto conflittuale con il padre: Margot non viene mai percepita come figlia, in quanto adottata; Chas tenta in ogni modo di compiacerlo, senza riuscire ad attirare la sua attenzione; Richie, il preferito, vuole solo renderlo orgoglioso. Il trauma si scatena con la separazione dei genitori. Dopo anni, quando Etheline decide di risposarsi, Royal tenta di tornare nella casa matrimoniale, spinto anche da una situazione economica sfavorevole. Così, finge di avere una malattia terminale per ricominciare ad abitare con la moglie. Nello stesso periodo, i tre fratelli vivono un momento di crisi e ritornano a loro volta nella casa d’infanzia. La famiglia si ritrova così nuovamente unita fisicamente, senza però trovare la sicurezza mancante all’esterno. Il ritorno a casa dei figli è sintomatico di un tentativo di regressione all’infanzia: i tre non sono mai cresciuti. La casa, in questo senso, rientra ancora nell’ideale ottocentesco di rifugio e doppio della figura materna. L’edificio ha anche l’aspetto di una torre fortificata, come il disegno di un castello, con mattoni a vista e tetti a punta. La regina della fortezza è senza dubbio Etheline, a cui i giovani Tenenbaum chiedono ospitalità. Il mondo al di fuori della casa appare ostile ai tre fratelli, incapaci di relazionarsi con il mondo esterno e avere sani rapporti sociali: Margot tenta di nascondere ogni traccia di sé al pubblico, vivendo solo la dimensione privata, chiudendosi in bagno e poi nella casa di famiglia; Chas teme luoghi e avvenimenti che non potrà controllare; Richie anela a una vita all’esterno, ma è imprigionato in una realtà familiare intricata. Non riuscendo a bilanciare pubblico e privato, i tre cercano uno spazio intimo in cui costruire una realtà stabile.

La casa materna è così eletta a luogo in cui i Tenenbaum possono esercitare un maggior controllo rispetto all’ambiente esterno, in particolare negli spazi ristretti delle loro camere da letto. In una delle scene iniziali è inquadrata la porta della stanza di Margot, che presenta cartelli che scoraggiano l’accesso, quali “Do not disturb”, “Do not enter” e “Keep the door closed” (cfr. Lee, 2016). Fin dall’inizio, dunque, si rivela l’introversione della giovane Margot. Dal punto di vista spaziale, la necessità di privacy e lo sbilanciamento verso la sfera privata vengono esemplificati dall’abitudine di trascorrere intere giornate in bagno. Questa stanza è il luogo per eccellenza per gli atteggiamenti da retroscena, a cui il pubblico non può avere accesso (cfr. Goffman, 1997). Nella donna, lo squilibrio sta nella sua incapacità di mostrare accettabilmente al pubblico la personalità costruita nella sfera privata. Inoltre, la rappresentazione della sua stanza permette di rivelare altri particolari della sua vita privata: sulle pareti sono spesso rappresentate delle zebre, per esempio. Anderson usa sapientemente questo animale come doppio di Margot, simbolo delle sue passioni personali, e i rimandi sono continui. Uno di questi è nel primo spettacolo messo in scena dalla bambina, durante il suo undicesimo compleanno: i tre Tenenbaum interpretano animali in costume, e la sorella è proprio una zebra. Il padre non mostra interesse per la recita, giudicandola poco credibile, per cui Margot abbandona la festa, ferita dai suoi commenti.
Un luogo sicuro dove tornare
Questa sequenza mette in chiaro un processo di “rivelazione, delusione e isolamento” (Sennett, 2006): la ragazza tenta di esprimere la propria interiorità in un’interazione pubblica, non viene compresa, torna ad isolarsi nel suo retroscena. Il parere esterno è traumatico, per cui Margot si rifugia nelle sue passioni in privato, circondata da zebre, libri teatrali e modellini di palcoscenici. In questo senso, Anderson illustra il comfort della bambina nel suo spazio da retroscena, il cui arredamento è specchio di una personalità in costruzione, secondo un processo di formazione dell’identità tramite le apparenze (cfr. Sennett, 2006). La stanza è un luogo sicuro in cui tornare, in seguito al trauma di veder rifiutare dal mondo esterno la personalità costruita fra le pareti della cameretta.
Al contrario di quella della sorella, la porta della stanza di Chas è aperta fin dalle prime inquadrature. Il ragazzo, genio della finanza dall’infanzia, ha arredato la sua camera come un ufficio, con computer, telefoni, archivi di Forbes, armadio con camicie e cravatte e una macchinetta per il caffè. Anche questo ambiente da retroscena serve a costruire l’immagine di uomo d’affari che Chas mostrerà all’esterno. Anzi, sembra che la personalità pubblica del ragazzo invada gli spazi dell’intimità. Al contrario della sorella, Chas subisce l’assalto della vita pubblica nei suoi ambienti più intimi. Il trauma emerge da adulto, quando, diventato vedovo per un tragico incidente aereo, sviluppa una irrazionale paura del mondo. Questo ha i caratteri dell’«esterno» descritto da Goffman, elemento estraneo alla vita/rappresentazione in pubblico, che può subentrare in ogni momento e costringere l’uomo a modificare la propria vita e la propria recita (cfr. Goffman, 1997).

L’ambiente della cameretta, che unisce un ufficio da adulto con occupazioni più infantili, risulta comunque più accogliente della casa in cui Chas si trasferisce da grande. Quest’ultima è un appartamento bianco, sterile e moderno, privo del senso di sicurezza della casa familiare. Infatti, all’inizio del film Chas abbandona l’abitazione, non reputandola sicura per i propri figli in caso di emergenza. Nonostante la casa della madre non abbia alcun sistema di sicurezza, è per l’uomo un rifugio in cui raccogliersi con i propri figli. È un “ambiente familiare semplificato” (Sennett, 2006), rispetto alle minacce del mondo esterno e dell’appartamento. Nello specifico, la camera d’infanzia è un luogo sicuro in cui proteggere l’intimità, in quanto Chas può controllarne le vie d’accesso. È ciò che si verifica quando il padre torna in casa e l’uomo si rifiuta di ospitarlo nella sua stanza, vietandogli di entrare. Questo potere sui confini del suo spazio gli permette di definire con precisione quali rapporti intrattenere con l’esterno: può raggiungere la sicurezza a lungo ricercata. La stanza di Richie rispecchia gli interessi di un ragazzino, come batteria, radio, sport e macchinine. Nella camera vi sono molti richiami al tennis, specialità del bambino, come le palline gialle e gli innumerevoli trofei. Ma il particolare più degno di nota è rappresentato dalle pareti: sono azzurre, decorate con disegni, di cui alcuni ritraggono momenti felici fra il ragazzo e il padre. Richie è l’unico a godere dell’appoggio del genitore, ma Anderson sottolinea un rapporto conflittuale con la figura genitoriale proprio con la scenografia. Quando Royal va via di casa per la seconda volta, dopo che la sua menzogna sulla malattia è stata svelata, si vede un primo piano di Hackman e il disegno dell’infanzia felice di Richie sullo sfondo. Così, il tradimento del padre è ancora più evidente, in quanto il regista riesce a comunicare l’importanza della figura paterna nella vita privata del figlio.

Questo è un esempio di “indizio emotivo”, che attiva nello spettatore una reazione di malinconia e rimpianto dell’età infantile (cfr. Lee, 2016), poiché il regista esplicita visivamente l’inganno presente del padre, contrapposto alla dolcezza del ricordo del bambino. Quanto Royal rappresenti un ostacolo ingombrante per lo sviluppo di Richie è evidente soprattutto quando il padre, tornato a casa fingendosi malato, chiede al figlio un letto in cui stare. Richie gli cede il proprio, accampandosi in una piccola tenda da campeggio nella sala da ballo. Così crea uno spazio personale molto ristretto, di intimità e in cui sentirsi a suo agio. Qui trasferisce i cimeli d’infanzia e riesce infine a confessare l’amore per Margot. Nonostante ciò, il legarsi di Richie a ricordi del passato e lo stabilire confini ristretti per il suo spazio privato è sintomo di una vita intima vissuta come prigionia, una trappola in cui si costringe. A questo proposito, il colore azzurro della sua stanza allude a uno sfondamento delle pareti, rappresentando il cielo e trasmettendo un senso di libertà. Per Richie, la casa di famiglia è conforto e trappola, essendo invischiato in rapporti complicati, fra l’affetto per un padre assente e l’amore per la sorella adottiva. Per questo, un ulteriore spazio di riferimento è il tetto, dove il ragazzo trascorre gran parte del suo tempo in solitudine, allevando un falco. Quest’ultimo rappresenta il suo doppio, come la zebra per Margot: simboleggia la voglia di fuggire e poi tornare a casa, a uno spazio di appartenenza. Infatti, a metà film il falco vola via, per poi fare ritorno dopo aver fatto la muta del piumaggio. Anderson indica così un cambiamento radicale in Richie, che gli permette di vivere la famiglia in modo più equilibrato, dopo il tentato suicidio e l’aver confessato i sentimenti per Margot.
Un cinema esemplare
Risulterà chiara a questo punto l’importanza delle stanze come luogo intimo, uno spazio plasmato dalla personalità di chi vi abita. La possibilità di avere uno spazio personale, su cui esercitare un controllo pervasivo, diviene indispensabile per costruire la vita privata. Al contrario, l’esposizione continua al mondo esterno può minare la capacità di realizzare un’intimità soddisfacente. Questi due estremi compongono un equilibrio delicato, e Sennett sottolinea come, a partire dall’Ottocento, si sia sviluppata una società autoreferenziale, con individui tanto ossessionati dal proprio io da non voler rischiare di mettersi in gioco nei rapporti con gli altri (cfr. Sennett, 2006).
La filmografia di Wes Anderson ben rappresenta il modo in cui i personaggi forgiano gli ambienti in cui vivono, in base a diversi gradi di apertura verso l’esterno. Tutto ciò è reso visivamente tramite l’attenzione del regista per la scenografia. Così, il Palazzo Korda in La trama fenicia riflette la personalità severa e giudicante di Zsa-zsa, talmente preso dagli affari e dalle attività illecite da non riuscire a coltivare gli affetti della sfera privata.
D’altra parte, i Tenenbaum tornano nella loro casa d’infanzia per sfuggire a problemi personali: sono talmente feriti dall’esterno da non saper condurre una vita pubblica, riuscendo ad esprimere la propria personalità solo nell’intimità.
In conclusione, è possibile verificare l’importanza delle stanze, ma anche gli squilibri che possono derivare dal chiudersi al loro interno, temendo il mondo al di là delle pareti. Vivere solo nel retroscena rende l’uomo un “attore senz’arte” (Sennett, 2006), incapace di mostrare al pubblico la recita della sua vita, come accade per i giovani Tenenbaum. Invece, l’atteggiamento di Liesl è illuminante, riesce a evadere da uno spazio intimo e rassicurante come quello ecclesiastico, per imparare ad aprirsi all’esterno. Nonostante il potere rassicurante degli oggetti racchiusi nelle camere private, è necessario non rimanere invischiati nell’immagine della propria personalità. Il rischio è che la porta si chiuda per non essere più riaperta.
*Questo articolo è l’esito di un lavoro di ricerca svolto all’interno del corso di “Storia e teoria dei media” tenuto da Antonio Rafele presso l’Università La Sapienza di Roma.
- Jonas Frykman, Orvar Lofgren, Culture Builders: A Historical Anthropology of Middle-Class Life, Rutgers University Press, New Brunswick and London, 1987.
- Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1997.
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- Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo – Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna,1995.
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- Wes Anderson, I Tenenbaum, Touchstone Home Entertainment, 2016 (home video).
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