la casa dei giochi_locandina
LA CASA DEI GIOCHI (The House of Games)
è un film del 1987 diretto da David Mamet

TRAMA
Una psicoanalista di fama viene attirata in un giro di giocatori e di bidonisti: scopre piaceri che si era sempre negata, ma il gioco le sfuggirà di mano. Parabola amara sulla repressione degli istinti in una società puritana e satira discreta della psicoanalisi, ma anche abile giallo. Primo film del commediografo David Mamet.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

LA CASA DEI GIOCHI

regia di David Mamet

di Catello Parmentola


“Dammene ancora, signora”

 

… Joe Mantegna a Lindsay Crouse 

mentre lei gli scarica addosso tutti i colpi del proprio revolver, 

in una delle scene finali de La Casa dei Giochi di David Mamet

 

Ma perché la psicoanalista gliene dava tanti? E perché il “paziente” ne voleva ancora?
Perché la psicoanalista stava sopprimendo, col paziente, la colpa che non poteva sostenere, colpa incarnata (in lui) davanti ai propri occhi. Ed il “paziente”, che l’aveva capito bene, le diceva “dammene ancora, signora”. Nel senso di “dammene pure quanti ne vuoi, non è così che risolvi il tuo problema, io non c’entro niente, non era questa la mia partita, la mia era più lieve e leggera, tutto sommato più innocente.”
La partita di lui riguardava la maneggevolezza degli Oggetti, la dicibilità, ammissibilità, frequentabilità degli oggetti. 
La partita di lei riguardava il Soggetto, la pesantezza e l’indicibilità dei suoi conflitti e dei suoi tabù. Ma lui non poteva sapere cosa fosse in gioco per lei, che era una Signora.
Lui era solo un ladro e gli piaceva rubare.
Lei spara e spara e ciononostante non gli fa niente, non è quello il punto, non è quello il bersaglio. 
È solo una reazione (pura reattività, pura perdita, direbbe Jacques Lacan), nessuna risposta a niente, nessuna soluzione a niente.
Sopprimendolo non può comunque sopprimere il dato di fatto che lui “le è già accaduto”, non può sopprimere l’irrimediabilità di ciò che è già successo. Sparare non rimedia, non redime e non purifica (nonostante ci sia un capro espiatorio e ci sia pure un sacrificio, non c’è catarsi). Sparare non riavvolge la pellicola, non sfiora nemmeno il vero discorso dell’Errore di lei, della sua Colpa e del suo non riuscire né a sostenerla né ad elaborarla.

 

Per uno spettatore psicoanalista, questo finale di film è pura goduria. Ma lo è tutto il film. Logico e preciso. Psicoanalisi da manuale, da laurea honoris causa, come per esempio  Illuminacja (1973) di Krzysztof Zanussi e The Accidental Tourist (1988) di Lawrence Kasdan, come Le locataire (1976) di Roman Polansky, come A woman under the influence (1974) di John Cassavetes,  come Un coeur en hiver (1992) di Claude Sautet, piccoli film a volte, ma scientificamente, direi clinicamente, precisi. Molto più precisi (dispiace dirlo) dei grandi film psicoanalitici di Ingmar Bergman o Alfred Hitchcock o Stanley Kubrick che restano, comunque, film molto più grandi. (E comunque, il professore dei professori, riguardo alla precisione psicoanalitica, è ora e sempre, nell’alto dei più alti cieli, l’inarrivabile, sublime, squillo di tromba-rullo di tamburi, Philip Roth).
Allora, nella Casa dei Giochi la psicoanalista si mette a giocare, deroga e diverge, convinta di averne il governo ed il Controllo, si lascia un po’ andare, si incuriosisce ed esplora. 
“Crede di scegliere”, di pagare un po’ (poco poco) di dazio, ma le va, nei paraggi di una certa età, (nei paraggi) di certi curiosi ed intriganti luoghi di se stessa. Quando scopre che non governava niente, di essere stata strumentalizzata, non regge l’avere sbagliato la valutazione clinica, ma questo è il meno. Non regge di avere sbagliato valutazione nella vita. Discretamente innamorata, si lascia portare dove non avrebbe dovuto. Su una rischiosa frontiera di se stessa, da dove impatta certi nuovi livelli di verità. Che c’è il male per esempio, e lei non sa scorgerlo, non lo capisce e non lo vince. Che lei non è Dio per esempio, può sbagliare, può inciampare. Che la vita e l’amore possono violarla, per esempio. Che non tutta la vita può essere contenuta nei suoi Ragionamenti. La vita può straripare, insorgere, mancarle di rispetto. Che la psicoanalisi è solo un Mondo Discorsivo, il suo. Uno dei tanti. Ma la vita è più potente e selvatica ed indomabile. La vita disobbedisce. La vita, come si permette?, le disobbedisce. Disobbedisce a Lei, che è una Signora.
Che non è abituata, non lo sopporta, non ha corde e registri per potersi rappresentare l’asimmetria. Non riesce ad elaborare quella che pare La Sconfitta, ma che poi sarebbe solo l’accesso alla propria umanità, vulnerabilità, imperfezione. Non se ne dà pace. Ha visto cose di sé che non avrebbe voluto vedere, che non riesce a perdonare a chi l’ha portata fino a quel punto. E condanna l’Altro per delle cose di sé. E l’altro, che non ha mai studiato psicoanalisi, lo capisce molto prima e molto meglio di lei (forse troppo impegnata a studiare per potere capire, troppo lontana dalle cose, dalla vita e da sé). L’altro lo capisce: “dammene ancora, signora”. Che meraviglia: “dammene ancora, Signora!”.
La Signora, la Grande Psicoanalista, deve togliere dalla propria vita l’incarnazione della colpa, vuole Cancellare dal Mondo la Colpa (le colpe del mondo). Deve scomparire Chi l’ha deflorata al peccato-reato-rischio-miseria della propria umanità. La Forza che aveva sbugiardato la propria Debolezza, il “paziente” che l’aveva traumaticamente spinta nel realismo del possibile, strappandola al proprio narcisismo ancora primario. Non poteva perdonargli l’averle sollecitato-slatentizzato-scatenato Qualcosa che aveva dentro ma che si era sempre rifiutato di vedere, Qualcosa che cercava adesso di sopprimere sopprimendo lui. Qualcosa che poteva essere un Grande Dazio da pagare solo con una Contropartita ben più grande di un piccolo furto, un piccolo bidone. Un grande, sconfinato Amore, per esempio. Ma per un piccolo bidone, no. Questo era imperdonabile!: l’assegnare un così piccolo valore a Lei ed al suo stoico, coraggioso e sacro sforzo di ribaltare il proprio schema, di ribaltarsi.

 

Liberare la propria voglia di peccato, osare il mai osato (sostenuto) prima, solo per un piccolo bidone.                
“Scoprire” che non si è Perfetti, e neanche immortali, non sì è invulnerabili e neanche i più intelligenti o colti del mondo. Che ci si può ammalare e perfino morire. E soprattutto, scoprire, signora, che non sei la più buona, non sei veramente buona, non sei buona fin in fondo, fin nel profondo. 
La grande psicoanalista con la fragilità sgamata. I Bisogni e gli Ammanchi. 
La grande psicoanalista innamorata. Come tutte. Non si può controllare ogni cosa. C’è sempre un punto di frontiera non controllabile. Si è umani. Ci si può ammalare e morire, innamorare perfino.
Viaggiare questo viaggio e varcare questa frontiera, solo per un piccolo bidone. Perché lui è un ladro, e gli piace rubare.
La grande psicoanalista, non più buona, umana e innamorata, che non controlla più niente, non vale neanche il suo amore, l’amore del ladro-“paziente”. Troppo Male, Troppa Asimmetria.
E Tutto Questo per futili e gratuiti motivi, hobby e sport. Tutto questo male deve scomparire.
Non può vedersi nuda, miserabile e peccatrice ogni volta che lo vede, lo pensa o lo ricorda o ricorda Quello che è (irrimediabilmente già) stato.
Non può vedersi Piccola e Cattiva. Piccola come dentro un “disegnino”, dentro un piccolo bidone. Con lei non si scherza: il Ragazzo merita di morire. Le ha fatto del male, lei gliene farà di più. E alla fine, il Gran Finale. L’Asimmetria è materia grezza, un grumo emozionale finché non è elaborata. Poi diventa solo asimmetria, non ha più la “a” maiuscola. Dopo ogni deflorazione c’è una cosa in più che hai fatto, hai imparato a fare, sai fare. Ogni deflorazione elaborata aggiunge una possibilità-libertà. Arricchisce e articola il senso di possibilità e libertà. La psicoanalista che era stata traumatizzata dalla Asimmetria, la elabora ed impara a godere della leggerezza dell’asimmetria. Il realismo del possibile e la laicità. La sostenibilità dell’errore. Rimbalzare come una palla di gomma invece che spezzarsi come una bacchetta rigida. Potere tranquillamente cadere e derogare e stare dopo un attimo su un’altra cosa. Accogliere se stessa, finalmente. Una nuova felicità. Ecco cosa redime: l’elaborazione dei nuclei conflittuali. Non il sacrificio purificatore del capro espiatorio. Era solo questione di tempo. Si fosse data il tempo, dopo un po’ non le avrebbe più interessato uccidere. Non ne avrebbe avuto più bisogno.

Ma comunque ha elaborato. E se ne va leggera nel mondo, contenta di avere scoperto che, a qualche livello di sé, è anche lei una piccola giocatrice, e le piace giocare. È una piccola ladra, e le piace rubare. Accendini dalle borse al ristorante, magari. 
E porta per il mondo una Lei meno impegnativa, più facile, leggera e felice da portare. Il trauma elaborato diventa un Dono.
E porta per il mondo una che non è tanto signora, ma a cui vuole più bene e che le sta molto ma molto più simpatica.
“Dammene ancora, ma avresti dovuto ringraziarmi invece, signora”.
Avrebbe dovuto ringraziarlo: l’aveva deflorata a se stessa e alla vita. Alla strada, agli Incontri e a tutto quello che viene. A tutte le altre vite possibili dietro le quinte delle nostre paure e delle nostre difese, della nostra banalità e della nostra pigrizia.
L’aveva deflorata al senso della rinegoziazione, al senso del “non è mai troppo tardi” per un’altra scommessa di libertà e felicità, un’altra scopata, un’altra sconfitta rituale della morte.
“Venghino signori, la Casa dei Giochi è sempre aperta, aperta a tutti, ad ogni ora del giorno o della notte, in ogni Tempo ed ogni Luogo, tanti scherzi e tanti bidoni”.
Mai un Bidone. Vale sempre la pena. Di vedere, sentire. Toccare. 
Parlate-pensate un po’ meno la vita, parlatori professionali e tecnocrati dello spirito!
“Venite, Bambini, alla Casa dei Giochi!”