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THE BLUES BROTHERS (The Blues Brothers)
è un film del 1980 diretto da John Landis

TRAMA
Jake ed Elwood devono pagare 5.000 dollari di tasse e vogliono evitare la chiusura dell’orfanotrofio dove sono cresciuti. Per guadagnare la somma decidono di rimettere in piedi la vecchia band e tornare a suonare il blues.
Il film di Landis, che firma la sceneggiatura con Dan Aykroyd, si è trasformato quasi immediatamente (anche per la presenza sulfurea di Belushi) in un fenomeno di costume, un canone di eleganza, un inno al blues e una pietra miliare della comicità demenziale. L’inseguimento tra le strade di Chicago è autenticamente epico. Una lista infinita di partecipazioni straordinarie: James Brown fa il predicatore, Steven Spielberg l’impiegato delle imposte, il regista Frank Oz l’ufficiale del penitenziario che restituisce gli effetti personali, Twiggy la signora elegante, John Landis l’ufficiale di polizia La Fong, Ray Charles il venditore di strumenti musicali, Aretha Franklin balla e canta in pantofole e Cab Calloway rifà se stesso cantando Minnie The Moocher.
Assolutamente geniale.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

THE BLUES BROTHERS

regia di John Landis

di Daniela Fabro


Esistono film che sono entrati nella leggenda. Esistono attori che da soli incarnano un mito e svolgono una funzione cinematografica e sociale tratteggiando figure destinate a rimanere per sempre. Figure che si esprimono con la forza della loro presenza in scene memorabili che fanno la storia del cinema. Una di queste è sicuramente Joliet Jake, nome dietro il quale i suoi inconsolabili fan avranno sicuramente riconosciuto il fratello blues di Dan Aykroyd, l’irresistibile provocatore di istinto e di professione John Belushi, un ribelle naturale.
Film di culto per i numerosissimi appassionati di blues e per gli altrettanto numerosi seguaci di Belushi, The Blues Brothers, in seguito consacrato mito, quando uscì nel 1980, all’inizio, come accade a molte pellicole di questo tipo, non ebbe molto successo. John Landis, il regista, e anche sceneggiatore insieme a Dan Aykroyd, vi aveva investito davvero tanto e in più aveva superato molte difficoltà legate anche alla particolare situazione di John Belushi, dipendenza da droghe, alcol e anche cibo, che lo portarono due anni dopo ad una morte prematura (l’attore, di origine albanese e fratello maggiore di Jim Belushi, era nato a Chicago nel 1949).
E proprio la canzone Sweet Home Chicago del blues singer degli anni Trenta Robert Johnson, intitolata alla città più importante dell’Illinois, dove si svolge il film, è una delle strutture portanti della colonna sonora del musical più amato dalla generazione nata negli anni Cinquanta-Sessanta, il motivo-simbolo, insieme ad un altro indimenticabile hit dell’intera pellicola: Everybody Need Somebody To Love. Un inno del miglior rhythm and blues –lanciato nel 1964 da Solomon Burke – che ancora oggi, a distanza di trent’anni, viene usato come accompagnamento in feste e momenti rituali di divertimento collettivo, come per esempio il Carnevale (dopo l’uscita del film i più “sgamati” andavano alle feste vestiti di nero e con gli occhiali scuri, la divisa dei fratelli Blues, e l’unico costume che indossano per tutto il film, anche di notte).
In breve dunque la pellicola comincia a spopolare per la colonna sonora – che rilanciò il blues in tutto il mondo proprio quando imperversava la disco degli anni Ottanta ― composta soprattutto di soul music e, appunto, rhythm and blues.

 

Musiche cantate dai molti musicisti celebri, da James Brown (nel film, un prete), ad Aretha Franklin (la proprietaria di un fast food), da Ray Charles (un venditore di strumenti musicali) a Cab Calloway (il presentatore del concerto in cui la band si esibirà per raccogliere il denaro necessario e riscattare l’orfanotrofio), che appaiono nel film accanto ai fratelli Blues (Dan Arkroyd e Belushi stesso, ovviamente, Elwood e Joliet Jake: nomi che portano scritti sulle dita), più una scena in cui un bluesman molto popolare in America, ma meno qui da noi, John Lee Hooker, canta per strada una sua canzone impersonando se stesso. Ma il successo fu dovuto anche e soprattutto, come sottolinea tra gli altri il blog SuoniRumoriVisioni. blogspot.com (podcast della puntata 22 di una trasmissione di Radio Popolare sui Blues Brothers), per la sapida ironia, le scene e le battute gustose. Ironia che ha come principali bersagli la musica country, i gruppi neonazisti dell’Illinois e i “piedipiatti”, che nel mega inseguimento finale della blues-car, ma anche prima, quando si tratta di accorgersi che la patente di Elwood è scaduta e lui è ricercato in tutta la Contea, fanno la figura degli idioti. A questa lista c’è però da aggiungere un elemento non secondario, e cioè le donne. O meglio, la stabilità del rapporto di coppia, su cui si basa molta della filmografia hollywoodiana, anche nonostante (o proprio a causa) dei tradimenti, i litigi, gli abbandoni, le separazioni, che determinarono e seguirono l’istituzione del divorzio, ma che si risolvono però (quasi) sempre nel lieto fine.
L’ironia di Landis e Aykroyd a questo proposito è tanto più godibile in quanto lo smantellamento del mito della coppia felice è affidato proprio a John Belushi, un John Belushi in ottima forma, la sua migliore. Categoria “trasgressivi”, l’attore, che seppe suscitare da subito un culto militante, determinando il successo del Saturday Night Live, programma televisivo anch’esso oggetto di culto in America, fu soprattutto un provocatore, un genio del paradosso e della comicità sull’assurdità delle apparenze su cui si basa il vivere sociale (mirabili le prove che diede su questo genere in Animal House, diretto dallo stesso Landis, ma anche, ad un livello molto più sofisticato, ne I vicini di casa, ancora in coppia con Aykroyd, e in 1941 – Allarme a Hollywood), la cui immediata e poi continua celebrazione post mortem segnò l’inizio di un mito. E anche se lui amava dire che la gente non deve essere per forza perfetta e il divertimento sempre intelligente, è chiaro che, se anche perfetto nella vita egli non lo fu affatto (pagandone care le conseguenze), fu proprio la sua intelligenza a dare tutta quell’energia e quella carica alla sua arte.
Il prologo alla scena in questione è una tesi. Seguita dall’antitesi, nel momento clou, e dalla sintesi, il finale del film. Ed è molto interessante che lo schema classico della dialettica hegeliana si possa applicare alla sceneggiatura di un musical, che ha l’apparente e unico fine di regalare due ore di divertimento e di svago al pubblico. Dunque, all’apice dell’esibizione della band rimessa insieme dai fratelli Blues per raccogliere i soldi necessari a non far chiudere l’orfanotrofio cattolico dove erano cresciuti, i due intonano il celebre brano di Burke poi cantato anche da Wilson Pickett, Everybody Need Somebody To Love; e proprio l’inno all’amore romantico, questa la tesi, troverà nella scena successiva la sua più ironica, intelligente e divertente smentita (l’antitesi), in puro stile Belushi. Una scena che tutte le donne del mondo dovrebbero tenere a mente quando, invece di innamorarsene spassionatamente, cercano di “incastrare” un uomo. E che gli uomini invece apprezzano molto, ma nel modo sbagliato, perché li aiuta a nascondere le proprie insicurezze.       
Sulle sue note, cappello nero in testa, giacca e cravatta nere, pantaloni e scarpe nere, camicia bianca, occhiali scuri, che soltanto in questa scena Belushi toglierà per un solo significativo momento, Elwood e Jake escono di soppiatto dalla sala dell’hotel dove ha luogo il concerto, per andare a portare il denaro raccolto agli uffici della Contea, scappando da tutti coloro che li inseguono, e prendono un sotterraneo dove incontrano a sorpresa la fidanzata di Jake (Carrie Fisher, la principessa Leila di Guerre Stellari) armata di un supercannone (è dall’inizio del film che cerca di uccidere il fidanzato e adesso scopriremo perché):

 

Jake, John Belushi, non si è presentato all’altare il giorno delle nozze, e non sapremo mai per quale motivo, ma lo si intuisce. Lei infatti lo aspettava, in trepidante e virginale attesa, con 350 invitati, e adesso lo vuole punire per essere stata abbandonata. L’incredibile serie di giustificazioni che Joliet Jake riesce a snocciolare lo iscriverebbero di diritto al club dei maschi maschilisti, traditori, felloni e fedifraghi, ma terribilmente irresistibili: “Non mi uccidere, lo sai che ti amo baby, non è stata colpa mia, non ti ho tradito, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, avevo finito i soldi per il taxi, c’era il funerale di mia madre, un terribile terremoto, l’invasione delle cavallette…”. E difatti alla fine delle scuse lui si toglie gli occhiali, la guarda, la bacia e… lei ci casca: “Oh, tesoro”, inizia a dire. “Andiamo”, risponde allora lui rivolgendosi a suo fratello. “È fatto così”, chiosa Elwood. E i due spariscono. Riusciranno infine, dopo essere sfuggiti al più incredibile, spettacolare e rocambolesco inseguimento della storia del cinema (il film vinse anche un Guinness dei Primati per la quantità di inseguimenti che conteneva e “i film migliori sono quelli di inseguimento”, sosteneva Alfred Hitchcock) a pagare i 5.000 dollari necessari a riscattare l’orfanotrofio dalla chiusura, mentre fuori dal palazzo degli uffici tributari, sul portone dell’edificio dove sono entrati, divampa l’accanimento di un numero imprecisato di forze dell’ordine, anche a cavallo, in elicottero e in tank. Ma nello stesso momento in cui posano i soldi sul tavolo dell’ufficio delle tasse della Contea, scattano le manette. Il film si chiude con l’intera band in carcere (sintesi) che canta Jailhouse rock (il rock della prigione), canzone resa famosa negli anni Cinquanta da Elvis Presley.
Tornando alla fidanzata, Joliet Jake l’ha lasciata due volte, lei si lascia prendere e lasciare: tipico di un certo genere di coppia, verrebbe da dire, in cui c’è sempre uno dei due, la donna, ad amare e perciò a soffrire di più. A lasciar la parola a psicologi e sociologi apprenderemmo che gli uomini sono dotati di minori sentimenti e che le donne aspirano tutte all’agnizione stile Cenerentola (la miserevole che diventa principessa), ovvero che le femmine coltivano tutte indistintamente l’ambizione piccolo-borghese di costruirsi una casa e una famiglia per conquistare rispettabilità. Ma, a parte che non è sempre così, non sapremo invece mai quanto soffre Jake, costretto dalla sua avversa fortuna ad andare continuamente in carcere, a essere sempre senza soldi e, quando li ha (ben 5.000 dollari nel 1980), a regalarli alla suora del suo orfanotrofio. Insomma, dietro le donne abbandonate non c’è sempre un maschio traditore che se ne frega di loro (e che preferisce suonare la chitarra e bere la birra, oppure far bisboccia dietro le sbarre di un carcere insieme ai suoi simili compagni maschi detenuti che ballano allegramente al ritmo della sua band), quanto spesso un uomo piegato dai casi della vita, sfortunato e infelice, ma terribilmente tenero nonostante le apparenze, che è costretto a rinunciare a vivere quello che anche per lui sarebbe un grande amore a causa delle circostanze sfavorevoli del momento. Uomini di questo tipo andrebbero rivalutati, ed è quello che fa, per paradosso e capovolgimento dell’ironia, la memorabile scena dell’“invasione delle cavallette”, frase che continua a rimanere celebre tra gli appassionati del film e a far loro rimpiangere Belushi ancora adesso. Perché non sono loro che sono difficili (e duri).
È la vita, bellezza.

 


 

ASCOLTI

× Principato M., Numeri primi, download puntata 22, SuoniRumoriVisioni.blogspot.com, 2011.

 

VISIONI

× Avildsen J. G., I vicini di casa, 1981, Sony Pictures Home Entertainment, 2005.

× Landis J., Animal House, 1978, Universal Pictures, 2011.

× Lucas G., Guerre stellari, 1977, Warner Home Video, 2011.

× Spielberg S., 1941- Allarme a Hollywood, 1979, Universal Home Entertainment, 2000.