Dietro le quinte dei ricordi
di Quentin Tarantino

Quentin Tarantino
C’era una volta a… Hollywood
(USA-UK-Cina, 2019)
Cast principale:
Leonardo DiCaprio,
Brad Pitt, Margot Robbie,
Julia Butters, Al Pacino
Produzione: Heyday Films
Distribuzione:
Sony Pictures Entertainment

Quentin Tarantino
C’era una volta a… Hollywood
(USA-UK-Cina, 2019)
Cast principale:
Leonardo DiCaprio,
Brad Pitt, Margot Robbie,
Julia Butters, Al Pacino
Produzione: Heyday Films
Distribuzione:
Sony Pictures Entertainment


Strano film questo C’era una volta a… Hollywood: chi se lo aspettava da Quentin Tarantino un docu-drama? Dopo aver dissezionato in tutti i modi possibili quella babele di linguaggi e di miti che è il cinema statunitense novecentesco, ora il maestro da Knoxville, Tennessee porta il suo pubblico a spasso per Los Angeles, la città della sua educazione sentimentale e cinefila. La precisione della topografia losangelina e una ricostruzione scenografica particolarmente ricercata fanno diabolicamente da contraltare a evidenti falsificazioni, ucronie e ironie da mockumentary. Eppure questo mix alieno ci porta proprio dove vuole l’illusionista accrescendo la meraviglia dell’essere in un determinato contesto spazio-temporale per poi volare via con l’inquadratura finale dall’alto che celebra il trionfo del narratore fabbricante di universi.

Il panorama mediatico statunitense nel 1969
Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un veterano dei serial tv che sta cercando di rimontare sulla cresta dell’onda. Cliff Booth (Brad Pitt) è la controfigura nonché fedele amico e factotum di Rick. Sharon Tate (Margot Robbie) e Roman Polanski si stabiliscono al 10050 di Cielo Drive (teatro della mattanza a opera della Manson Family) e sono i nuovi vicini di Rick Dalton. Lei è un’attrice in piena ascesa e lui un talentuoso regista europeo sulla bocca di tutti. La nuova Hollywood anticonformista e antiestablishment prende possesso delle colline di Bel-Air accanto alla vecchia gloria televisiva in lotta contro l’oblio.
La coppia Dalton/Booth rappresenta bene un’inedita alleanza tra divo e stuntman, tra celebrità e maestranze artigiane dei set: fanno fronte comune per resistere ai nuovi gusti e si mettono al servizio di una vecchia America rurale e tradizionalista, allergica al melting pot e ai movimenti migratori dentro e fuori dal set. Il transito tra vecchia e nuova Hollywood fotografato nel 1969 è nel contrasto tra show autoctoni (i serial western, i veterani di guerra e il fascino dell’FBI) e i nuovi spazi urbani emergenti caratterizzati da consumi cinematografici esterofili. In effetti Tarantino insiste molto sul contrasto tra l’elegante spensieratezza della coppia Polanski/Tate (con le loro bellissime automobili) e la ruvidezza polverosa e rumorosa degli spostamenti della coppia Dalton/Booth.

Il terzo polo narrativo è costituito dagli unici veri villain del film ovvero la Manson Family: un gruppo di ragazzini hippie disorientati e pronti a deflagrare a un cenno del primo santone che passa, il folle Charles Manson appunto. Per Manson la residenza al 10050 di Cielo Drive rappresenta l’establishment che lo ha respinto. Gli esecutori materiali delle violenze sono quegli stessi ragazzini che poco prima Tarantino ci mostra come occupanti abusivi dello Spahn Movie Ranch dediti a passare le giornate stravaccati davanti alla televisione. Cresce una nuova generazione di spettatori e con loro una nuova Hollywood.

La Nuit américaine e il museo a cielo aperto
Nel raccontare i retroscena e le mutazioni dello star system Tarantino prova in parte a seguire le orme di François Truffaut. Ma Tarantino, al contrario del regista francese che nel suo film Effetto notte si ritaglia un importante ruolo di demiurgo e regista, in C’era una volta a… Hollywood non compare nemmeno in forma di alter ego. Il vero fulcro di questo revival è costituito dagli operai dell’immaginario, outsider come lo stuntman Cliff Booth e tutti quelli che (divi o non divi) si addestrano duramente (la stessa Sharon Tate che studia le arti marziali da Bruce Lee) nella consapevolezza di essere solo un ingranaggio del meccanismo collettivo che è il cinema.

Le curve della memoria
Quando un cineasta come Tarantino decide di girare il suo I quattrocento colpi (Truffaut, 1959) o il suo Amarcord (Federico Fellini, 1973) o il suo Radio Days (Woody Allen, 1987) è chiaro che una grossa fetta del racconto sarà occupata dal cinema e dalla cultura popolare, una fondamentale stagione dell’esistenza del regista. C’era una volta a… Hollywood è una spugna visiva che celebra il potere dell’immagine e della sua propagazione audiovisiva. E dove prima il citazionismo tarantiniano illuminava angoli della memoria cinefila individuale, qui cerca di entrare non solo dietro le quinte di Hollywood ma addirittura dentro le teste di chi ci lavorava in quella fabbrica dell’immaginario e che quindi, a suo tempo, era entrato in qualche modo nella testa di Quentin Tarantino bambino. D’altronde il personaggio di Rick Dalton è anche un omaggio alle radici profonde di Tarantino, addirittura dichiarate alla nascita visto che il nome di battesimo del regista deriva da Quint Asper, il personaggio interpretato da Burt Reynolds nel telefilm Gunsmoke. Ma al racconto di un fascio di ricordi molto personali Tarantino si è già dedicato in passato. Qui alza il tiro e sceglie i delitti della Manson Family come porta d’accesso per una data epoca e per il contatto con un pubblico più vasto a partire da un comune pezzo di memoria collettiva. Con cura filologica mette insieme i ritagli della cronaca riprogrammandoli anche per la sua scacchiera narrativa. Fatti e contesto (soprattutto contesto) vengono intrecciati lentamente e poi sconvolti nel finale dall’estro creativo e da un clamoroso detour.

Controfigure, stuntman, stunt double
I divi faranno bene ad affidarsi alle controfigure se vogliono sopravvivere. Anche nella curva finale Tarantino eleva al massimo possibile la dignità di questo ruolo. Probabilmente volendo così esaltare anche tutte le altre maestranze artigianali e manovali coinvolte nel fare cinema. Ma c’è dell’altro negli stunt double. Nella lingua italiana e nell’uso comune le parole stuntman, cascatore e controfigura mettono in secondo piano il termine stunt double che Tarantino sceglie di usare più volte non a caso. Una sfumatura importante che focalizza la natura di doppiezza propria del segno filmico. La dimensione di verità del cinema o è carta straccia, come avevano già ampiamente dimostrato da Orson Welles in Quarto potere (1941) e da Rashomon di Akira Kurosawa (1950), o è questo: la consapevole manipolazione di fatti e luoghi per raccontare un’atmosfera, un abito mentale, un’epoca. Curioso come questa saggezza mediatica emerga proprio da quella città nata dall’esigenza di simulare il vecchio Far West e che negli anni si è riempita di insegne al neon, drive-in e cartelloni pubblicitari grandi quanto palazzi.

Il cammino dell’uomo timorato di Dio tra specchi e riflessi
La civilizzazione hollywoodiana vista da Tarantino sembra sovrapporre integralmente lo sguardo a ogni forma di desiderio, compreso quello sessuale. Lo mostra bene uno dei registi di culto di Tarantino, Brian De Palma. Omicidio a luci rosse (Body Double, 1984), si presenta come simulacro filmico de La finestra sul cortile di Hitchcock uscito trent’anni prima: il protagonista Jake Scully riesce a vincere il labirinto di immagini e apparenze decifrando nel modo giusto il già visto e arrivando a salvare la vita di Holly Body, la bionda pornostar di cui si invaghisce nel corso dell’indagine. Rileggendo e reinterpretando liberamente Hitchcock, De Palma ci offre un discorso sul dominio culturale della visione. Su questa stessa strada il desiderio retrospettivo di Tarantino si spinge fino al punto di cambiare la Storia per salvare la bella Sharon e forse con essa anche la purezza dei suoi ricordi infantili legati allo sconvolgente caso di cronaca.
Con il suo happy ending rende reale il desiderio, la sua personalissima materia dei sogni. La bellezza della memoria e del tempo nel sedimento delle storie. Tarantino lo aveva già fatto in Pulp Fiction (1994): aveva resuscitato i morti remixando la cronologia degli eventi narrati e proponendo un finale che chiude il cerchio mistico con l’inizio, la fatale rapina che colloca sin da subito la violenza come motore di tutte le storie. La bellezza della memoria diventa così non solo un modo per bilanciare il nichilismo di stampo noir e horror con la speranza (come dice l’adepta di Manson siamo tutti “cresciuti guardando la tv” e in particolare show dove qualcuno viene ammazzato) ma diviene quasi un’esperienza religiosa. Salvando Sharon e resuscitando Vincent Vega, Tarantino ci dice che il cinema può essere usato per santificare e lavare le macchie del passato.

L’immaginario individuale come liquido amniotico
Il volto di Leonardo DiCaprio sovrapposto a quello di Steve McQueen in una famosa scena del film di John Sturges, La grande fuga (1963) preannuncia una strana voglia di ucronia in questo C’era una volta a… Hollywood. Ma quando sgattaioliamo insieme a Sharon Tate in una sala cinematografica per vedere l’attrice che guarda sé stessa nel suo ultimo film, Tarantino non usa lo stesso trucco. Il cineasta sembra definire un limite: certe scene vanno preservate in ogni singolo millimetro (o pixel). Non è voglia di autenticità ma semplicemente l’affermazione di un discernimento, di una scelta consapevole.
Il cineasta falsifica tenendo consapevolmente insieme desiderio ed esperienza. In certi casi persino il senso del sacro. Una capacità che tutti noi dovremmo essere in grado di sviluppare se vogliamo prendere posizione negli schieramenti che inevitabilmente le tecnologie narrative genereranno (o che stanno già generando).

Le narrazioni ci portano spesso a credere di sapere chi siamo, ma quello che afferriamo non è altro che il riflesso di noi nell’altro o in un insieme di oggetti culturali che definiscono un contesto storico e sociale. Il cinema ci insegna (e maestri dell’illusionismo come Tarantino ce lo ricordano) che la vita è una questione di riflessi e ogni tanto ci imbattiamo in riflessi sufficientemente credibili da accompagnarci per un po’. Molte di quelle immagini, specie quelle assorbite nell’infanzia, formano il nostro immaginario individuale: un liquido amniotico al cui riparo cresciamo, dal quale a volte siamo costretti a uscire e nel quale spesso sogniamo di tornare spinti dalla nostalgia e dall’attitudine al ricordo.
Ingannandoci in tutti i modi possibili Tarantino ci ricorda che dovremmo avere più cura del nostro immaginario e dei meccanismi che lo formano per non affrontare il futuro da ciechi rispetto al modo in cui assegniamo (e ci educhiamo ad assegnare) significati al mondo.

L’epoca della falsificabilità distribuita
L’immaginario è fluido e non solo a causa del tempo che passa: la tecnologia agita continuamente la consistenza e le liturgie della nostra memoria individuale. Oggi ci troviamo in una terra di mezzo tra il secolo del cinema e del divismo e il secolo della falsificabilità distribuita, un guado che riecheggia proprio i contrasti vecchio/nuovo messi in evidenza da Tarantino nel suo 1969.
Mentre salutiamo il secolo del cinema chiamandolo vintage, ci apprestiamo ad affrontare le sfide delle tecnologie deep fake e della viralità social per una dialettica realtà/finzione che prosegue con inediti quesiti. Le simulazioni videoludiche sono un’educazione all’ambiguità ma anche alla cura dei dettagli che definiscono universi e contesti. Del resto la scelta di Tarantino che nel suo film più personale si mette dalla parte dei lavoratori, in particolare degli stunt (il fedele Cliff e la sua pitbull Brandy che alla fine salvano la giornata), sembra già un manifesto e una precisa scelta di campo.
Ancora una volta Tarantino è riuscito a dire qualcosa sulla vita e qualcosa sul cinema (e sulla cultura di massa).
Questa volta la lezione tarantiniana è su come, cosa e soprattutto perché il cinema deve falsificare.

Visioni
  • Woody Allen, Radio Days, Metro Goldwyn Mayer, 2007 (home video).
  • Autori vari, Gunsmoke – 50th Anniversary Collection, Volumes 1 & 2, Paramount, 2006 (home video).
  • Brian De Palma, Omicidio a luci rosse, Sony, 2018 (home video).
  • Federico Fellini, Amarcord, Cri, 2016 (home video).
  • Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile, Universal Pictures, 2005 (home video).
  • Akira Kurosawa, Rashomon, Butterfly, 2015 (home video).
  • John Sturges, La grande fuga, Metro Goldwyn Mayer, 2009 (home video).
  • Quentin Tarantino, Pulp Fiction, Eagle, 2017 (home video).
  • François Truffaut, Effetto notte, Warner Bros., 2010 (home video).
  • François Truffaut, I quattrocento colpi, Rai cinema, 2013 (home video).
  • Orson Welles, Quarto potere, Dynit Rko, 2014 (home video).