Che cos’è la verità?
Questione d’immaginazione

Il workshop
Truth and facts in the humanities
and in the sciences

organizzato dal 1° al 3 luglio
dal Dipartimento di filosofia
e comunicazione dell’Università
di Bologna – ha riunito
un nutrito gruppo di filosofi,
semiologi e qualche esponente
di altre discipline
per ragionare intorno
al problema della verità.

Il workshop
Truth and facts in the humanities
and in the sciences

organizzato dal 1° al 3 luglio
dal Dipartimento di filosofia
e comunicazione dell’Università
di Bologna – ha riunito
un nutrito gruppo di filosofi,
semiologi e qualche esponente
di altre discipline
per ragionare intorno
al problema della verità.


Nel Vangelo di Giovanni, durante l’interrogatorio di Ponzio Pilato, Gesù dichiara di essere venuto al mondo “per rendere testimonianza alla verità”, specificando che chiunque lo ascolti è dalla parte della verità. La risposta non sembra colpire il governatore romano, che si limita a rispondere con una domanda retorica: “Che cos’è la verità?”. A quella domanda Gesù non risponde, almeno secondo l’evangelista, né Pilato sembra attendersi una risposta. Probabilmente l’ha rivolta a sé stesso, lui che dev’essere stato educato allo scetticismo di Pirrone, al relativismo di Protagora, al nichilismo di Gorgia nelle scuole filosofiche di Roma: eccolo, quest’uomo presuntuoso che, come tutti gli ebrei, pretende di possedere la verità, di poter persino annunciare – è di nuovo Giovanni a mettergli in bocca queste parole – di essere via, veritas et vita.

Una domanda ancora attuale
Riletto ai giorni nostri, questo passaggio è più attuale che mai: Pilato è lo scettico nichilista postmoderno, che ha imparato nei suoi lunghi studi che la verità è sempre relativa, dipendente dal contesto, dalla cultura, dall’epoca e così via; Gesù il dogmatico metafisico che annuncia ostinato l’esistenza di un’unica, sola verità. Ma se fino a poco tempo fa questi diverbi potevano interessare solo i filosofi o i teologi, oggi il problema della verità è diventato addirittura un “rischio esistenziale”, a voler dar retta alle analisi del World Economic Forum, che inserisce il problema della postverità, neologismo entrato nei dizionari anglosassoni nel 2016, nel suo annuale rapporto sui rischi che corre la nostra civiltà (WEF, 2017).

Addirittura? Sembra un po’ eccessivo. Dopotutto, le bugie di Pinocchio non hanno mai fatto male a nessuno; lo scetticismo di Pilato, certo, ha mandato a morte Gesù, mettendo a rischio il progetto di salvezza di Dio (hai detto niente), ma qui siamo di fronte a un problema più triviale e più attuale, che riguarda questo mondo. Cosa sta succedendo?
Umberto Eco ci aveva avvertiti del rischio della postverità in tempi non sospetti. Nel Pendolo di Foucault, una storia menzognera spacciata per vera travalica il confine tra finzione e realtà e produce effetti devastanti nel nostro mondo, perlomeno per gli sventurati protagonisti del romanzo. Ecco, immaginiamo di vivere in un’epoca in cui le nefaste conseguenze della finzione immaginate da Eco nel Pendolo diventino endemiche, si diffondano in tutta la civiltà. Una storia inventata può portare un uomo improbabile alla guida del paese più potente del mondo, con tutte le conseguenze del caso. Allora forse vale la pena rifare la domanda di Pilato: “Che cos’è la verità?”. Questa volta, però, fermandosi un attimo ad ascoltare le risposte.

Linguaggio e realtà
Alcune risposte sono emerse dal workshop Truth and facts in the humanities and in the sciences organizzato dal 1° al 3 luglio da quel dipartimento di filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna dove Eco ha insegnato per anni, e che ha riunito un nutrito gruppo di filosofi, semiologi e qualche esponente di altre discipline per ragionare intorno al problema della verità.

Un convegno dove a dominare è stato l’approccio oggi più di moda al problema, quello della filosofia analitica, che si affida fiduciosamente al formalismo della logica nella speranza di ancoraggi più solidi al fondale sabbioso della realtà rispetto a quelli offerti dall’idealismo. Quest’ultimo, infatti, si era dimostrato troppo soggettivo, troppo trascendentale, troppo poco ancorato alle novità del progresso scientifico: un’autentica filosofia della verità, secondo i fondatori della filosofia analitica, come Bertrand Russell, dovrebbe possedere un metodo in grado, come il metodo scientifico, di fare predizioni, di essere testato, di essere eventualmente falsificato e abbandonato. A un enunciato vero deve corrispondere un fatto vero: la teoria della corrispondenza di Russell e George Edward Moore. Nel linguaggio asettico della filosofia analitica: l’enunciato p è vero solo se esiste un fatto p; per esempio, l’enunciato “la Terra gira” è vero solo se la Terra gira. Quindi posso sgolarmi quanto voglio a dire che la Terra è piatta, come pretendono i terrapiattisti: se l’enunciato non corrisponde a un fatto, non è vero. Questa visione della verità presuppone una corrispondenza biunivoca tra la parola (word) e il mondo (world), qualcosa che i teologi apprezzerebbero moltissimo ricordando che “in principio era il Verbo” (frase che non a caso apre anche Il nome della rosa di Eco). È anche la visione di Ludwig Wittgenstein, secondo cui “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (Wittgenstein, 2009).

Va da sé che il rischio di queste idee è l’esclusione di un piano della realtà indipendente dal nostro linguaggio, o meglio indipendente dalla nostra mente. Gradualmente, il relativismo ha infettato le nuove teorie della verità. Per esempio, la teoria della coerenza afferma che una credenza è vera se è parte di un determinato sistema coerente di credenze (che il Sole giri intorno alla Terra è vero nel sistema di credenze tolemaico). Il pragmatismo sostiene che una verità è tale quando non entra in contraddizione con evidenze successive (il sistema tolemaico è stato vero per secoli, fino alle prime evidenze empiriche di Keplero, Copernico e Galileo). La teoria della verosimilitudine afferma che possiamo solo avvicinarci alla verità, senza mai raggiungerla (il sistema tolemaico era il modello più vicino alla verità fino all’introduzione del sistema copernicano, a sua volta sostituito dal sistema newtoniano, sostituito da quello einsteiniano, che sarà prima o poi sostituito con un modello più verosimile). Dobbiamo rassegnarci allora all’idea che non esista una verità, là fuori? Che, come si chiedeva Albert Einstein, un albero che cade nel bosco non fa rumore se non c’è nessuno a sentirlo? Che la Luna non sia davvero nel cielo se non c’è nessuno in grado di vederla?

Realtà e rappresentazione
Il workshop di Bologna fotografa una situazione diversa. Da un certo tempo a questa parte, l’ambizione di un nuovo realismo sembra aver restituito fiducia ai filosofi. Forse esiste davvero una realtà indipendente dal modo in cui lo pensiamo o lo descriviamo, come afferma il cosiddetto “realismo metafisico”. Forse possiamo arrivarci, in qualche modo, o comunque accertarci che esista. Forse vale la pena provarci, per evitare che il relativismo della postverità ci faccia precipitare nel nichilismo. Nel 2011 Maurizio Ferraris pubblicò un Manifesto del nuovo realismo che interessò molti e piacque a pochi. Nel 2012 apparve l’antologia di testi Bentornata realtà, che ebbe analoga accoglienza (i filosofi sono esseri umani, come tali perlopiù si detestano a vicenda). Sia come sia, una rinascita del realismo, e quindi della metafisica e dell’ontologia, c’è stata davvero.

Achille Varzi, docente alla Columbia University, che ha aperto il workshop di Bologna, ha una posizione intermedia. I fatti esistono, ma i collegamenti tra i fatti sono il prodotto della nostra coscienza. In effetti, la nostra realtà è composta da confini più che da oggetti. Il confine tra testa e collo, tra il nostro corpo e quello degli altri, tra la nostra casa e quella del vicino, tra una città e quella successiva, tra una nazione e l’altra. Questi confini sono strutture mentali che usiamo per collegare fatti reali: senza, non riusciremmo a interpretare la realtà e saremmo condannati a vivere in un deserto metafisico, nel “deserto del reale” preconizzato da Jean Baudrillard. Se insomma ci mettessimo dal punto di vista dell’occhio di Dio, del “narratore onnisciente” esterno alla realtà, non capiremmo nulla di quello che vediamo e non potremmo quindi dire nulla di sensato sulla realtà. Ciò non toglie che qualcosa esista davvero, là fuori.
Evidentemente, però, quel qualcosa va tradotto, portato nel nostro linguaggio, reso disponibile alla nostra esperienza sensibile. È qui che intervengono le “mappe”. Le mappe e i modelli ci aiutano a dare senso alla realtà.

 

L’importante, però, è non confondere la mappa con la realtà: se volessimo provare a realizzare una corrispondenza 1:1 tra il segno della mappa e ciò che esiste nella realtà, finiremmo come nel paradosso di Borges con una mappa che copre il mondo intero, uno sforzo del tutto inutile, se non addirittura pericoloso, perché sostituirebbe la realtà con la sua rappresentazione. E se la rappresentazione è infedele, lo sforzo di pervenire alla verità si complica. Secondo la semiologa Anna Maria Lorusso, autrice del recente libro Postverità, intervenuta in apertura al workshop di Bologna, il problema oggi è dato dall’esistenza di un “regime di confusione” nel mondo contemporaneo che porta le rappresentazioni (e le false rappresentazioni, le menzogne) a essere prese per vere.

I rischi della postverità
Qui torna in ballo Eco e l’esigenza di studiare i segni – ciò che fa la semiotica – per tornare a distinguere il vero dal falso. Non si tratta solo del problema della postverità inteso come il dominio della soggettività sull’oggettiva, delle rappresentazioni sui fatti: è un problema che riguarda anche la scienza moderna, preda oggi di quella che è stata definita una deriva post-empirica (Hossenfelder, 2018), sulla base della convinzione che una teoria internamente coerente può essere considerata vera anche se non è testabile sul piano empirico. Nel Nome della Rosa, il protagonista Guglielmo si trova a un certo punto a dover ammettere che la sua teoria elaborata per dare un senso agli omicidi del monastero – basata sull’Apocalisse di Giovanni – è sbagliata, perché viene falsificata in senso popperiano da un omicidio che non rientra nello schema. La teoria è perfetta, ha permesso di dare senso a fatti precedenti, ma dev’essere abbandonata di fronte a nuove evidenze che vanno in senso contrario. Una scienza post-empirica, in cui non esistono evidenze che possono verificarla o falsificarla, ci porta lontani dalla verità.


A sinistra, il protagonista di Il nome della rosa, Guglielmo da Baskerville, nell’interpretazione di Sean Connery nel film del 1986. A destra il suo creatore, Umberto Eco.

Il problema filosofico ha quindi impatto diretto sulla nostra quotidianità. Tra i temi sollevati nel workshop, per esempio, Bruno Verschuere dell’Università di Amsterdam ha affrontato il problema dell’accertamento della verità nei sospettati sottoposti a interrogatorio di polizia, analizzando la coerenza dei diversi dispositivi impiegati negli Stati Uniti e in Europa che si basano sul tono della voce, o sull’apparenza stressata di un sospetto in un aeroporto, o sui tempi di reazione a una domanda (come nel celebre test Voight-Kampff in Blade Runner). Stefano Fanti, medico diagnostico e docente all’Università di Bologna, si è chiesto quale approccio alla verità adottare nelle diagnosi di tumore, dove quasi mai un singolo esame per quanto tecnologicamente avanzato consente di pervenire a una diagnosi certa, e al tempo stesso occorre evitare che il paziente sia sottoposto a complesse e impegnative biopsie basate sul principio di San Tommaso, sul “se non vedo, non credo”.

Ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare
Vale la pena tuttavia considerare qualche invito a rovesciare l’ordine del problema suggerito in più di una relazione a Bologna. Per Göran Sonesson dell’Università di Lund dobbiamo riconoscere il fatto che possano esistere non-verità socialmente accettate che non sono menzogne: è il caso delle trasposizioni di opere di fiction. Il personaggio shakespeariano di Re Lear, per esempio, è stato rappresentato in modi del tutto diversi a seconda dei registi che ne hanno curato la trasposizione cinematografica. Il dramma originale non ci fornisce alcuna informazione sull’aspetto di Re Lear, per cui le libertà dei registi sulla fisionomia degli attori prescelti è del tutto giustificata.
Ogni traduzione è una trasposizione, che parte da un originale – una realtà oggettiva – e la trasforma in qualcos’altro, che però non è una non-verità da rigettare. Maria Shakhray, ricostruendo il percorso biografico-letterario di Jorge Semprún, internato a Buchenwald nel 1943, un’esperienza che riuscirà a raccontare solo cinquant’anni dopo, suggerisce che la fiction può riuscire meglio di una rappresentazione fedele e oggettiva a fornirci un quadro vivido della realtà vissuta, perché si lega a emozioni, sensazioni, ricordi, memorie che sono, in ultima analisi, gli strumenti con cui leggiamo e interpretiamo i nostri vissuti (è d’altronde l’idea alla base del magnus opus di Marcel Proust).
Se quindi oggi il grande problema della postverità consiste principalmente nel fatto che non riusciamo più a distinguere correttamente tra fiction e realtà, tra il senso e l’originale, la soluzione paradossalmente potrebbe passare non per la retorica dei big data, della quantificazione, del formalismo logico per ridurre tutto a “nudi fatti”, ma per l’intuizione che Umberto Eco riportò nella bandella di copertina della prima edizione del Nome della Rosa: “Se [l’autore] ha scritto un romanzo, è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare” (Eco, 1980). Cosa significa? Per Eco, le uniche verità definitive sono quelle della fiction, perché non possono essere cambiate dall’esperienza successiva. Come scrisse in Sulla letteratura:

“Del mondo, noi diciamo che le leggi della gravitazione universale sono quelle enunciate da Newton, o che è vero che Napoleone è morto a Sant’Elena il 5 maggio 1821. E tuttavia, se abbiamo una mente aperta, saremo sempre disposti a rivedere le nostre convinzioni, il giorno che la scienza enuncerà una diversa formulazione delle grandi leggi cosmiche, o uno storico troverà documenti inediti che provino che Napoleone era morto su di una nave bonapartista mentre tentava la fuga. Invece, rispetto al mondo dei libri, proposizioni come Sherlock Holmes era scapolo, Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo ma poi liberata dal cacciatore, Anna Karenina si uccide, rimarranno vere in eterno e non potranno mai essere confutate da nessuno” (Eco, 2003).

Non si tratta, tuttavia, di un invito a rifugiarsi nell’invenzione a scapito della ricerca di una verità oggettiva. Come ha spiegato Claudio Paolucci, docente di Semiotica e Filosofia del linguaggio a Bologna, dov’è stato discepolo di Eco, a cui ha dedicato il saggio Umberto Eco. Tra ordine e avventura (2017), l’intuizione più luminosa di Eco è la sua idea del falso come strumento per arrivare alla verità: “Lavorando a partire da ipotesi false si scoprono spesso molte conseguenze vere, perché il segno mostra la struttura dell’oggetto anche quando lo rimanda a interpretanti menzogneri, che dicono cose false su di esso” (Paolucci, 2017). O, per dirla con Ursula Le Guin, che intorno a questo tema ha vagato tutta la vita: “La Verità è una questione d’immaginazione” (Le Guin, 2003).

Letture
  • Mario De Caro, Maurizio Ferraris, Bentornata realtà, Einaudi, Torino, 2012.
  • Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980.
  • Umberto Eco, Sulla letteratura, Bompiani, Milano, 2003.
  • Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari-Roma, 2011.
  • Ursula Le Guin, La mano sinistra delle tenebre, TEA, Milano, 2003.
  • Sabine Hossenfelder, Lost in Math, Basic Books, New York, 2018.
  • Anna Maria Lorusso, Postverità, Laterza, Bari-Roma, 2018.
  • Claudio Paolucci, Umberto Eco. Tra ordine e avventura, Feltrinelli, Milano, 2017.
  • World Economic Forum, The Global Risks Report 12th edition, 2017.