Quando le risate
sono urla di dolore

Todd Phillips
Joker
Cast principale: Joaquin Phoenix,

Robert De Niro, Zazie Beetz,
Fances Conroy, Brett Cullen,
Dante Pereira-Olson
Produzione: Warner Bros. Pictures,
Village Roadshow Pictures,
Joint Effort, BRON Studios,
Creative Wealth Media Finance,
DC Comics,
DC Entertainment, 2019
Distribuzione:
Warner Bros. Pictures, 2019

Todd Phillips
Joker
Cast principale: Joaquin Phoenix,

Robert De Niro, Zazie Beetz,
Fances Conroy, Brett Cullen,
Dante Pereira-Olson
Produzione: Warner Bros. Pictures,
Village Roadshow Pictures,
Joint Effort, BRON Studios,
Creative Wealth Media Finance,
DC Comics,
DC Entertainment, 2019
Distribuzione:
Warner Bros. Pictures, 2019


Dopo la performance straordinaria del compianto Heath Ledger ammirata nel film Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan del 2008, portare nuovamente al cinema l’antagonista storico di Batman, soprattutto con una pellicola stand-alone, sembrava un’impresa ardua. Ciononostante, il regista Todd Phillips ha accettato la sfida, cimentandosi in quello che molti critici hanno definito un film d’autore e aggiudicandosi il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia 2019.
Philips, conosciuto principalmente per la saga di Una notte da leoni, senza dimenticare l’interessante quanto recente A star is born (2018) con Bradley Cooper e Lady Gaga, e il sottovalutato Trafficanti (2016), in questo lavoro intitolato semplicemente Joker ha diretto un brillante Joaquin Phoenix che, nei panni del sanguinario pagliaccio, ha riscattato il genere cinecomic (il filone nato dall’adattamento per il grande schermo dei fumetti statunitensi) portandolo a una nuova fase di maturazione e rappresentazione. Slegando parzialmente il personaggio dalla canonicità del fumetto e quindi evitando di narrare una storia già scritta, Joker è divenuto la vera maschera della storia stessa, il pretesto per raccontare qualcosa che indaga l’animo umano. Si tratterebbe, a prima vista, solo di un’analisi introspettiva che accompagna lo spettatore in una discesa vorticosa nell’oblio di un disagiato lasciato solo a danzare verso il caos, ma c’è dell’altro.

Genesi di una nemesi
Joker è un personaggio iconico, un vero mito della postmodernità, che si adatta a tutte le culture; basti pensare che anche il paese del Sol Levante ne ha sviluppato una sua versione, il boss del sottobosco criminale Donquijote Doflamingo, nell’opera fumettistica di Eichiro Oda One Piece.

Trattare con Joker non è semplice perché lui è l’Unheimliche supremo, il perturbante di sé stesso. Nell’albo a fumetto di Alan Moore e Brian Bolland, The Killing Joke, per sua stessa ammissione il pagliaccio non sa inquadrare la causa scatenante della sua follia, ma sostiene che essa può impadronirsi di chiunque con una semplice, quanto imprecisata, brutta giornata. Per delineare il loro Joker, sia regista che attore son partiti dal superamento di questa soglia per la disgrazia. Durante la conferenza stampa post-proiezione al London Hotel di Hollywood del tre ottobre Phoenix, non nuovo a interpretazioni di personaggi particolari come Theodore Twombly in Lei (2013) di Spike Jonze, a seguito di una domanda relativa alla caratterizzazione del personaggio da lui interpretato ha voluto specificare il suo desiderio di creare un Joker nuovo, frutto della propria immaginazione o pazzia. L’attore, nelle sue dichiarazioni, ci ricorda che non esiste un Joker migliore di un altro, in quanto non è essere unico ma la rappresentazione del disvelamento della maschera sociale e, come tale, assume su di sé le perturbazioni del suo tempo.
Si pensi al pagliaccio di Nicholson, simbolo degli eccessi degli anni Ottanta in America e quello di Ledger che impersonava la furia anarchica post undici settembre. Il Joker di Phoenix è il meno pagliaccio di tutti poiché la figura clownesca si mostra soltanto alla fine di un processo dolorante di liberazione, attraverso un ghigno sanguinolento che ne annuncia l’ascesa a principe del crimine di Gotham.
Paradossalmente la maschera che ci presenta Phoenix è quella di Arthur Fleck, un disadattato sgraziato e deforme, aspirante comico senza soldi né successo, con un lavoro miserevole, bullizzato da un mondo orientato all’immagine, al capitale e allo status. Arthur si sforza di sorridere, si costringe a una felicità che non conosce e non possiede. Philips infatti, nella medesima conferenza del tre ottobre, ha descritto la risata del protagonista come qualcosa di doloroso perché la felicità è una parte del Joker che cerca di emergere ma è soffocata, frustrata. Un riso amaro, straziato, che più di un tic schizofrenico rappresenta un grido di dolore, la rassegnazione per chi cerca di uscire dalla propria condizione disagevole ma non ci riesce.

Arthur vuole abitare quel mondo ma, in un disperato tentativo di scrivere la sua storia (cfr. Jedlowsky, 2000), le emozioni distorte che riesce in qualche modo a provare glielo impediscono. Sarà infatti Joker a trovare spazio nel mondo e, per percepirsi come tale, dovrà liberarsi di Arthur. La totale assenza delle istituzioni e le ingiurie da parte degli altri abitanti della città, quasi un doppio malefico della New York degli anni Ottanta, facilmente lo fanno degenerare in quella fatidica brutta giornata.

Uno, nessuno, centomila
Il film offre una serie di spunti di riflessione ma il filo rosso che lega la narrazione, e per certi versi la collega potenzialmente ad altre, è il concetto di rottura che non riguarda soltanto la narrazione ma anche la metanarrazione. Joker è infatti un film di rottura col passato: come detto in precedenza mette in crisi l’idea classica di cinecomic ed è probabilmente un lungometraggio che lascerà un segno nella storia del cinema.
Soprattutto è una narrazione che parla di rotture poiché rompe gli schemi e discute di tabù. Il bullismo e l’abuso su minori perpetuato dai compagni della madre di Fleck a esempio, l’atteggiamento femmineo quasi aristocratico di Phoenix che verso il finale si presenta come testimonianza della folle trasformazione in atto che inneggia all’ideologia queer, ma soprattutto la deviazione mentale che viene mostrata in maniera cruda, senza fronzoli o parodie. Questa, in particolare, viene percepita nello spettatore attraverso l’incomprensione che nasce dall’atteggiamento bonario di Arthur, bambino mai cresciuto che, per esempio, nella scena del treno (presente anche nel trailer) cerca di far ridere un bambino seduto davanti a sé, perseguendo il suo ideale fanciullesco di “donare gioia e risate a tutti quanti”. Il risultato, scaturito da una giustamente sospettosa madre del bambino che zittisce Arthur, è un incontrollato attacco di riso, perturbante e inquietante, unica reazione semi-emotiva che il disgraziato riesce a ottenere da quest’incontro.

Le continue crepe nella psiche del personaggio, dovute a continui scontri con la cattiveria del mondo, e lo stile del racconto portano a ragionare sulla sua nevrotica esistenza e sulla natura della storia stessa. Questo non è semplicemente un racconto ma uno studio sulla devianza e l’esasperazione nel non trovarsi a proprio agio in una precisa realtà sociale. Nei suoi intenti il film non è una sfida allo status quo, non ha propositi politici ma è una narrazione tesa alla sensibilizzazione, uno studio socio-psicologico calato nella realtà dei cinecomics per essere leggibile e alla portata di un vasto pubblico.

Morte del cigno e nascita di un clown
Il viaggio psichiatrico di un protagonista che vede complicare o risolvere il suo status mentale non è nuovo nella storia delle rappresentazioni cinematografiche, tuttavia in Joker troviamo qualcosa in più.
Innanzitutto, in questa tipologia di film, è possibile riscontrare due elementi ricorrenti e complementari, la maschera e lo specchio, che possono essere usati come strumenti di confronto tra le varie pellicole. Volendo tuttavia inserire alcune discriminanti per effettuare una scelta, è parso utile considerare degli elementi comuni di partenza, la schizofrenia del protagonista e il ruolo della danza nel processo di identificazione.
Il risultato di questa scrematura ha portato ad accostare il Joker di Phoenix alla ballerina Nina interpretata da Natalie Portman nel film Il cigno nero (2010) di Darren Aronofsky. Il personaggio interpretato da Portman è una giovane ragazza repressa e infantile, il cui dramma personale è la ricerca della perfezione tecnica nella danza classica instillata dalla madre. Anche qui, seguendo ancora il percorso della rottura, la madre si presenta come una figura fondamentalmente negativa, una persona il cui amore è sostituito da un rapporto di controllo maniacale e che fa da tappa iniziatica alla discesa verso la follia.
In modo simile ad Arthur, che segue il mantra materno del “portare gioia e sorriso nel mondo” e che trova la sua vera essenza quando si maschera da pagliaccio, Nina vuole a tutti i costi essere scelta dal capo-coreografo Thomas come protagonista de Il lago dei cigni e trovare un suo spazio nel mondo (della danza), ma non ci riesce. Per reggere la maschera della brava bambina affibbiatale dalla madre reprime la sua sensualità e la sua passione, caratteristiche fondamentali per interpretare il cigno bianco e il suo alter ego, il cigno nero.
L’ingresso nella compagnia di Lily, una ballerina rivale dotata delle giuste caratteristiche interpretata da Mila Kunis, la costringerà a rivedere la sua identità, portandola a crisi psicotiche. La maschera in queste due storie viene rimossa in maniera molto simile, ovvero viene percepita come risultato di un processo di crisi, come liberazione degli impulsi. La morte di Nina, che raggiunge la perfezione nei panni di un cigno nero passionale e mostruoso, e la morte procurata dai colpi di pistola di Arthur sono il risultato di un disvelamento del proprio io che in entrambi i protagonisti ha visto come momento chiave lo sguardo allo specchio.

“Fai una faccia felice” e “Puttana”, scritti sullo specchio in cui si guardano i rispettivi protagonisti nella foto, sono dei moniti dei propri alter-ego, il momento straziante di rottura col doppio, la trasmutazione culmine dei pianti, del sangue e dei lividi.

In ambo le pellicole ricorrono scene con degli specchi, simbolo e sintesi dei loro mali: il riso incontrollato di Arthur sta alle ferite autoinflitte di Nina. Un altro elemento di congiunzione tra i due racconti è il ruolo della danza. Se con Natalie Portman ci si è concentrati sulla sofferenza fisica e psichica della protagonista e i suoi deliri, su una danza intesa come universo di senso nel quale ella muta, con Phoenix e il suo Joker si parla di qualcosa di diverso. Quando Arthur inizia a commettere degli omicidi, quindi a frantumare il suo io per dare spazio a Joker, si mette a danzare. Questa tuttavia non è una semplice reazione nervosa ma un processo terapeutico (cfr. Anolli, 2002). I movimenti che lui compie ricordano infatti il Tai-chi, un’arte marziale cinese utilizzata anche come meditazione in movimento. Come in tutti gli stili di arti marziali cinesi si utilizzano i Jibengong, tecniche basilari che vanno a strutturare un successivo e costante lavoro sulla stabilità psico-fisica (cfr. Bertoli, Ceccarelli 2009). Arthur urla col corpo cercando una cura per la sua efferatezza, un perdono, ma si tratta invece di un rito di passaggio che porta al cambiamento definitivo mostrato nella fatidica scena della scala. Se Arthur a inizio film saliva quei gradini con sconforto e rassegnazione, ora è il quasi-Joker che accetta la sua natura a discenderla sulle note di Rock n roll part 2 di Gary Glitter, coi suoi movimenti sempre nevrotici ma liberatori di un soggetto consapevole, sicuro di sé.

L’America di Joker
Joker è un film percepito come pericoloso per via della glorificazione dell’assassinio. Prima dell’uscita nelle sale, per via del rischio di incitamento alla violenza, l’intera America è entrata in uno stato di allarme, con tutte le forze dell’ordine allertate per evitare stragi di innocenti come avvenuto ad Aurora in Colorado nel 2012 alla proiezione de Il cavaliere oscuro. Questa psicosi, esagerata o meno, ci porta a riflettere ancora una volta sul ruolo del Joker nella società: egli non è la sua ombra, ma è il riflesso mostruoso, la rappresentazione, nonché la conseguenza del fallimento che nessuno vuole guardare.
Tuttavia nonostante il messaggio rivoluzionario che può essere attribuito al finale della narrazione la conclusione è un’altra. Questo film ci fa capire che non bisogna fermarsi alle apparenze, non bisogna leggere la realtà in maniera bidimensionale ragionando per semplici cause-effetto (tipica è l’affermazione quel bambino è violento perché gioca troppo ai videogiochi), ma ci aiuta a comprendere e a non giustificare le cause ancestrali che portano un personaggio come Arthur a diventare un mostro agli occhi della società stessa.

Letture
  • Luigi Anolli, Le emozioni, Edizioni Unicopli, Milano, 2002.
  • Claudio Bertoli, Robert D. Ceccarelli, Storia del Taiji quan, Edizioni del libro e della spada, Milano, 2009.
  • Brian Bolland, Alan Moore, Batman. The Killing Joke, RW Edizioni, Novara, 2019.
  • Paolo Jedlowsky, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano, 2000.
Visioni
  • Bradley Cooper, A star is born, Warner Bros. Pictures, 2018
  • Christopher Nolan, Il cavaliere oscuro, Warner bros. Pictures, 2008 (home video)
  • Todd Phillips, Trafficanti, Warner bros. Pictures, 2016 (home video).
  • Spike Jonze, Lei, BiM distribuzione, 2013 (home video).