Enigmi quantistici
e ontologie del reale

Pietro Greco
Quanti
Carocci, Roma, 2020

pp. 318, € 23,00

Sean Carroll
Qualcosa di nascosto a fondo
Traduzione di Daniele A. Gewurz

Einaudi, Torino, 2020
pp. 293, € 28,00

Carlo Rovelli
Helgoland
Adelphi, Milano, 2020

pp. 219, € 15,00

Pietro Greco
Quanti
Carocci, Roma, 2020

pp. 318, € 23,00

Sean Carroll
Qualcosa di nascosto a fondo
Traduzione di Daniele A. Gewurz

Einaudi, Torino, 2020
pp. 293, € 28,00

Carlo Rovelli
Helgoland
Adelphi, Milano, 2020

pp. 219, € 15,00


Nel 2004 Sir Roger Penrose – che nel 2020 ha coronato la sua carriera ricevendo il Nobel per la Fisica per le sue pionieristiche ricerche teoriche sui buchi neri e le singolarità che si celano al loro interno – pubblicò un tomo sbalorditivo per vastità, ricchezza di contenuti, originalità di pensiero e impegno mentale richiesto: The Road to Reality, in Italia La strada che porta alla realtà. Se l’intera nostra civiltà dovesse svanire in un prossimo futuro, ai nostri remoti discendenti o a esseri intelligenti provenienti dalle stelle basterebbe questo singolo libro per capire lo stato delle conoscenze umane riguardo la natura della realtà fisica. In quella summa della matematica, della geometria, della fisica, e persino della filosofia, Penrose non nascondeva che ci fossero molti punti oscuri. Tra tutti, il più misterioso è rappresentato dal problema della misura, o – detta con la terminologia di Penrose – l’incompatibilità tra le procedure quantistiche U e R. Che detta così sembra una questione per addetti ai lavori. Ma si tratta del più profondo problema che l’umanità si è trovata ad affrontare finora nel suo tentativo di comprendere la natura fondamentale della realtà.

Natura non facit saltus
Per U, Penrose indica l’unitarietà, vale a dire l’evoluzione deterministica di un fenomeno. L’unitarietà è alla base della fisica: qualsiasi processo fisico – dal lavoro compiuto da una leva alla rivoluzione dei pianeti intorno al Sole – rispetta leggi che permettono di predire perfettamente, date le condizioni iniziali al tempo t0, le condizioni finali al tempo t1. Anche la meccanica quantistica è, nella sua essenza, una teoria che rispetta U esattamente come tutte le altre: c’è una legge, la celebre equazione di Schrödinger, che descrive perfettamente l’evoluzione di un sistema quantistico (per esempio, una particella elementare) al passare del tempo.
Però, la meccanica quantistica prevede anche un altro meccanismo: R, che sta per riduzione; un processo noto anche come collasso della funzione d’onda o “misurazione”. Quest’ultimo termine spiega il suo significato: l’unitarietà è rispettata, nel mondo quantistico, solo finché un sistema quantistico non viene misurato (per esempio, da uno sperimentatore in laboratorio). Quando ciò accade, la sua evoluzione non ha più nulla di deterministico e assume un aspetto meramente probabilistico: un elettrone che prima si trovava in un punto nell’orbitale atomico ora potrà trovarsi in un altro punto, un fotone emesso da una sorgente laser potrà trovarsi in qualsiasi punto della stanza o persino in un’altra parte del mondo. Tutto ciò che possiamo sapere è che esiste un’elevata probabilità di trovarlo in un punto anziché un altro: ma è solo una probabilità.
Che cosa produce questo misterioso “salto” dal determinismo della fisica classica, a cui nella sua essenza anche la meccanica quantistica sembra obbedire, all’aspetto probabilistico che misuriamo nella realtà? Cosa produce la riduzione, il collasso dello stato quantistico? Hic sunt leones.
Se la stragrande maggioranza della comunità dei fisici che ha a che fare con i fenomeni quantistici non si pone simili domande e preferisce un approccio puramente operativo al problema (“zitto e calcola”, vale a dire che l’importante è che alla fine i calcoli diano i risultati attesi), Penrose rientra in quella minoranza che potremmo definire degli ultimi “filosofi naturali”, a cui non basta conoscere il come, ma che cercano di capire il perché, e soprattutto rispondere alla domanda fondamentale: che cosa è la realtà?

La guerra dei fondamenti
“La realtà è uno stato di allucinazione tra una sbronza e l’alta”, afferma un vecchio detto irlandese ricordato dal giornalista e scrittore di scienza Pietro Greco nel suo Quanti. La straordinaria storia della meccanica quantistica (2020). “La realtà è invece il grande tema che ha attraversato (e continua ad attraversare) lo sviluppo della fisica dei quanti”, continua l’autore. “Una grande storia, che non si è ancora conclusa”. Mentre infatti le storie canoniche della rivoluzione dei quanti si fermano quasi sempre agli anni Trenta, l’epoca in cui Erwin Schrödinger perviene al suo elegante formalismo della funzione d’onda su cui si fonda la moderna meccanica quantistica, al più con qualche incursione fino al teorema di John Stewart Bell che confermò la natura paradossale dei quanti, Greco mostra che la guerra sui fondamenti della meccanica quantistica e quindi sulla sua interpretazione “non è finita con Einstein, Bohr e Heisenberg, e neppure con Bell: anzi, è ancora in corso. Ed è una guerra «hobbesiana di tutti contro tutti»”, afferma citando George Musser, autore di un’eccellente ricostruzione del dibattito moderno, Inquietanti azioni a distanza (2019). A dimostrare l’assunto di Greco sono due titoli recenti di due nomi noti della fisica teorica e della divulgazione scientifica contemporanea che, come Penrose, potremmo definire “filosofi naturali”: Sean Caroll e Carlo Rovelli.

Il primo fisico teorico e cosmologo presso il California Institute of Technology, autore di best-seller come Dall’eternità a qui (2012) e The Big Picture (2016); il secondo fisico teorico presso l’Università di Marsiglia, diventato una star dopo l’uscita delle sue Sette brevi lezioni di fisica (2014) e L’ordine del tempo (2017).
Le loro visioni sul problema della riduzione e sulla natura ultima della realtà non potrebbero essere più diverse: in Qualcosa di nascosto a fondo, Carroll si schiera infatti dalla parte della più eccentrica delle interpretazioni della meccanica quantistica, quella dei “molti mondi” (many worlds) che presuppone l’esistenza di molteplici realtà ciascuna con il suo punto di vista privilegiato; mentre Rovelli, in Helgoland, difende la sua interpretazione relazionista della fisica, che presuppone invece l’esistenza di una sola realtà ma di molteplici punti di vista.

Uno, nessuno, centomila
“La meccanica quantistica è l’unica tra le teorie fisiche a tracciare un’apparente distinzione tra ciò che vediamo e ciò che succede veramente”, spiega Carroll in apertura al suo libro. Ma, afferma, già negli anni Cinquanta del secolo scorso venne formulata un’interpretazione in grado di risolvere questa contraddizione: la formulazione dei molti mondi dovuta a Hugh Everett III. L’idea è semplice: non esiste R, ossia non c’è nessuna riduzione del sistema quantistico, nessun collasso della funzione d’onda di Schrödinger. Esiste solo U. Il fatto che nel processo di misurazione l’osservatore si imbatte in una discontinuità che rende l’esito della misurazione probabilistico è dovuto al fatto che il suo punto di vista gli impedisce di osservare che l’evoluzione deterministica del sistema quantistico procede indisturbata in altre realtà, parallele alla sua ma irraggiungibili. Detta in altri termini, se un elettrone può trovarsi in ogni punto dell’orbitale atomico e lo sperimentatore lo misura in una posizione anziché l’altra, ciò non toglie che in altri piani della realtà l’elettrone si trovi in un altro punto, dove un altro sperimentatore lo misurerà.
Questi piani della realtà diversi corrispondono a diramazioni, ramificazioni, o – per dirla più chiaramente – universi paralleli. Può sembrare folle, e per molti lo è. Ma l’alternativa sarebbe quella di riconoscere che l’osservatore ha un effetto determinante nel sistema che misura. Questa è l’interpretazione “classica” della meccanica quantistica, ossia l’interpretazione di Copenaghen, che si deve a Niels Bohr e Werner Heisenberg.
Nella sua versione “debole” afferma, sostanzialmente, che R è prodotto dall’interferenza dell’osservatore e che nella meccanica quantistica non possiamo stabilire una divisione netta tra osservatore e sistema osservato: la realtà è il prodotto della reciproca interazione tra osservatore e sistema osservato. Nella sua versione “forte”, dovuta a Eugene Wigner e John von Neumann, ciò che distingue un osservatore è il fatto di essere dotato di una capacità di misurazione, ossia di una coscienza: la coscienza sarebbe allora il fenomeno misterioso che produce R. Questa soluzione, che puzza di idealismo se non addirittura di antropocentrismo, fa storcere comprensibilmente il naso a molti, soprattutto a quegli scienziati che si ritrovano quotidianamente nella loro casella di posta elettronica la mail di qualche tizio che ha scoperto come usare il potere della “mente quantica” per “alterare la realtà” a proprio piacimento (vale la pena ricordare che anche nell’interpretazione forte di Von Neumann-Wigner non è possibile, per l’osservatore, decidere il risultato della misurazione, che resta un processo probabilistico).

“Il modo giusto di descrivere le cose dopo la misurazione, da questo punto di vista, non è con una persona con molte idee, diverse le une dalle altre, su dove è stato visto l’elettrone, ma con mondi molteplici, ognuno dei quali contiene una singola persona con un’idea ben precisa su dove ha osservato l’elettrone”, scrive Carroll.
Non è l’unico a pensarla in questo modo: tra i celebri fisici teorici che propendono per la correttezza della formulazione dei molti mondi c’era Stephen Hawking, e c’è David Deutsch, che nel suo La trama della realtà (1997) ha spiegato perché questa formulazione così eterodossa spiegherebbe il funzionamento dei computer quantistici, la più ambiziosa frontiera dell’evoluzione informatica. La sovrapposizione, ossia il principio su cui si basa l’intera realtà quantistica – quello per cui un elettrone, stando a U, può trovarsi contemporaneamente in ogni punto dell’orbitale – è ciò che permetterebbe a un computer quantistico di svolgere i suoi calcoli in parallelo con una capacità di risolvere problemi complessi di gran lunga superiore a qualsiasi computer digitale: i calcoli, secondo Deutsch, si svolgerebbero all’interno di tantissime copie dello stesso computer quantistico in altri mondi.
Come si fa a pensare a una cosa simile? Questa domanda è il titolo di uno dei capitoli del libro di Carroll. I motivi sono diversi. Alcuni, come Hawking, pensano che i molti mondi possano essere veri perché si conciliano con scoperte più recenti relative al meccanismo dell’inflazione cosmologica “eterna”, secondo cui continuamente possono nascere nuovi universi-bolla nel vuoto, o alla teoria delle stringhe, che funziona solo ammettendo almeno 10500 soluzioni diverse, ciascuna delle quali descrive un universo diverso. Sembrerebbero cioè esserci molteplici indizi convergenti sull’idea che la nostra realtà non sia unica, ma molteplice. Per Everett il motivo principale per preferire quest’idea era da rintracciare nella sua economicità:

“La formulazione dei molti mondi elimina una volta per tutte ogni mistero sul processo di misurazione e sul collasso della funzione d’onda. Non ci servono regole speciali per compiere un’osservazione: accade solo che la funzione d’onda continua a procedere secondo l’equazione di Schrödinger. E non c’è nulla di speciale in che cosa costituisca una «misurazione» o un «osservatore»: una misurazione è qualsiasi interazione che fa sì che un sistema quantistico entri in entanglement con l’ambiente, creando decoerenza e una ramificazione in mondi separati, e un osservatore è qualsiasi sistema che provoca una tale interazione. La coscienza, in particolare, non ha nulla a che fare con tutto ciò”
(Carroll, 2020).

Realtà emergenti
L’originalità del libro di Sean Carroll è il suo tentativo di coniugare la formulazione dei molti mondi, che ha oltre sessant’anni di storia e quindi non ci dice nulla di originale (se non nella sua eccentricità), con il problema aperto della gravità quantistica, l’arduo tentativo di conciliare la meccanica quantistica con la teoria della relatività generale che descrive la forza di gravità, e che sfugge a ogni tentativo di quantizzazione. Perché, si chiede Carroll, dobbiamo parlare di “mondi”? Non potremmo concludere che la funzione d’onda mantiene la realtà in un perenne stato di sovrapposizione? No, perché noi vediamo un mondo – il nostro – dove la sovrapposizione non si verifica, dove cioè il proverbiale gatto di Schrödinger non è mai vivo e morto nello stesso tempo. I mondi sono realtà emergenti, spiega Carroll; derivano dal principio di località, secondo cui “le interazioni tra oggetti diversi avvengono quando si trovano vicini nello spazio”. Lo spazio è emergente, vale a dire che non è fondamentale. I mondi esistono nello spazio. Ma la relatività generale descrive proprio la forma dello spazio, la sua geometria, o meglio ancora la sua metrica: quindi forse la formulazione dei molti mondi può portarci a capire quale ruolo giochi la gravità a livello quantistico. La risposta risiede nel principio olografico: una scoperta risalente appena agli anni Novanta del secolo scorso, ma che sembra molto promettente.
Il principio olografico ha a che fare con l’entropia, quella quantità descritta dalla seconda legge della termodinamica che può misurare molte cose diverse, tra cui la nostra ignoranza di un sistema fisico: come spiega Carroll, “gli stati ad alta entropia sono quelli per i quali, solo conoscendo le caratteristiche osservabili di un sistema, non sappiamo molto sui dettagli microscopici”.

Nella termodinamica, l’aumento dell’entropia è dato dalla dissipazione del calore, una forma di energia dalla quale non è possibile estrarre lavoro, e quindi nemmeno informazione sul sistema che l’ha prodotta. Ma esiste anche un’entropia a livello quantistico, come dimostrò per primo John von Neumann, derivante dal fatto che nei sistemi in stato di sovrapposizione non conosciamo aspetti fondamentali, per esempio la posizione di una particella nell’orbitale. Ed esiste un rapporto anche tra entropia e gravità: per qualche motivo, quando si aggiunge la gravità l’entropia viene misurata dall’area di un oggetto anziché dal suo volume. Per esempio, l’entropia dei buchi neri è proporzionale alla loro area (precisamente a un quarto dell’area), anziché al loro volume, come ci si aspetterebbe (essendo una misura data dall’insieme delle parti che compongono il buco nero). E l’area è il confine di una determinata regione dello spazio, che interagisce con quelle confinanti grazie al principio di località. È possibile, allora, che nella funzione d’onda quantistica emerga uno spazio da cui nascono i molti mondi di Everett? Se così fosse, l’entropia è l’indizio che può permettere di trovare non il modo di quantizzare la gravità, ma di scoprire la gravità all’interno della meccanica quantistica. Ecco perché, per Sean Carroll, la formulazione dei molti mondi può essere la giusta ontologia della meccanica quantistica: non solo perché risolverebbe il problema di R, ma perché può risultare la strada più promettente per la gravità quantistica e per la comprensione della natura ultima della realtà.

Due visioni del mondo
Carlo Rovelli condivide con Carroll la convinzione che l’entropia sia un aspetto cardine del problema della gravità quantistica. Lo spiegava già nel precedente L’ordine del tempo, nel quale accennava soltanto alla sua formulazione relazionale della meccanica quantistica. In Helgoland si spinge oltre e lo fa a partire da quella che fu la versione concorrente della meccanica ondulatoria di Schrödinger: la meccanica delle matrici, che Werner Heisenberg sviluppò nel 1925 durante un soggiorno nella minuscola isola di Helgoland, nel Mar del Nord.

La meccanica delle matrici fu il primo, riuscito, tentativo di trovare una formulazione matematicamente coerente della fisica dei quanti; ma aveva il difetto di essere incomprensibile a chi non possedesse una solida competenza matematica. Quando Schrödinger se ne venne fuori con la sua formulazione, che estendeva la più classica meccanica ondulatoria nota a tutti i fisici alla realtà quantistica introducendo la funzione d’onda, la meccanica delle matrici fu praticamente abbandonata. Ma l’intuizione principale di Heisenberg rimase: “Rinunciamo all’idea che un elettrone sia un oggetto che si muove lungo una traiettoria. Rinunciamo a descrivere il moto dell’elettrone. Descriviamo solo ciò che osserviamo dall’esterno: intensità e frequenza della luce emessa dall’elettrone. Basiamo tutto su quantità che siano osservabili”, riassume Rovelli. Le “osservabili” sono le quantità che la meccanica quantistica può descrivere: posizione, momento (ossia quantità di moto), massa, e poco altro. Solo ciò che si può misurare e che viene effettivamente misurato è reale, nella meccanica quantistica. “Lo scontro tra quelle due visioni della fisica (e del mondo) è radicale e drammatico”, scrive Pietro Greco nel suo Quanti.

“Il problema nasce dal fatto che i due formalismi si offrono a interpretazioni fisiche molto diverse, addirittura opposte. Qual è, dunque, la realtà fisica sottesa alla nuova meccanica dei quanti?”
(Greco, 2020).

Le onde di Schrödinger sono reali o sono entità matematiche? La seconda opinione prevarrà, grazie alla regola introdotta da Max Born, secondo cui la funzione d’onda non è che una misura dell’ampiezza di probabilità di ottenere un determinato risultato nella misurazione (resisterà una versione minoritaria che giudica la funzione d’onda reale, introdotta da David Bohm e chiamata per questo meccanica bohmiana o teoria dell’onda-pilota). Secondo Rovelli, è stato un errore pensare che la meccanica ondulatoria di Schrödinger fosse migliore di quella matriciale: è ugualmente oscura, non fornisce una comprensione della realtà fondamentale e, soprattutto, ha prodotto un’enormità di fraintendimenti sul concetto di “onda”.
Uno di questi è proprio quello che ha portato alla formulazione dei molti mondi, secondo cui esiste solo U, ossia il processo descritto dalla funzione d’onda quantistica. Ma per Rovelli questa funzione d’onda universale “è come la notte nera di Hegel dove tutte le vacche sono nere: non rende conto, di per sé, della realtà fenomenica che osserviamo”.

La sua idea, invece, è da un lato più realistica, dall’altro forse ancora più radicale dei molti mondi. Si tratta di spingere fino in fondo l’intuizione di Heisenberg secondo cui tutto ciò che conta sono le quantità misurabili, le osservabili; e spingere fino in fondo l’intuizione che ebbe, nel XIX secolo, Ernst Mach, solo in parte seguita da Albert Einstein nella sua formulazione della teoria della relatività: non possiamo sapere com’è davvero il mondo, possiamo solo comprenderne le sensazioni, cioè le manifestazioni sensibili, le “osservabili” di Heisenberg. Possiamo dire, cioè, che cos’è il mondo rispetto a noi; ma non potremo mai sapere che cos’è il mondo rispetto a qualsiasi altro sistema interagente, perché per farlo dovremmo assumere il punto di vista di Dio, ossia un punto di vista situato fuori dall’universo, il che è impossibile.

Un solo mondo, infinite relazioni
Einstein ci era arrivato vicino con la sua teoria della relatività, secondo cui tempo e spazio sono quantità che dipendono dal moto dell’osservatore, mentre solo la velocità della luce è invariante per tutti gli osservatori.
La meccanica quantistica basata sulle osservabili si muove nella stessa direzione, ma secondo Rovelli non lo fa fino in fondo: tutti i problemi emersi negli anni successivi, dal misterioso fenomeno della sovrapposizione alla non-località dell’entanglement (l’inquietante azione a distanza, secondo la definizione di Einstein), dal problema della misura R al tentativo di quantizzare la gravità, derivano dall’illusione di poter ottenere una descrizione universale della realtà. La realtà è invece fatta di relazioni tra sistemi: tra noi e le cose, tra ciascuno di noi e un’altra persona, tra un atomo e l’altro, tra un elettrone e l’altro. Afferma Rovelli:

“La scoperta della teoria dei quanti, io credo, è la scoperta che le proprietà di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa cosa influenza le altre. Esistono solo nell’interazione con altre cose. La teoria dei quanti è la teoria di come le cose si influenzano e questa è la migliore descrizione della natura di cui disponiamo oggi”
(Rovelli, 2020).

Questo non è idealismo: il relazionismo non implica che la realtà esista solo nella nostra mente; anche se gli aspetti sensoriali, come il colore o la forma, sono proprietà emergenti e non fondamentali, ciò non toglie che siano reali. Ma hanno senso solo rispetto a un osservatore: una sedia non è rossa di per sé, lo è per gli osservatori che possiedono occhi in grado di vedere una particolare frequenza dello spettro elettromagnetico. Ma gli atomi che rendono la sedia rossa sono comunque lì, a prescindere da chi la osservi o in generale interagisca con essa. Del resto, una sedia ha una funzione solo per un essere umano che ha bisogno per sedersi, o per un gatto che ha voglia di accoccolarsi. Per una mosca o un uccello avrà un’altra funzione. Ma ciò non toglie che questo agglomerato di atomi esista davvero.

Interagendo con un oggetto possiamo estrarre delle informazioni, come il suo colore. Analogamente, quando misuriamo un sistema quantistico otteniamo delle informazioni, come la posizione di una particella, grazie alla correlazione tra la particella e un sistema di misurazione. Queste correlazioni – queste relazioni – hanno a che fare con l’informazione. E forse qui si situa l’altro punto di contatto tra Carroll e Rovelli: l’entropia è una misura dell’informazione, e il fatto che interagendo con l’area di un oggetto possiamo estrarre informazione sul suo contenuto analogamente a quanto facciamo quando interagiamo con un sistema quantistico sembra suggerire che anche l’entropia sia un fenomeno relazionale (era questa la tesi presentata in L’ordine del tempo). Se ciò è vero, allora forse aveva ragione John Wheeler, il mentore di Hugh Everett, quando si spinse a sostenere che la realtà è sostanzialmente informazione. “La mia conoscenza del mondo è un esempio del risultato di interazioni che generano informazioni significative. È una correlazione fra il mondo esterno e la mia memoria”, scrive Rovelli.

Ciò che è reale è razionale?
Ma allora non esiste nessuna speranza di arrivare alla realtà ultima? La strada che porta alla realtà è inesorabilmente situata, ossia dipendente dal punto di vista? C’è chi non si è arreso di fronte a questa idea. Penrose è uno di loro: la sua proposta è che il processo R sia prodotto dall’interferenza della gravità su U: vale a dire che la forza gravitazionale è la responsabile del collasso della funzione d’onda. Un’ipotesi suggestiva che sembra tuttavia essere stata smentita da un recente esperimento compiuto presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, in Italia (Donadi et al., 2020).
Una soluzione simile nelle assunzioni ma divergente nel funzionamento è il modello di riduzione dinamica o modello GRW, dalle iniziali di Gian Carlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber, avanzato negli anni Ottanta del secolo scorso. Una soluzione tutta “italiana” per cui fa il “tifo” Pietro Greco nel suo Quanti: il modello GRW è in realtà una vera e propria riformulazione della meccanica quantistica, in cui U non è affatto lineare, ma soggetto a processi stocastici di collasso. Detta in altri termini, la funzione d’onda di Schrödinger non produce un’evoluzione deterministica e lineare, ma è sottoposta a una frequenza casuale di collassi che determinano R, cioè la scomparsa della sovrapposizione.

Nel caso di una singola particella, la frequenza spontanea di tali collassi è talmente rara che, in assenza di interazioni con un apparato sperimentale, la particella resterà davvero eternamente sospesa in uno stato di sovrapposizione tra tutti i suoi possibili stati. Ma quando le particelle si agglomerano a creare un sistema macroscopico, come un gatto, la probabilità che si verifichi un collasso aumenta esponenzialmente e rende pressoché impossibile avere un gatto che sia contemporaneamente vivo o morto. “La soluzione GRW rende del tutto superfluo l’osservatore e si produce in maniera spontanea in natura”, riassume Greco. Forse “non è la soluzione ultima, tuttavia corre lungo la strada giusta per restituire al realismo il mondo dei quanti e per risolvere il problema micro-macro”.
Se oggi il dibattito sull’ontologia della meccanica quantistica è tornato di moda non è solo perché è un argomento appassionante nella divulgazione scientifica, come mostrano i testi di Carroll e Rovelli. È perché troppo a lungo si è pensato, nel mondo della scienza, che sia sufficiente avere un modo corretto di fare i calcoli senza preoccuparsi di ciò che i calcoli descrivono. Ma, con l’andare del tempo, la nostra ignoranza sugli aspetti fondamentali della realtà ci ha spinto verso autentici vicoli ciechi: la nostra mappa della realtà è oggi piena di punti oscuri, e forse risolvere il mistero profondo della misura potrebbe essere la strada giusta per risolverli. Non abbiamo ancora una risposta, ma sappiamo che “avremo bisogno di idee nuove e potenti, che ci conducano in direzioni significativamente diverse da quelle attualmente seguite” ha scritto Roger Penrose. “Forse quello di cui abbiamo maggiormente bisogno è qualche sottile cambio di prospettiva – qualcosa che noi tutti ci siamo lasciati sfuggire…” (Penrose, 2005).

Letture
  • Sean Carroll, Dall’eternità a qui, Adelphi, Milano, 2012.
  • Sean Carroll, The Big Picture, E.P. Dutton, Boston, 2016.
  • David Deutsch, La trama della realtà, Einaudi, Torino, 1997.
  • Sandro Donadi, Kristian Piscicchia, Catalina Curceanu, Lajos Diosi, Matthias Laubenstein, Angelo Bassi, Underground test of gravity-related wave function collapse, Nature Physics, 7 settembre 2020.
  • George Musser, Inquietanti azioni a distanza, Adelphi, Milano, 2019.
  • Roger Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, Milano, 2015.
  • Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014.
  • Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017.