Il trip del monolito oltre
le porte della percezione

Trieste Science+Fiction Festival
(30 ottobre al 4 novembre),
ha assegnato per la sua 18a edizione
il Premio Urania
d’Argento alla carriera
al regista, produttore
e creatore di effetti speciali
Douglas Trumbull.

Trieste Science+Fiction Festival
(30 ottobre al 4 novembre),
ha assegnato per la sua 18a edizione
il Premio Urania
d’Argento alla carriera
al regista, produttore
e creatore di effetti speciali
Douglas Trumbull.


Nel cinquantenario di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick si celebra una delle influenze più profonde nella storia del cinema. Un tale anniversario non poteva sfuggire alla diciottesima edizione del Trieste Science + Fiction Festival, che ha riproposto il capolavoro kubrickiano in una spettacolare versione restaurata. Quello sguardo scagliato verso l’alto nel 1968 lo si può trovare ancora lì a fluttuare da qualche parte nella nebulosa dell’immaginazione di tanti talentuosi cineasti giovani e meno giovani. Trip fantascientifico che è una pietra miliare nella storia del racconto per immagini e forse di tutta la cultura tecnico-scientifica e che deve molto all’apporto di Douglas Trumbull agli effetti speciali: il fantastico tuffo audiovisivo nel pensiero non sarebbe stato lo stesso senza l’ingegno del talentuoso giovane grafico allora venticinquenne.

Douglas Trumbull nel documentario Trumbull Land di Grégory Wallet presentato al Trieste Science + Fiction Festival.

Senza quella poderosa sequenza di colori, di forme astratte, di geometrie organiche e inorganiche, di liquidi che si disciolgono in altri liquidi come nebulose e galassie. Rocce, fiumi, deserti e oceani di tutti i colori che si contendono la superficie ancora innocente di pianeti appena nati per decidere se e come far nascere la vita. Quella degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio fu l’unica categoria per la quale il capolavoro di Kubrick vinse l’Oscar. In seguito, Trumbull è stato supervisore agli effetti speciali fotografici di alcuni masterpiece del cinema di fantascienza, tra cui Andromeda (Robert Wise, 1971), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Steven Spielberg, 1977) e Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Più di recente ha contributo ai film di Terrence Malick, The Tree of Life (2011) e Voyage of Time (2016). Più che motivato quindi il Premio Urania Argento alla carriera assegnatogli dalla manifestazione triestina. Inoltre, molte delle tecniche sperimentate in 2001: Odissea nello spazio Trumbull le riprese nel suo primo film da regista, Silent Running (1972, noto in Italia come 2002: la seconda Odissea) anch’esso proiettato nel corso della manifestazione triestina.

L’osso-astronave continua a volare
Tornando a 2001: Odissea nello spazio, l’accecante lampo di cinema, rimasto un caso quasi isolato nella storia della cultura in quanto a densità di discussioni accese, condensa tutte le inclinazioni di Kubrick spostandole su una scacchiera fantascientifica: giocare con poteri e forze invisibili che manipolano i destini di uomini e macchine. Nel segno di Friedrich Nietzsche, Kubrick mette in scena la sua idea di saggio scientifico in forma filmica. Le sue affascinanti geometrie circolari continuano a far riflettere e a lasciare segni evidenti ancora oggi nei tentativi più acclamati di speculative-fiction cinematografica come Arrival (2016) di Denis Villeneuve, Interstellar (2014) e Inception (2010) di Christopher Nolan. Ma oltre al fascino filosofico, l’altra grande eredità del capolavoro kubrickiano è nella tecnica: una meticolosità nel montaggio e nelle inquadrature che anticipa la potenza psicologica e le possibilità manipolatorie proprie del cinema degli effetti speciali visivi e delle riprese computerizzate.

Il trip di 2001: Odissea nello spazio prepara l’avvento dei luna park di George Lucas e Steven Spielberg. Eppure oggi la subordinazione del cinema al modello televisivo-elettronico mette a repentaglio quelle potenzialità emotive mostrate da film come questo. Oggi si tende a scambiare la potenza della proiezione su grande schermo con la comodità dello spettacolo digitale e l’immediatezza dialogica delle reti social. Non a caso la fascinazione del rito collettivo nel buio della sala viene tenuta viva anche riproponendo vecchi classici.
In definitiva 2001: Odissea nello spazio risulta tra i film più restaurati e rimasterizzati, intanto per il valore storico del suo impatto visivo (anche se il fotorealismo degli effetti e delle tecnologie risulta inevitabilmente datato agli occhi del contemporaneo) e poi per la sua particolarità costruttiva, per l’unicità della tecnica narrativa che rende la pellicola praticamente un manufatto alieno se confrontato con la media della produzione cinematografica odierna in quanto a riflessività e anticonformismo narrativo.

La mente umana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo
Senza le affascinanti animazioni di Trumbull, forse Kubrick non sarebbe riuscito a trasmettere l’idea dell’attraversamento della complessa stratificazione di influenze culturali e di saperi necessaria a definire compiutamente la nostra civiltà pronta alla conquista dello spazio. Con i suoi modellini in volo, le infografiche animate, la velocità e la precisione del controllo informatico, 2001: Odissea nello spazio ha dimostrato la possibilità di nuove possibilità espressive, a cominciare dalla liberazione dello sguardo dal corpo di un operatore, rilanciando l’idea di una inquadratura che non è più soggettiva.
Kubrick inserisce genialmente un terzo incomodo rispetto all’incontro tra uomo e alieno-divinità: il computer HAL 9000 che finisce con il rubare la scena a tutti. A ben vedere il protagonista del secondo atto di 2001 non è l’astronauta ma proprio il computer psicotico. David Bowman è sostanzialmente sospinto dagli eventi scatenati dal Frankenstein elettronico sfuggito alla programmazione umana (oppure istruito fin troppo bene da un potere occulto).

Il computer riesce anche a strappare un momento di sublime cinematografico chiedendo a Bowman prima di spegnersi: “Sognerò?”. HAL 9000 che accompagna l’uomo fino a un punto di non ritorno è il profetico araldo dell’era delle intelligenze artificiali che ci apprestiamo a vivere (o che le macchine stanno per vivere al posto nostro). Kubrick ci prepara a un nuovo affascinante viaggio, in cui si perde la distinzione tra interno ed esterno: tutto viene sorvolato e abbracciato dall’inquadratura fluttuante dell’occhio-macchina-psiche.

La dialettica stasi-movimento genera lo strappo tecnico-scientifico
2001: Odissea nello spazio è prima di tutto un’esperienza sensoriale (non solo visiva) che contrappone una certa complessità di eventi e di reazioni improvvise all’apparizione di un semplice parallelepipedo nero chiamato monolito, un significante senza significato (cfr. Ghezzi, 1995). Il contrappunto tra stasi e movimento definisce l’incedere a strattoni del film la cui ambizione è quella di ricalcare l’andamento della Storia umana. La tranquilla routine dei gruppi di ominidi intenti a spulciarsi e a urlare al sopraggiungere di fame e sete viene bruscamente interrotta dal richiamo del monolito e dal primo omicidio a mano armata. Nasce così la politica.
Sulle basi lunari, i civilissimi dialoghi tra la tribù americana e quella sovietica sospendono e dilatano l’azione disciogliendola in formalismi esasperanti. Lo stesso approccio al luogo di rinvenimento del monolite è rarefatto. Anche sull’astronave Discovery i dialoghi non sono mai decisivi rispetto all’azione: i due astronauti sono ironicamente livellati al computer di bordo sul piano dell’emotività. La trama progredisce solo in virtù di qualcosa deciso nei misteriosi recessi dell’elaboratore elettronico o forse nelle profondità interdimensionali del monolito.

La centralità e l’influenza di 2001: Odissea nello spazio è forse nel suo essere ponte tra prospettive narrative antitetiche: ellissi contro ipercitazionismo postmoderno, dire contro non dire. Riguardo al dire e al mostrare, il trip ideato da Kubrick e Trumbull ha gettato le basi per la vertigine dell’animazione digitale e dei movimenti di macchina computerizzati nei decenni successivi. Dal volo di Superman (Richard Donner, 1978) e della bicicletta di Elliot in E.T. l’extraterrestre (Spielberg, 1982) all’immersione dell’occhio subacqueo e meta-storico nel Titanic (1997) di James Cameron, dai primi videogiochi con grafica vettoriale fino ai runner tridimensionali mozzafiato consumati aspettando la metropolitana: il salto kubrickiano ha gettato un seme fondamentale. Quanto al non dire, ovvero alla capacità di esprimersi con ellissi o metafore, 2001: Odissea nello spazio è un inno alle scienze, alla chimica, alla geologia, all’ingegneria, all’informatica, all’antropologia. Per Ruggero Eugeni, “è da considerarsi un grande poema epico della Ragione, cioè la ricostruzione in chiave mitologica e immaginaria della storia della Razionalità occidentale” (Eugeni, 1995) e la grandezza e l’originalità di Kubrick sarebbero nella sua capacità di narrare “questo epos con scetticismo e ironia profondi e demistificanti” (ibidem).
La razionalità tecno-scientifica rappresentata dalla continuità osso-astronave non porta verso un futuro di pace e di progresso lineare ma, al contrario, è l’infinita riproposizione della volontà di potenza dell’uomo, usualmente foriera di guerre e conflitti.

Si tratta di un progresso che assume forma circolare e, allo stesso tempo, si muove in una direzione con un movimento a spirale che ascende. Serve un intervento esterno ad avviare ma anche a interrompere il cerchio della Storia umana per poi passare al piano successivo. Apre e chiude il film l’oggetto misterioso: dalla preistoria alla Luna, nel pieno della corsa per la conquista dello spazio cosmico, il monolito scandisce un cambiamento completamente ripulito da proiezioni etiche o da pretese di oggettività.
Lo Star Child, con i suoi inquietanti occhi fissi verso la macchina da presa e verso la Terra, denota presa di coscienza: dovrebbe essere pronto a spezzare la circolarità dei cicli precedenti uscendo finalmente dall’umano e portandoci alla fase successiva. Misterioso semaforo antropologico, il monolito potrebbe essere una soglia o una stazione temporanea per un altrove futuribile, ma anche uno specchio oscuro che riflette il solito vecchio essere umano che ascolta all’infinito le note di un valzer di Johann Strauss. Si può dibattere all’infinito sulla forma circolare, lineare o a spirale della Storia secondo Kubrick, o del fatto che il monolito sia un dono proveniente dall’alieno-dio o dall’uomo del futuro, ma resta forte e precisa l’affermazione di un ritmo narrativo basato su stasi e movimento, a voler mimare gli strattoni della Storia.
Il manufatto nero segnala forse uno dei tanti strappi tecno-scientifico associati a una rivoluzione, per dirla con Thomas Kuhn? A bagnare il feto dello Star Child nel finale di 2001: Odissea nello spazio sarebbe dunque un liquido amniotico costituito dalla solita vecchia volontà di potenza, unica vera invariante che caratterizza il genere umano.

La bomba atomica come monolito della Storia umana
Un monolito in Africa, uno sulla base lunare, uno oltre Giove e così via: che sia un futuro costellato da guerre o meno, la direzione indicata da Kubrick nel 1968 e da tutta la fantascienza del Novecento (ben rappresentata da Arthur C. Clarke, co-autore della sceneggiatura) punta chiaramente verso l’alto e verso l’altro, verso le stelle e verso le altre civiltà. Ma Kubrick sapeva bene che l’esplorazione spaziale alla ricerca di vita extra-terrestre potrebbe non portare agli esiti previsti. Lo dimostrano le tante interviste a scienziati raccolte dal regista e dai suoi collaboratori durante la gestazione di 2001. Emergono tante possibilità in conflitto tra loro. Il paradosso di Fermi per esempio (cfr. Webb, 2004).
Le distanze fisiche potrebbero essere tali da non rendere possibile il contatto con altre civiltà se anche esistessero. Oppure un tale incontro sarebbe possibile in un tempo così lontano nel futuro che il nuovo piano scientifico e culturale potrebbe svuotare il contatto con l’alieno di qualsiasi significato oggi attribuibile da mente umana.
Ammesso di essere in grado di sopravvivere a sé stessa, la nostra civiltà potrebbe spingersi così lontano da risultare più aliena dell’alieno rispetto al nostro attuale punto di vista. La complessità restituita dalle interviste agli scienziati (cfr. Frewin, 2006) potrebbe avere spinto Kubrick a scegliere la via dell’ambiguità simbolica o meglio della non rappresentabilità di una civiltà o di un futuro realmente altro rispetto a noi.

Fuoricampo spaziotemporale fortemente allusivo, come lo stacco di montaggio tra la sequenza dell’osso che sale e l’astronave che scende: in quella cesura c’è tantissimo, tutta la nostra Storia. Qualcosa che val la pena rappresentare o è, invece, qualcosa di poco significativo sul piano cosmico? O addirittura qualcosa di cui dovremmo vergognarci durante un ipotetico incontro con una civiltà aliena? Praticamente tutta la fantascienza novecentesca focalizza un futuro in cui non c’è reale progresso se non eliminando le guerre. Icona di questa cesura di cui vergognarsi è la bomba atomica: il fungo termonucleare è il vero grande monolito protagonista dell’immaginario durante la Guerra Fredda.
In effetti Kubrick non aveva mancato, nel 1964, l’occasione per dire la sua sulla bomba: Il dottor Stranamore è intriso di una feroce ironia che si addice a circostanze politiche ai limiti del concepibile. Nel finale surreale di quel film Kubrick mette il cowboy Slim Pickens, urlante e festante proprio come una delle scimmie impazzite di 2001, a cavalcioni di una bomba atomica in rotta verso l’Unione Sovietica.
Prendendo come riferimento il primo test di esplosione nucleare nel deserto del Nuovo Messico (Trinity Test, 1945), in Twin Peaks – Il ritorno David Lynch rende omaggio all’intuizione di Kubrick e di Trumbull. Nell’ottavo episodio della serie (anche qui un ritorno da un’odissea), Lynch ripropone il trip cosmico rinnovando con coraggio l’ambizione dell’esperienza non-verbale, dell’universalità insita nella fuga ascensionale. Il big bang della mitologia lynchiana è il fungo atomico e il conseguente approdo del male sulla Terra. La lunga sequenza è una trama di illusioni tridimensionali in cui si disciolgono gas, liquidi e luci.
Forme geometriche astratte e schemi cromatici evidentemente inorganici si alternano a macchie irregolari in espansione, forme organiche apparentemente ingovernabili: c’è tanto in comune tra il trip di 2001 e i voli pindarici presenti nel cinema di David Lynch. Del resto Kubrick e Lynch non hanno mai fatto mistero di una reciproca ammirazione sin dai tempi di Eraserhead (cfr. Lynch, 2016). Con le sue pause silenziose e la fissità di certe inquadrature ai limiti del sostenibile, Lynch rielabora a modo suo quel ritmo tra stasi e movimento che è un tratto tipico di Kubrick.

La red room di Twin Peaks ricorda le waiting room kubrickiane, soprattutto l’appartamento in stile Luigi XVI allestito per ospitare l’astronauta nel finale di 2001. Ma anche il bar dell’Overlook Hotel in Shining. Emerge il rigido contrasto tra la fisicità a volte anche violenta dell’esplorazione e la selvaggia fantasmagoria del volo spaziale contro la calma di una civilizzazione artefatta, ultramondana, persa in esasperanti formalismi. Si tratta di camere di decompressione in cui i viaggiatori interdimensionali si preparano senza didascalie e senza coordinate ai rispettivi trip: nell’anima, nella follia, nel sistema solare, verso l’infinito o verso la Loggia, solcando oceani di coscienza pura fino a trovare la forza di volare (o almeno di lanciare il proprio occhio) oltre la banalità burocratica del quotidiano.

Letture
  • Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Stanley Kubrick, Mursia, Milano, 1995.
  • Anthony Frewin (a cura di), Stanley Kubrick. Interviste extraterresti, Isbn, Roma, 2006.
  • Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, L’Unità/Il Castoro, Milano, 1995.
  • Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1995.
  • David Lynch, Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita, il Saggiatore, Milano, 2016.
  • Robert Sklar, Movie-Made America: A Cultural History of American Movies, Vintage Books, 1994.
  • Stephen Webb, Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?, Sironi, Milano, 2018.