Ideologia del presente:
il futuro distopico

Nel 1962, sulla rivista
New Worlds,
James Ballard pubblicò
Which Way to Inner Space
(Come si arriva
allo spazio interiore?
),
il manifesto fondativo di quella New Wave della science fiction che diventerà la prima dichiarata rivoluzione copernicana
del genere: dall’esplorazione degli spazi siderali immaginari
a quella degli spazi interiori, altrettanto profondi
e sconosciuti, segnando
i primi sussulti “eversivi”
di un ambiente
paludato e conservatore.
Distopicamente,
i fini rivoluzionari
di quel manifesto hanno prodotto
nel tempo un effetto boomerang.

Nel 1962, sulla rivista
New Worlds,
James Ballard pubblicò
Which Way to Inner Space
(Come si arriva
allo spazio interiore?
),
il manifesto fondativo di quella New Wave della science fiction che diventerà la prima dichiarata rivoluzione copernicana
del genere: dall’esplorazione degli spazi siderali immaginari
a quella degli spazi interiori, altrettanto profondi
e sconosciuti, segnando
i primi sussulti “eversivi”
di un ambiente
paludato e conservatore.
Distopicamente,
i fini rivoluzionari
di quel manifesto hanno prodotto
nel tempo un effetto boomerang.


*C’è un’accezione di narrativa o letteratura d’anticipazione capace di andare oltre il ruolo d’intrattenimento? Ma soprattutto: ne abbiamo bisogno? Lo spunto della riflessione lo fornice James Graham Ballard nel suo Which Way to Inner Space? (qui tradotto in italiano) del 1962 periodo in cui, per certi versi, l’urgenza che lo sfogo veicola era anche più cogente rispetto ad oggi.

“La SF da rivista nata negli anni Trenta sta cominciando a sembrare fuori moda al lettore generico, come l’architettura pseudo-aerodinamica di quegli anni. Non è solo perché i viaggi nel tempo, la psionica e il teletrasporto […] contribuiscono a datare la SF, ma perché il lettore generico è abbastanza intelligente da capire che la maggioranza delle storie è basata su minime variazioni sul tema e non su trovate innovative”.

A sessant’anni di distanza in realtà di innovazioni narrative ne sono state introdotte parecchie. Così tante in effetti da produrre più di una lacerazione in grembo alla fantascienza tra ciò che fantascienza è e ciò che non è (pur essendolo). Si pensi alla fantascienza di stampo più sociologico come nel caso di Connie Willis o al pastiche di Haruki Murakami, solo per fare esempi a tutti noti.
Tolto di mezzo programmaticamente il fantasy, è la stessa produzione di Ballard a muoversi in questa volontaria ambiguità e sovrapposizione di generi. Non poteva essere altrimenti date le sue premesse polemiche. Tra l’altro Ballard sembra anche troppo poco indulgente con i suoi contemporanei e tale critica, proprio come oggi, parrebbe riguardare più la produzione cinematografica (visuale in generale) che non quella narrativa dove si celavano e continuano a nascondersi spunti imprevedibili al riparo da più impellenti ritorni d’incasso.
L’asfittica produzione di storie cinematografiche e televisive di fantascienza contemporanea è divenuta ancora più evidente con la totale giustapposizione del genere fantascientifico con quello detto d’azione. Lo si può vedere ovunque ma lo si può osservare bene paragonando il Total Recall di Paul Verhoeven (1990) con quello di Len Wiseman (2012). Si tratta di un ottimo esempio d’erosione della trama fantascientifica in favore dell’azione evidente tanto più che già nel 1990 e già nella scelta del protagonista Arnold Schwarzenegger il film era pensato come pellicola dalla muscolarità in primissimo piano. Tolto di mezzo Marte nel remake tutti gli elementi della trama appaiono liofilizzati per fare spazio a inseguimenti (effetti speciali) e abilità somatiche dei protagonisti.

Seppur quindi circoscritto in campo narrativo, il grido d’allarme di Ballard resta invece completamente valido per quel che riguarda la collocazione della fantascienza entro un meccanismo di produzione di senso che oggi non è, e che invece dovrebbe essere, più ampio di quello della semplice letteratura d’evasione. La soluzione di Ballard è delineata nell’esplorazione dell’interiorità:

“I maggiori progressi dell’immediato futuro avranno luogo non sulla Luna o su Marte, ma sulla Terra; è lo spazio interiore, non quello esterno, che dobbiamo esplorare. L’unico pianeta veramente alieno è la Terra”.

Esigenza giusta quindi per un’urgente e più significativa ricollocazione del ragionamento fantascientifico e delle sue attitudini prefigurative ma con conclusioni, a nostro avviso, completamente sbagliate. Di questa direzione Ballard ne ha fatto un manifesto programmatico e letterario. Sappiamo bene quale verso intraprese la sua fantascienza coerentemente con l’inevitabilità di dedicarsi all’esplorazione delle coscienze e delle personalità più estremofile per fornire linfa vitale ai propri racconti fino a trasformarsi in una fiera delle atrocità. In effetti forse il risultato più evidente di questa esigenza fu quella di accorciare la portata della prefigurazione fantascientifica estremizzando (parodiando delle volte) quelli che sono gli aspetti già fantascientifici delineati nel quotidiano; intuizione tra l’altro fondamentale e ancora ricca di spunti. Ed eccoci quindi alle soglie del cyberpunk e con esso della distopia.
Innegabile è infatti che questa contrazione temporale del racconto abbia prodotto un inevitabile sbilanciamento in direzione del catastrofismo prossimo venturo e che questo sia divenuto l’unica sottile soglia di demarcazione tra fantascienza e benevola, quanto spesso sterile e futile, futurologia. Tutto ciò ha funzionato ancor più in un clima di necessario rinsavimento rispetto all’ubriacatura ottimistica degli anni Sessanta e poi degli anni Ottanta (patria del cyberpunk). Ivi ha costituito certo una vera e propria ragione controculturale che però oggi, distribuita un tanto al chilo, si è trasformata in paccottiglia mainstream con tutto quel che ne consegue sulla costruzione di un immaginario collettivo progressivo, ovvero di là a da venire. Il messaggio che emerge è che sarà e non potrà che essere sempre peggio, in una sorta di nuova e più raffinata strategia della tensione dell’immaginario.
Questa condizione tutt’altro che oggettiva dell’immaginazione contemporanea e della storia è quindi, almeno in parte, il risultato di paura e apatia: quel che ci vogliamo raccontare dati gli spunti narrativi che rintracciamo a buon mercato, senza troppo sforzo e senza troppo sporgerci o forse perché invalsa l’opinione che debbano essere altri a costruire storie a noi accessibili.

Gli effetti collaterali delle esplorazioni dell’inner space
La distopia è infatti oggi divenuta specchio dei tempi, mappatura acritica della contemporaneità che esattamente come nel periodo dell’esaltazione futurologica degli anni Sessanta raccoglie quanto ha a portata di mano e lo proietta acriticamente su scale temporali più o meno lunghe producendo una curva chiusa di tipo tempo sempre identica a sé stessa. Seguendo la linea tracciata da Ballard la distopia coincide con la disgregazione della coscienza collettiva nei meandri delle psicopatologie individuali.
Fortunatamente o meno che sia, il futuro si presenta tutt’altro che sincronicamente e i rivoli da cui si alimenta viaggiano sottotraccia parzialmente al riparo da agenti inquinanti. Su distanze meno atrofiche esso presenta inevitabilmente scenari non prevedibili in cui la catena causale diviene di gran lunga troppo complessa per concedere chiare visioni. Ecco che allora la prospettiva politica in cui la fantascienza avrebbe l’obbligo d’innestarsi diviene quella della preconfigurazione sociale, della costruzione di una direzione consapevole, in un rovesciamento in cui la narrazione non si accontenta di raccattare gli input sociali ma li costruisce. Nel campo delle narrazioni umane solo la fantascienza ha lo statuto adeguato per interpretare questo ruolo se non programmaticamente in chi scrive almeno in chi delle intuizioni letterarie fruisce.
Si tratta di una questione di lungo corso in cui ad esempio i cultural studies hanno trasformato le scienze sociali in accertatori di rigor mortis laddove il loro posto dovrebbe essere, assieme alla fantascienza, nei reparti d’ostetricia. Laddove la sociologia s’identifica oggi prioritariamente con questo tipo di studi dediti all’analisi della cultura di massa essa s’accontenta di certificare a cose avvenute l’impatto degli artefatti intellettuali sulla società invece d’interpretarne criticamente, intercettandone la genesi, la diffusione e la modellazione del contesto.
Ha ben ragione Ballard a fustigare i patetici epigoni di Jules Verne che tuttavia continuano a esprimere una direzione per la collettività avversa all’introversione e l’atomismo sociale. Si tratta certo di un campo impervio che confina, non necessariamente in modo drammatico, con le ideologie e talvolta addirittura con le religioni come nel caso del Cosmismo russo. Anche qui il rischio minimo, come registra Ballard, è quello della coazione a ripetere all’infinito sulla base di variazioni minime, mentre quello massimo lo rileva Karl Marx nell’appropriazione privata del plusvalore della cooperazione sociale.
Ne è un ottimo esempio la miniserie Mars (2016) prodotta dal National Geographic. Si tratta di un perfetto manuale d’espansione capitalistica verso Marte in cui la leva emotiva è quella del sogno di un’umanità libera e cooperante modellata ovviamente sul cosiddetto sogno americano. Dal mockumentary è definitivamente espulso il contributo sovietico all’esplorazione del cosmo e al centro dell’innovazione c’è, non senza molte buone ragioni, l’epopea imprenditoriale privata di Elon Musk e della sua SpaceX.
Geneticamente a Mars si contrappone Contact (1997) in cui l’idea della cooperazione sociale su larga scala ha un’enfasi quantomeno illuminista in linea con il romanzo di Carl Sagan da cui è tratto.

Pensiamo che in realtà operazioni di realismo fantascientifico come quella di Mars (come anche come nella pellicola The Martian, 2015) possano esistere proprio per il sistematico e conclamato ritardo della società civile circa le questioni riguardanti il futuro, che nella vita quotidiana è appiattito sul domani, e per mancanza di consistenti e consapevoli narrazioni collettive circa l’indirizzo da imprimere a quel che vorremo essere e saremo.
Abbiamo nuovamente deciso di definire tale direzione, non senza remore e problemi, utopia, tradendo in primis Karl Mannheim e il suo sforzo di separarla dall’ideologia. Tuttavia ideologia e utopia si riassemblano, a nostro avviso, se guardate sotto la lente tutt’altro che idealistica dell’egemonia laddove la seconda dichiara guerra allo status quo.
Utilizzare un concetto scomodo come quello d’utopia è una scelta tattica contingente. Lo strapotere contemporaneo delle distopie ha prodotto il venire meno di un asse valoriale fondamentale secondo il meccanismo che William Gibson definirebbe dei fantasmi semiotici. L’utopia, questo uno dei due fuochi, liberata dal suo contrario (la distopia, il secondo fuoco) ha preso a orbitare non più ellitticamente fino ad accoppiarsi disgiuntamente con un altro meme anch’esso evidentemente fantasmizzato, il pragmatismo: utopia vs pragmatismo, ecco il nuovo asse. Al dilagare della distopia non c’è più quindi un contraltare e alla sua visione non si contrappone più nulla che non produca miseria e macerie. La distopia è l’Ubik contemporaneo come ha anche suggerito Gennaro Fucile in Guai in vista! La distopia piace a tutti.
Potremo affermare si tratti dell’amara vittoria di Ballard. Sì, perché ancora più evidente che della genealogia in soldoni fin qui delineata è proprio il palese prevalere dell’interiore a discapito del progetto collettivo che alla fine ha fatalmente trionfato in ogni espressione culturale. Lo si scorge nelle varianti di neoliberismo in circolazione ma anche più prosaicamente in tutta quell’affermazione dell’interiorità dei personaggi che è cifra stilistica della narrazione dei nostri tempi. Oggi un buon prodotto di narrazione è ritenuto quello calibrato su una millimetrica costruzione delle personalità, dei drammi interiori, delle scelte monadiche, dei mal di pancia, a discapito anche dell’intelaiatura corale.
Lo si vede bene nella serie Ascension (2014) in cui quel colabrodo che è il racconto della realtà collettiva regge per il telespettatore solo nella misura in cui le vicende personali assumono uno spessore iperreale al pari del cosiddetto “dare una mano di bianco”.

Ancora, è lo specchio dell’isolamento nel quale tutta la cultura di massa non solo la fantascienza oggi si riflette e si crogiola. Ben oltre la cultura dell’individuo qui si evidenzia la macelleria delle storie, delle interiora, anche nei cantori troppo poco inquieti della sconfitta e nei registi del manierismo dell’estetica del fallimento. Tutte patetiche, piccole, tragicomiche vicende interiori a cui non rimane colpevolmente che dedicare canzoni, serie televisive e best seller letterari che nell’isolamento della propria cameretta scorgono solo la distopica o grottesca fine del mondo. Anche qui alla sconfitta è contrapposta la retorica molliccia del non necessario valore del successo. Ancora una condizione generazionale, collettiva e politica misurata e opposta ad una intima e privata.
Sull’altro versante l’utopia oggi si confronta e si oppone a una più realistica visione delle cose: realpolitik si sarebbe detto una volta. Non si tratta neanche di un posizionamento negativo: anzi. L’utopia è l’ambito d’eccellenza della progettazione che in ragione di scelte più urgenti va procrastinata.
Non demonizzata quindi ma disinnescata. E l’utopia dal canto suo non approfitta di questi tempi maledetti. In questo periodo in cui l’ideazione di alternative sociali non ha più vere urgenze se non quelle della difesa dei territori conquistati (che ovviamente di per sé costituisce la vera emergenza che produce la procrastinazione della progettazione) non dovendo gestire nell’immediato i fermenti di un mutamento sociale impellente (che sarebbe necessario ma che non è visibile all’orizzonte come invece lo è stato ad esempio negli anni Settanta), essa potrebbe tornare a dedicarsi alla produzione con cura artigianale di scenari consistenti in cui la fantascienza deve avere un ruolo politico determinante come unica esperta di cose a venire: esperta d’utopia.
Nulla di nuovo quindi: il consueto problema legato all’egemonia e alla costruzione (anche ideologica) di una direzione verso cui muoversi che, con buona pace di Ballard, non è prioritariamente l’interiorità. Non che l’inner space non riguardi l’egemonia ma esso va contemplato come costruzione di scenari nuovi in cui far risiedere nuove forme di soggettività invece di rispecchiarsi narcisisticamente e piagnucolosamente sempre nella stessa delocalizzata in contesti diversi.
Di questa seconda prospettiva parla già Antonio Caronia quando ricorda il primo editoriale della svolta della rivista di fantascienza politica Un’ambigua utopia all’inizio degli anni Ottanta:

Un’ambigua utopia vuole diventare sempre più una tribuna delle diversità, dentro quel percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali, di ridefinizione di linguaggi e di comportamenti che è l’unica speranza per la rifondazione di un nuovo soggetto che, liberando sé stesso, libera tutta l’umanità”.

* La prima versione di questo articolo è stata pubblicata qui