Piena esistenza e morte:
l’incomprensibile relazione

Hermann Broch
L’incognita
Traduzione e introduzione

di Luca Crescenzi
Carbonio, Milano, 2022
pp. 192, € 14,50

Hermann Broch
L’incognita
Traduzione e introduzione

di Luca Crescenzi
Carbonio, Milano, 2022
pp. 192, € 14,50


Hermann Broch: un autore inattuale. Non tanto per i temi che lo hanno ossessionato e che ha argomentato con ostinazione e talora anche pedantemente, quanto per il rigore assertivo e il genuino tormento intellettuale inflittogli dalle questioni su cui si interroga. Motivi che fanno di lui una figura di spicco nella creazione/distruzione del romanzo novecentesco e dei temi storico-filosofici che ne hanno accompagnato le vicende nel corso del secolo scorso.
Un approccio simile ne fa un autore dotato di scarso richiamo di pubblico e di conseguenza snobbato dall’editoria. Sono lontani i tempi in cui uno dei maggiori registi italiani si prendeva il lusso di far leggere alla sua anti-eroina, Valentina, un romanzo di Broch, regalandogli una sorta di sorprendente primo piano. Accade in La Notte (1962) di Michelangelo Antonioni e Valentina è il personaggio interpretato da Monica Vitti impegnato in quella lettura non certo agevole.

Editori lungimiranti
Broch è oggi ignorato ma non del tutto per fortuna, grazie ad alcune eccezioni eccellenti. Una risponde al nome di Adelphi che ha dapprima ripubblicato il lungo saggio Hofmannsthal e il suo tempo, in una nuova traduzione di Ada Vigliani, e successivamente sia il primo romanzo della trilogia I sonnambuli, intitolato 1888 – Pasenow o il romanticismo, che Il racconto della serva Zerlina (anch’essi ritradotti da Vigliani) proveniente da Gli incolpevoli, Romanzo in undici racconti, come recita il sottotitolo, una storia quest’ultima dotata di una propria autonomia. Si tratta in pratica di un monologo, riadattato anche per il teatro (non dall’autore).
La seconda e più recente è Carbonio che ripropone quest’anno il romanzo breve L’incognita, ritradotto da Luca Crescenzi dopo decenni di assenza dal mercato. Si tratta di una delle opere più accessibili del viennese, ideale per prendere confidenza con la sua scrittura meravigliosa quando disegna paesaggi, inquadra particolari, osserva minuziosamente ogni dettaglio, relaziona introspezione, emozione e contesto. È lo stesso Crescenzi a sottolinearlo nell’introduzione:

“Broch è infatti un narratore che raggiunge risultati straordinari nella forma breve, laddove la preoccupazione per la struttura della composizione lascia il posto a una scrittura limpida e diretta in cui si esalta la capacità di raccontare «dall’interno» i suoi personaggi e le vicende in cui sono imprigionati”.

In questi casi, Broch regala passaggi di qualità elevatissima. Altrove, invece, tutto si complica, si fa contorto, si appesantisce, rendendo la vita difficile al lettore tout court, figuriamoci a quello odierno allenato su Twitter, che appare inadatto a proseguire la lettura già dopo la seconda frase subordinata, un periodare di cui Broch è il signore indiscusso. Autore inattuale, critico severo dei suoi tempi e di quelli che millenaristicamente prefigurava, fu una delle voci che si imposero sulle macerie di quella che Karl Kraus definì una “stazione metereologica per la fine del mondo”: Vienna.

Ai tempi in cui Broch smise di dirigere la fabbrica del padre, Joseph, un industriale di origine ebraica, originario della Moravia, dedicandosi agli studi di filosofia, matematica e in seguito alla psicologia delle masse, iniziando al tempo stesso la stesura di opere letterarie, la Città dei Sogni dove era nato e si era formato non esisteva più. In macerie l’impero, suicidi o esuli molti dei suoi figli, molti dei quali incompresi in patria, la Vienna fin de siècle e i suoi splendori esteriori erano un ricordo doloroso, un tormento inestinguibile, covato sotto le macerie della Grande Guerra, all’ombra del nuovo conflitto planetario in fieri. Broch aveva assorbito da quell’ambiente intellettuale il malessere nei confronti della modernità che proprio le menti migliori della sua generazione avevano plasmato in maniera determinante.
È a Vienna che Sigmund Freud, Arnold Schönberg, Adolph Loos, Oskar Kokoschka, Ernst Mach, Ludwig Wittgenstein, Karl Kraus, avevano affondato, con un colpo dietro l’altro, tutte le certezze dell’io, del linguaggio, del suono, dello spazio, della logica, della fisica, della matematica e dei confini che ne separavano i dominii. Non sono le uniche voci a frantumare la conoscenza acquisita, ora traballante, dalla pittura all’epistemologia, dalla triade Gustav Klimt, Oskar Kokoschka, Egon Schiele a quella del Circolo di Vienna e del neopositivismo logico: Rudolf Carnap, Otto Neurath e Moritz Schlick.

Vienna: Passaggio lungo la Ringstrasse. Acquarello di Theo Zasche, 1908.

La Finis Austriae che corre verso la sua apocalisse anche geopolitica, ignara e incosciente, è un mondo che lo stesso Broch descrisse nel citato Hofmannstahl e il suo tempo, scritto nel secondo dopoguerra (1947-1948) negli Usa dove si era trasferito per sfuggire alla barbarie nazista, un saggio a cavallo fra sociologia, filosofia della storia, estetica dedicato al poeta suo contemporaneo, uno di coloro che quella fine l’avevano presagita. La Vienna raccontata da Broch è il centro di un vuoto di valori (Wert-Vakuum) e al tempo stesso l’alveolo di quelle tendenze culturali, politiche, ideologiche e artistiche che avrebbero segnato l’intero Novecento.
Non è certo un aspetto secondario, inoltre, quello militare, il massacro della Grande Guerra. L’impero asburgico era alfine collassato; quel mondo di ieri, per dirla con un altro viennese, Stefan Zweig, avrebbe assunto presto la forma fantasmatica della Kakania musiliana, oltre a diventare oggetto di nostalgia diffusa per quanti si ritrovarono smarriti, privi di centro. Senza questo maestoso scenario su cui si è fondato tutto il pensiero della Krisis novecentesca, è impossibile comprendere l’opera di Broch.

I tempi, l’opera, i temi
È l’alba dell’ascesa hitleriana. Nel 1931 Broch pubblica la succitata trilogia I sonnambuli. Nel 1938, dopo l’Anschluß, mentre stendeva un altro romanzo, pubblicato postumo nel 1953 col titolo Sortilegio, fu arrestato e incarcerato dai nazisti, per poi rifugiarsi negli Stati Uniti. Ne prese la cittadinanza e terminò la scrittura del suo ultimo e definitivo romanzo, La morte di Virgilio. Nel 1950 aveva pubblicato Gli incolpevoli, riprendendo alcune storie scritte negli anni Trenta aggiungendone di nuove dando vita una sola storia organicamente coesa. In parallelo alla produzione letteraria scrisse diversi saggi, poesie e alcuni lavori teatrali. Morì nel 1951 mentre cercava di concludere una terza stesura di Sortilegio.
Broch era ossessionato dall’ordine, dalla perfezione, dal mistero della vita e della morte. Questo trittico (il numero tre a sua volta ne discende come costante ossessiva) delimita il perimetro della sua letteratura e delle sue riflessioni sul mondo, sul destino dell’uomo e sulle sue finalità autentiche. L’ordine si disfa intorno a lui e lo stesso accade ai suoi personaggi, aggrappati finanche a un’uniforme come a una seconda pelle pur di mantenere in vita una parvenza di difesa contro l’irrazionalità dilagante. Esemplare in tal senso è il protagonista del primo romanzo de I sonnambuli, Joachim von Pasenow, a proprio agio nella sua divisa da luogotenente dell’esercito, seppure già la divisa mostri un parziale disfacimento dei valori rispetto a un tempo (il Medioevo) in cui questi erano organici e saldi e l’abito del sacerdote ne incarnasse il carattere divino dunque non umano.

Broch è cosciente dei processi di secolarizzazione e modernizzazione del suo tempo, colpevoli di quella perdita o meglio dissoluzione dei valori a cui assiste. È il tempo del vuoto, anzi dello svuotamento dei significati. In un celebre saggio, Il Kitsch, individuò colpe e colpevoli dell’atteggiamento moderno ragionando di valori artistici: “presa in senso lato l’arte è sempre il ritratto dell’uomo del tempo, e se il Kitsch è menzogna (esso viene spesso, e a ragione, definito così), questa menzogna ricade su colui che ne ha bisogno” (Broch, 1990). La sua ricorrente nostalgia dei tempi passati, quelli della tradizione e dell’ordine sacrale, hanno qui la loro origine. I suoi personaggi sono sempre in attesa di un processo di palingenesi, di distruzione e rigenerazione. “Ogni romanzo, per Broch, è un giudizio universale, o almeno un’assise dinanzi alla quale devono comparire una o più generazioni storiche, in attesa di un solenne verdetto” (Chiusano, 1984).
In buona sostanza, Broch prova a contrastare, vanamente, il “disincantamento del mondo” di weberiana memoria. Come esprimere tutto ciò sul piano letterario? Da un lato fondendo nello svolgersi del discorso narrativo tutte le sfere di ricerca cui si era dedicato (filosofia, matematica, psicologia e religione, prima ebraica, quindi cristiana, poi di nuovo ebraica-chassidica), riecheggiando l’ambizione covata dai filosofi del Circolo di Vienna che “parlavano della possibilità di unificare dapprima le scienze e poi le arti e le scienze attraverso una grammatica comune” (Kandel, 2016).
Dall’altro, Broch mirò a distruggere la forma classica, canonica del romanzo borghese, frantumandola e mescolandone i registri con quelli della poesia e del saggio (soprattutto il trattato Disgregazione dei valori incuneato in diversi capitoli nel terzo romanzo de I sonnambuli, Huguenau o il realismo) per esprimere anche sul piano formale la dissoluzione del mondo di ieri e la necessità di esprimere ciò che è inesprimibile tramite la parola al tempo stesso ritenuta inadeguata allo scopo, come si leggerà in seguito ne La morte di Virgilio:

“[…] la parola si librava al di sopra del tutto, si librava al di sopra del nulla, al di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile; ed egli, travolto e al tempo stesso avvolto dal fragore della parola, si librava con lei; tuttavia, quanto più quel fragore lo avvolgeva, quanto più egli penetrava nel suono fluttuante che Io penetrava, tanto più irraggiungibile e tanto più grande, tanto più grave e tanto più evanescente si fece la parola, un mare sospeso, un fuoco sospeso, con la pesantezza del mare, con la leggerezza del mare, e tuttavia sempre parola” (Broch, 2010).

Il romanzo-saggio brochiano con tutte le sue contraddizioni, meraviglie e zavorre si prese una pausa parziale con L’incognita posta in un punto mediano tra la pubblicazione de I sonnambuli e la prima versione di Sortilegio. Paradossalmente, come nota Crescenzi è a oggi il lavoro letterario meno frequentato di Broch e la critica nei suoi confronti è stata “scarsissima e quasi sempre sprezzante – e solo in tempi più recenti il romanzo ha trovato qualche lode presso quegli studiosi che gli riconoscono il merito di mettere poeticamente in luce, meglio e più chiaramente che altrove, le idee filosofiche dell’autore”. Colpa dello stesso Broch, insoddisfatto dell’esito raggiunto, critico nei confronti di un lavoro che avrebbe meritato a suo dire altro e più ampio svolgimento, portato a termine e pubblicato soltanto per denaro (“molto”, confessò). Insomma, per dirla con le sue parole: “un fallimento”, rispettando una volta di più la regola aurea che suggerisce di non fidarsi mai del tutto del giudizio di un autore sul proprio lavoro.
Tutto nel romanzo ruota intorno al problema della conoscenza (fonte di ordine, l’anelito brochiano), provando a illustrare come un intellettuale proveniente da una scienza particolare possa giungere alla soluzione dei massimi problemi sovra-razionali come l’amore, la morte e il rapporto con il prossimo. Chiamato a questo compito è Richard Hieck giovane matematico impiegato all’osservatorio astronomico, che alla conoscenza aspira dedicandogli tutta la propria vita. È l’assise di cui parlò Chiusano:

“Ciò che sempre colpiva Richard nel profondo era la sproporzione fra il fare e il fatto. Fiumi di chiarezza si riversavano nel suo encefalo, si diramavano attraverso i nervi e le vene, rendevano lieve il sangue e conferivano al suo sguardo interiore la capacità di vedere lontano, ma il risultato di quel magnifico dispendio era tuttalpiù un teorema scientifico di modesta portata, qualcosa che si poteva definire un principio matematico e che quasi non valeva la pena di pubblicare, spesso anzi era solo la soluzione di un compitino, necessario nel suo contesto, ma privo in sé di significato. E anche se le più audaci speranze della sua vita fossero diventate realtà, se gli fosse riuscito di inventare una nuova disciplina matematica, come il calcolo infinitesimale di Leibniz o la teoria degli insiemi di Cantor, se gli fosse riuscito di svelare il miracolo dell’analisi dimensionale, di scoprire una logica priva di assiomi, che importanza avrebbe mai avuto tutto questo: il risultato ottenuto sarebbe stato sempre una parte minima e insignificante dell’inespugnabile montagna della conoscenza, una minuscola componente dell’esperienza intuitiva e dell’osservazione cosmica dell’infinito, un frammento piccolo e descrivibile di ciò che resta eternamente indescrivibile”.

Richard è uno dei cinque figli di Katharine, vedova di “un uomo notturno capitato per caso nel mondo diurno”. Richard ha due fratelli e due sorelle: due vivono lontano, Rudolf in Sudamerica ed Emilie a Berlino. Assieme a lui e sua madre convivono Susanne, preda di un fervore religioso che ha del patologico e il più giovane Otto. Predisposte le sue pedine e altrettanti deuteragonisti, Broch lascia che si muovano sulla scacchiera del mondo nel tentativo vano già in partenza di approdare alla conoscenza:

“Ogni conoscenza proviene dal grembo materno della notte, da esso scaturisce ogni realtà del mondo, tutto quel che è chiaro si prepara nell’oscurità”

Così riflette Richard e sarà necessario un sacrificio (secondo lo schema prediletto da Broch, “la via mistica nelle sue tre tappe immutabili: discesa, ascesa e sacrificio, sacrificio transumanante, il cui premio è l’indiarsi — sia pure soltanto momentaneo — dell’anima”; cfr. Mittner, 1975), per giungere a un’epifania, seppur breve. Il confronto tra Richard e il cadavere del fratello Otto all’obitorio è di una purezza abbacinante; la cruda istantanea dipinta, è il caso di dirlo, da Broch mostra se ancora fosse necessario la purezza della sua scrittura. Tutta la vicenda, compresi i profili meno approfonditi degli altri personaggi (le relazioni con le donne e i colleghi di Richard, i suoi familiari e l’amico di Otto) è costruita con una leggerezza insolita per Broch, al contempo sempre minuzioso, come nei romanzi maggiori, nel descrivere dettagliatamente il gioco di corrispondenze sussistente tra esterno e mondo interiore, tra segni, sensi e avvenimenti, emanazioni del mondo e riflessioni. Minuzioso paesaggista, Broch, come in Sortilegio che iniziò all’epoca, fa scandire la narrazione dal succedersi delle stagioni e certe descrizioni sono davvero acquerelli:

“Lo specchio scuro dello stagno, pressoché immobile e dai riflessi un po’ oleosi – che quando pioveva sembrava un setaccio di piombo punteggiato – era circondato da umidi prati su cui crescevano fiori di cardo e calte palustri. Nei pressi della riva meridionale si trovava una scarpata alta circa dieci metri, anch’essa fittamente coperta da una vegetazione a cui l’umidità conferiva un verde così intenso da sfumare in un metallico colore azzurro-acciaio. I mucchi di terra sollevati dalle talpe, nell’erba, erano morbidi e vellutati. Sul declivio crescevano alcuni noccioli.”

Al tempo stesso, si conferma scrutatore implacabile dei limiti umani, portando in scena creature sorrette da un afflato lirico (fu poeta suo malgrado, disse di lui l’amica Hannah Arendt) musicale e realista in un equilibrio mirabile, come in questa osservazione notturna di Richard:

“l’immenso spazio compreso fra la pianura grigio-perlacea e il vellutato guscio delle stelle al di sopra di essa era ricolmo, strabordante di primavera che penetrava a ogni respiro nel corpo di Richard e ne veniva espulsa mentre mite e ampia fluttuava la vita, fluttuavano le stelle su in alto e giù in basso. Richard, con le scarpe ai piedi e i reggicalze intorno ai grossi polpacci pelosi, sedeva proteso in avanti e osservava la valle che ondeggiava dinanzi a lui nella fluttuante oscurità da cui affioravano le stelle. Intuiva in sé la notte da cui veniva e tutte le notti che aveva vissuto e che giacevano dinanzi alla sua vita cosciente”.

È un passo che chiarisce perché L’incognita non fu affatto un fallimento, ma consentì a Broch di scrivere una storia scorrevolissima (si parlò anche di un adattamento cinematografico) senza abbandonare nessuno dei temi che gli stavano a cuore, ad alcuni dei quali si è sopra accennato, tranne forse quello della disarticolazione del romanzo nella sua intima struttura con la complicità di pedanti riflessioni. In questo mancò il bersaglio, per fortuna.

Letture
  • Hermann Broch, Sortilegio, Rusconi, Milano, 1982.
  • Hermann Broch, Il Kitsch, Einaudi, Torino, 1990.
  • Hermann Broch, La morte di Virgilio, Feltrinelli, Milano, 2010.
  • Hermann Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, Adelphi, Milano, 2010.
  • Hermann Broch, Il racconto della serva Zerlina, Adelphi, Milano, 2016.
  • Hermann Broch, I sonnambuli. 1888 – Pasenow o il romanticismo, Adelphi, Milano, 2020.
  • Italo Alighiero Chiusano, Literatur, Rusconi, Milano, 1984.
  • Eric Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Raffaello Cortina, Milano, 2016.
  • Ladislao Mittner, La letteratura tedesca del Novecento, Einaudi, Torino, 1975.