Due gentlemen in tournée:
Hugh Hopper e Alan Gowen

Alan Gowen & Hugh Hopper
with Nigel Morris
Bracknell – Bresse Improvisations
Cuneiform, 2021
(solo digital download)
Formazione: Alan Gowen (tastiere),
Hugh Hopper (basso elettrico,
tape loops),
Nigel Morris (batteria, percussioni).

Alan Gowen & Hugh Hopper
with Nigel Morris
Bracknell – Bresse Improvisations
Cuneiform, 2021
(solo digital download)
Formazione: Alan Gowen (tastiere),
Hugh Hopper (basso elettrico,
tape loops),
Nigel Morris (batteria, percussioni).


Steve Lake, noto critico del Melody Maker, che nel 1973 inventò di sana pianta un movimento musicale inesistente che prenderà il nome di “scena di Canterbury”, fu uno dei pochi a intervistarli. Non tanto perché fosse difficile farlo, quanto perché non erano certo un gruppo di tendenza. Una band confinata a suonare tra le pareti di uno studio casalingo, quando andava bene, e solo un concerto all’attivo nel 1974 (anno dell’intervista). Per non parlare del loro look che, come scriveva lo stesso Lake, non faceva assolutamente immaginare che i quattro tipi che aveva di fronte, Alan Gowen, Mike Travis, Phil Lee e Steve Cook, fossero dei musicisti. E tanto meno dei musicisti rock. “Siamo il gruppo più orribile del pianeta”, ammetteva candidamente, nel corso dell’intervista, lo stesso Travis, il batterista del gruppo.
La verità è che i Gilgamesh curavano effettivamente davvero poco il loro look, ma la loro musica, forse per contrasto, era tutta sostanza. Ne parliamo perché recentemente la Cuneiform di Steve Feigenbaum ha ripubblicato in formato digitale Bracknell – Bresse Improvisations, album che documenta due concerti risalenti al 1978 e al 1980 di Alan Gowen, fondatore con Travis dei Gilgamesh, in combinazione con Hugh Hopper e il batterista Nigel Morris, musicista piuttosto attivo sulla scena canterburyana fino a metà anni Ottanta. Quanto a Hopper, lui è forse, come sostiene il super esperto Aymeric Leroy sul sito Calyx, la figura centrale dell’intera scena di Canterbury, colui che ha attraversato per il lungo e per il largo tutto l’universo musicale che prende il nome dalla città del Kent. Il suo primo vero gruppo furono i Wilde Flowers (1964-66) con il fratello Brian, Richard Sinclair, Robert Wyatt e Kevin Ayers, ma quello con cui ha lasciato un’impronta indelebile come compositore e bassista (disegnando linee melodiche memorabili con il suo fuzz bass) sono i Soft Machine. Dal 1969 al 1973, vive da protagonista quella che è considerata la stagione d’oro del gruppo. In seguito, crea parallelamente a una carriera solistica (inaugurata nel 1973 con 1984, album che lo consacra anche come sperimentatore alle prese con distorsori, phaser, wha-wha e tape loops), una fitta ragnatela di collaborazioni e progetti.

Raccontarli tutti è impossibile, ma è doveroso citarne alcuni: Rock Bottom di Robert Wyatt, Cruel But Fair (con Elton Dean, Keith Tippett e Joe Gallivan), Steam Radio Tapes di Gary Windo, la parentesi jazz europea con Carla Bley, gli In Cahoots di Phil Miller, gli Equip’Out di Pip Pyle, il “periodo olandese” con gli Hopper Goes Dutch, la collaborazione transalpina con il chitarrista Patrice Meyer, Mashu con Mark Hewins e Shyamal Maitra, il progetto Oh Moscow di Lindsay Cooper, gli incroci statunitensi con Kramer, Caveman Hughscore, Bone e, sul finire della sua carriera (Hopper è scomparso il 7 giugno del 2009), il quartetto Clear Frame, i Soft Machine Legacy, i Brainville3 (con Daevid Allen e Chris Cutler), il Delta Saxophone Quartet e il duo Humi con la cantante-tastierista di origine giapponese Yumi Hara Cawkwell. Iperprolifico, dunque, se si eccettua una parentesi di riflessione tra il 1978 e il 1984, e abile nel mostrare in quasi ogni frangente una lucidità fuori del comune nel voler stare al passo con i tempi e dialogare con partner più diversi.
Il lavoro riproposto dalla Cuneiform possiede argomenti validi per tornare ad ascoltarlo, ma soprattutto conferma l’estro di Gowen, compositore, tastierista e autore di un personalissimo e poetico approccio a una sorta di jazz rock crepuscolare di matrice britannica a volte vicino, per sensibilità e mood, a certe cose di Steve Miller, altro forgotten hero della scena di Canterbury.

“Con la sua tecnica e il suo talento – scriveva Hopper nelle note di copertina che accompagnavano l’album in questione stampato originariamente dalla Voiceprint nel 1996 – avrebbe potuto diventare uno di quei tastieristi che suonano in stadi giganteschi e realizzano ambiziosi e gotici concept album. Questo se fosse stata una persona più sfrontata ed estroversa. Invece Alan passava la maggior parte del suo tempo nel suo soggiorno di casa a Tooting circondato da tastiere, 33 giri, risme di carta da spartito, piccole campanelle e strumenti a percussioni, clacson e giocattoli a molla. E stava lì seduto a comporre e a suonare la sua musica, creando meraviglie con mini moog e altre tastiere analogiche che, a quei tempi, erano tutt’altro che facili da utilizzare”.

Gowen scompare nel maggio 1981 a soli 33 anni a causa di una leucemia fulminante e i suoi ex compagni di avventura si ritrovano l’8 giugno dello stesso anno per l’ultima volta insieme al famoso 100 Club, al numero 100 di Oxford Street a Londra, per un concerto celebrativo. Un addio mesto e, in fondo, in linea con l’understatement che ha caratterizzato tutta la sua carriera. Come documenta sempre l’onniscente Aymeric Leroy nel suo blog Legends In Their Own Lunchtime – Close Encounters With The Canterbury Scene, il concerto non solo non venne recensito da nessuno, ma, a oggi, non esiste alcuna registrazione dell’evento. Peccato, perché oltre a Rapid Eye Movement, National Health, Elton Dean e altri, sul palco fecero la loro apparizione gli ex Gilgamesh Phil Lee, Trevor Tomkins e Jeff Clyne con l’assistenza di Jimmy Hastings ai fiati. Sarebbe stato, se documentato, l’ultimo prezioso tassello di un percorso musicale degno di essere rivalutato. Sì perché, a quarant’anni suonati dalla morte del musicista e compositore britannico, pochi sono i musicisti che si sono presi la briga di studiare e risuonare le sue composizioni. Se escludiamo i compagni d’avventura dei National Health che gli dedicarono nel 1982 un intero album, D.S. Al Coda, con brani tratti del suo repertorio risalenti anche ai tempi dei Gilgamesh come Arriving Twice e TNTFX, non si ha memoria di altri musicisti, fuori dal circuito dei sodali dei tempi andati, che abbiano affrontato le sue composizioni. Fanno eccezione, alcuni musicisti di casa nostra. A partire da Massimo Giuntoli che, in tempi non sospetti, usava concludere il suo recital pianistico Pianoformance suonando una cover di Arriving Twice, tra i brani geniali del repertorio goweniano tanto da essere ripreso e riarrangiato anche dall’Artchiphel Orchestra di Ferdinando Faraò nel primo album del collettivo milanese, Never Odd Or Even del 2012, insieme a un’altra composizione del tastierista, Shining Water.
Per dovere di completezza, non si può non citare anche la magica versione di Arriving Twice della vibrafonista Clara Zucchetti che si può ascoltare su YouTube. Fine. Pochi, inoltre, anche i critici che lo hanno ricordato. Fa eccezione, lo scrittore e mancato musicista Jonathan Coe. “Gowen nella sua breve vita – scriveva nelle note di copertina dell’album citato dell’Artchipel Orchestra – aveva registrato solo una manciata di album, ma pieni di composizioni meravigliose, armonicamente ricche, melodicamente inventive e imprevedibili, e pervase da una specie di malinconia lirica che per qualche motivo risulta (soprattutto a orecchie straniere) “tipicamente inglese”.

Ne sono un tipico esempio i due album dei suoi Gilgamesh, la band “orribile” di cui sopra, dove, tra l’altro, dal 1973 al 1975, transitano personaggi di non poco peso come Alan Wakeman, Richard Sinclair, Mont Campbell, Pete Lemer, Jeff Clyne e Dave Stewart. E proprio con quest’ultimo, Gowen intreccia una fruttuosa collaborazione tanto da arrivare a scrivere una lunga composizione di circa quaranta minuti per un doppio – quartetto formato da Gilgamesh e Hatfield And The North, band del circuito Virgin dove, oltre a Stewart, militavano Phil Miller, Pip Pyle e Richard Sinclair, che venne eseguita solo in due concerti a Leeds e a Londra nel 1973. Una prova generale di quello che sarebbe stato due anni più tardi il gruppo National Health. Per i Gilgamesh e per Gowen quello è forse il momento di maggior esposizione mediatica. L’omonimo primo album della band uscito nel 1975 su Caroline (brand di “primo prezzo” della Virgin), co-prodotto da Dave Stewart, è un flop commerciale. Ma è un documento che ancora oggi sorprende per la sua innegabile originalità, “suona” come nessun altro disco di jazz rock di quel periodo, e per la sua complessità “accessibile”. Nel frattempo Gowen lavora con Stewart all’idea creare una “rock orchestra” che avrebbe dovuto includere due tastieristi, due chitarristi, tre vocalist femminili e una sezione ritmica, in pratica un nonetto. I due ci arrivano vicino proprio con i neonati National Health nel 1975, aggregando un sestetto composto da Phil Miller, Phil Lee (i chitarristi di Hatfield And The North e Gilgamesh), Mont Campbell (ex bassista degli Egg), Bill Bruford (batterista e compositore, già con Yes e King Crimson) e Ann Parsons (una delle tre coriste delle The Northettes).
Purtroppo, questa formazione ha breve vita. Se ne vanno Campbell, Bruford, Lee e arrivano Neil Murray (ex Gilgamesh), Steve Hillage e Pip Pyle, E, alla fine, anche Gowen, si congeda e quando nel 1978 uscirà il primo omonimo album del gruppo, ormai ridotto a un quartetto con Stewart, Miller, Murray e Pyle, il nome di Gowen compare nei titoli come un semplice gregario nonostante firmi due (Brujo e Elephants) dei quattro brani del disco. D’altronde, i National Health avevano nel frattempo cambiato pelle con un leader, Stewart, deciso a lasciare nessuno spazio all’improvvisazione e alle funanboliche divagazioni jazz al mini moog tanto care a Gowen.

Nel 1979, Gowen avrà un ritorno di fiamma con i National Health, ormai orfani di Stewart stanco di non battere chiodo a livello di concerti, e sarà protagonista dell’ultima stagione, non memorabile, di una band, priva di smalto e condannata a estenuanti trasferte e a tour economicamente fallimentari. Chiuso il sodalizio con Stewart, Gowen fa un altro incontro decisivo, quello con Hopper. Avviene nel 1978, quando il bassista è chiamato, durante le registrazioni del secondo album dei Gilgamesh, Another Fine Tune You’ve Got Me Into, a rimpiazzare il fuoriuscito Neil Murray. Al tempo, i Gilgamesh erano già finiti come gruppo attivo e Gowen aveva riformato la band con l’ottimo Phil Lee alla chitarra elettrica e Mike Travis alla batteria solo con l’intento di pubblicare del materiale rimasto nei cassetti. Ebbene, proprio con Hopper, Gowen riesce a liberare la sua creatività e a scrivere probabilmente quelle che sono le pagine migliori della sua brevissima carriera. A partire dai Soft Head/Soft Heap, dove i due, affiancati da Elton Dean e Dave Sheen, creano una musica finalmente “liberata” in cui i temi elaborati, soffici e progressivi di Gowen combaciano perfettamente con il lirismo del saxello di Dean e il sinuoso e incalzante basso elettrico di Hopper.
Cinque composizioni di Bracknell – Bresse Improvisations risalgono proprio a quel periodo, maggio 1978, quando i due, partiti per la Francia per un tour di tre settimane con i Soft Heap, rimangono una settimana bloccati nella campagna francese a causa di una cancellazione di date. Dean e Sheen rientrano temporaneamente in Inghilterra, mentre Gowen e Hopper decidono di restare e finiscono in uno sperduto paesino della Borgogna, Bresse-sur-Grosne dove, la Provvidenza vuole, incontrano l’ex attore Jacky Barbier, appassionato di jazz e patron del mitico club A l’Ouest de la Grosne, location di culto frequentata dai più importanti gruppi dell’underground transalpino come Zao, Art Zoyd, Surya, Édition Spéciale, David Rose, Neffesh Music, Univers Zéro e dove, in seguito, andranno a suonare diverse glorie del cosmo canterburiano.

Da quell’incontro nasce una grande amicizia, che Barbier racconterà nel nostalgico libro A l’Ouest de la Grosne, tanto che il club diventerà il quartier generale dei due musicisti che approfittando della pausa forzata daranno vita a un concerto di rara intensità e bellezza documentato proprio dai nastri di Bracknell – Bresse Improvisations (la raccolta contiene anche brani provenienti da un concerto del duo insieme al percussionista Nigel Morris a Bracknell, nel Berkshire in Inghilterra, nel settembre 1980). E, sempre tra le pareti del club dell’ex attore francese i Soft Head registreranno il loro primo album, il superbo Rogue Element. I due si rincontreranno due anni dopo, nel 1980, nello studio casalingo di Gowen in Trinity Road a Tooting per registrare Two Rainbows Daily, l’album che, più di ogni altro lavoro del tastierista, riesce a trasmetterne l’anima. Un’anima sempre sospesa tra struggente inquietudine, dolce malinconia, oscuri presentimenti e improvvisi sprazzi di serenità e quiete.
In Two Rainbows Daily il duo ritrova la splendida intesa del concerto di Bresse-sur-Grosne con il polivalente basso elettrico di Hopper perfettamente inserito nelle architetture sonore mai banali di Gowen. Poi, più nulla, se non l’ultimo capitolo, Before A Word Is Said, registrato dal tastierista poche settimane prima di morire, insieme agli amici Phil Miller, Trevor Tomkins e Richard Sinclair. Giunge, dunque, a proposito la ristampa della Cuneiform. Contribuisce a tenere vivo il ricordo di un artista scomparso troppo presto e, forse, ad aprire la strada a nuove iniziative di tributo. Nella speranza che, primo o poi, qualcos’altro riemerga dall’oblio.

Ascolti
  • Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra featuring Phil Miller, Never Odd or Even, Music Center, 2012.
  • Gilgamesh, Arriving Twice, Cuneiform, 2000.
  • Gilgamesh, Another Fine Tune You’ve Got Me Into, Esoteric, 2009.
  • Soft Head, Rogue Element, Ogun, 1996.
  • Hugh Hopper & Alan Gowen, Two Rainbows Daily, Cuneiform, 1995.
  • National Health, D.S. Al Coda, Voiceprint, 1995.
Letture
  • Jacky Barbier, A l’Ouest de la Grosne, Editions de l’Armançon, 2007.
  • Steve Lake, Gilgamesh: we’re ugly in Melody Maker, aprile 1974.