Come le suona a tutti…
la banda di Birmingham!

Steven Knight
(ideazione e soggetto)
Peaky Blinders (UK, 2013–)
Stagioni: 4 (in corso)
Episodi: 24
Produzione: BBC Two,
Caryn Mandabach Production,
Tiger Aspect Production
Rete/Sito: BBC Two/Netflix

Steven Knight
(ideazione e soggetto)
Peaky Blinders (UK, 2013–)
Stagioni: 4 (in corso)
Episodi: 24
Produzione: BBC Two,
Caryn Mandabach Production,
Tiger Aspect Production
Rete/Sito: BBC Two/Netflix


Iniziamo dalla realtà storica. Nel 1890 i Peaky Blinders sono una banda criminale formata per lo più da giovani violenti e facinorosi. Sono per lo più ragazzini provenienti da Small Heath, un quartiere annerito dai fumi delle fabbriche, annacquato e limaccioso, povero e sovrappopolato, uno slum misero e fatiscente dove la legge non arriva e quindi sono le botte e l’aggressività a essere l’unica soluzione. Non hanno un rasoio nascosto nel cappello con cui sferrano letali colpi, poiché a quei tempi una lama di rasoio era un lusso che non tutti potevano permettersi, ma ricorrono a un frequente utilizzo di armi improvvisate come attizzatoi, forchette e coltelli. Con l’arresto di alcuni, se non molti, degli appartenenti i Peaky Blinders spariscono così come sono nati.
Agli inizi del Novecento compare invece la banda dei Brummagem Boys: la pietra su cui poi Billy Kimber fonderà, negli anni Venti, la Birmingham Gang. Iniziata come una banda di pickpockets, la Birmingham Gang estende il controllo e il potere fino alle corse di cavalli di Londra, scontrandosi con Charles “Derby” Sabini, mafioso italiano e indiscusso padrone delle piste rendendo in breve Billy Kimber uno dei più temuti gangster d’Europa.

La serie televisiva
Anni Venti del Novecento, Thomas Shelby è l’uomo dietro la crescente espansione dei Peaky Blinders che, dalle stradine fangose di Birmingham, si rialzano per conquistare prima il potere della città strappandola a Billy Kimber e poi, nel corso delle stagioni, affrontano Charles Sabini rubandogli la corona di Re delle Corse, si alleano con gli Ebrei di Alfie (un impressionante e maestoso Tom Hardy), lavorano segretamente per la decaduta nobiltà russa e subiscono pesanti perdite dalla vendetta italoamericana di Luca Changretta (un incomprensibile e macchiettistico Adrien Brody che raccoglie tutto quello che un italiano emigrato negli States potrebbe fare negli anni Venti comprensivo di mano a carciofo e stuzzicadenti in bocca) per arrivare infine nelle cabine elettorali di Birmingham.
I Peaky Blinders, o meglio, Thomas Shelby fa affari con tutti: da zingaro truccatore di corse e amante dei cavalli a dipendente segreto di Winston Churchill, da astuto bootlegger d’Oltreoceano a indispensabile uomo politico e rispettabile uomo d’affari e, nel giro di quattro stagioni, la lametta nascosta nel cappello diventa un revolver e poi un voto su una schedina elettorale, il tutto con grande dispendio di sangue, lacrime e sofferenza.

La mitologia del gangster tra attrazione e repulsione
La finzione va quindi oltre la realtà e la realtà si lascia trasportare dalla finzione verso un immaginario collettivo, pulp e pop, che si arricchisce di nuovi personaggi e nuove caricature. Poco importa (cfr. Vittorini, 2017) che i veri Peaky Blinders fossero solo ragazzini violenti e che, probabilmente, il creatore della serie Steven Knight avesse tratto più ispirazione dalle vicende di Billy Kimber (trasformato poi nell’ostacolo d’abbattere della prima stagione), quello che interessa è lo stimolo cognitivo che porta con sé: Birmingham, gli anni tra le due Grandi Guerre, i reduci della Prima e i movimenti socialisti nascenti, il Proibizionismo americano e la terra promessa per i distillatori europei, la crescita di una famiglia e l’elevazione dell’uomo a Imperatore.
Tutti questi fattori e tutti questi elementi stimolano l’immaginario e si scompongono e ricompongono per creare qualcosa di nuovo e qualcosa di conosciuto, qualcosa di già visto ma ancora di sconosciuto, qualcosa di familiare ma sempre straniero e straniante: il gangster.

La realtà si presenta meno interessante della finzione, soprattutto quando si parla di questa figura a tratti mitica. Si può affermare, inoltre, che esistono dei miti a Bassa Intensità e sono quei miti in cui nessuno pensa di avere fede, ma che rimbalzano da un testo ad un altro creando una rete di rimandi culturali e mediatici, per esempio i vampiri o gli zombie, il western o, per l’appunto, i gangster (cfr. Ortoleva, 2009). Sono mitologie che non hanno valore assoluto, non sono Dio o la Religione, ma sono artefici culturali creati per rispondere a richieste culturali e psicologiche che rimbalzano tra i differenti media una volta sotto pellicola cinematografica, un’altra sotto fumetto, un’altra ancora come canzone o libro o racconto orale.
Il gangster condensa su di sé una forte dose di violenza ed erotismo, unisce la mitologia del divo morto giovane a quella della libertà, del self-made man e del moderno difficult man, del Prometheus di Mary Shelley.
Tuttavia, se le sue gesta possono sembrare una rivalsa sulla società che opprime, nella realtà è indubbio che il suo operato è malvagio, negativo, dissoluto, fatto di alcool, droga, prostituzione, omicidi, rapine e violenza, basti pensare a nomi come Jimmy Diamond, Johnny Torrio, Al Capone, uomini passati alla storia come grandi gangster e uomini del male.
È giusto allora innalzare a “miti” personaggi così abietti e criminali? Cosa succede se si idolatrano assassini e rapinatori? Sono veramente questi i miti di cui si vuole parlare?
Inutile ricordare dibattiti inutili e vuoti sulle responsabilità della serialità televisiva, su Gomorra e sui tentativi di emulazione, il male sta negli occhi di chi guarda, anche i vampiri e gli zombi sono miti, ma non per questo la gente succhia il sangue o mangia cervelli (o almeno non tutti). I miti di cui si vuole parlare sono quelli che colpiscono l’immaginario collettivo, quelli che vincono negli scontri di entertainment.

Nella cultura seriale basti pensare ai protagonisti di Broadwalk Empire o ai motociclisti di Sons of Anarchy, ai mafiosi con gli attacchi di panico dei Sopranos o alla rivalsa da malato terminale di Breaking Bad per comprendere che il cattivo, il criminale, il gangster vince. E vince anche quando perde, perché il bello di essere i cattivi è che si può avere il lusso di perdere e rimanere comunque affascinanti.
In una cultura e in una società che stimano e venerano il vincente (in quale società non si fa?) il gangster riesce a raccogliere rispetto e fascinazione sempre, sia quando vince sia quando perde tutto. Hans Magnus Enzensberger nel capitolo Chicago-Ballade afferma che “il personaggio storico [del gangster] è insignificante: un uomo del tutto comune, avido, abile e disgustoso” (Enzensberger, 1979), ma è nella finzione che la realtà diventa accattivante.
Gli anni Venti si prestano a essere terreno fertile per i criminali: la Lex Volstead del 1920, la legge sul Proibizionismo non fa che dare le chiavi delle grandi città in mano a loro e oltre l’oceano chi è invischiato con affari negli Stati Uniti non può che festeggiare e mentre tutti stentano ad arrivare a fine settimana il gangster fa soldi e diventa potente, diventa uomo da rispettare e imitare poiché è colui che ce l’ha fatta.
Negli slums di Birmingham le fabbriche buttano fuori fumo infernale dalle alte ciminiere e mentre gli orrori della Prima Guerra Mondiale attanagliano ancora i sogni degli uomini, delle donne e dei bambini, Thomas Shelby diventa eroe tragico, in quanto rappresentante della lotta del singolo contro l’umanità, contro una società soffocante che relega il povero a essere solo povero e criminale.

“This place is under new management… by order of Peaky Blinders”
Thomas Shelby già dalla prima stagione non è un ladruncolo o un truffatore qualunque, lui è l’erede di una dinastia di uomini che sputano in faccia al loro destino e lottano per arrivare a quello che si meritano: dignità e rispetto. E lo fa con la pistola in pugno, con i proiettili e la polvere da sparo si prepara a scalare le vette della gerarchia.
Thomas Shelby e i Peaky Blinders non hanno paura di sporcarsi le mani di fango, grasso e sangue per continuare la loro scalata sociale, lottano per allontanarsi dalle loro origini criminali, spietate e avide, comprano ville in collina o nei quartieri eleganti di Birmingham, si vestono da uomini d’affari, ma comunque, nonostante tutto, rimangono indissolubilmente legati alle loro radici. Lasciare le strade fangose di Birmingham, lasciare quel malefico posto di Small Heath è la ragione primaria e motore di tutto, tuttavia quando il pericolo incombe e là che ci si rifugia: dove tutto è nato, dove tutto è cominciato.
Nel suo saggio Pupe, macchine e pistole John Gabre evidenzia il fatto che la città è una chimera di cemento e asfalto da domare: “funge da background al gangster ed è il simbolo della desolazione che lo ha prodotto, nonché il prolungamento della sua stessa brutalità” (Gabre, 1976). Il gangster, Thomas Shelby, è parte integrante della città di Birmingham, egli si schiera dalla parte degli indifesi, delle madri senza marito, della povera gente. Egli protegge la sua famiglia, la sua banda, la sua città. Il gangster Shelby è padre-padrone, è paladino e orco, è protettore e magnaccia della sua città.

Bisogna che tutto cambi, affinché nulla cambi
Armi, potere, old ladies, bande, macchine, alcool, i gangster sono tutti uguali che siano motociclisti della California o che siano picchiatori da pub inglesi, essi rappresentano quel fascino mitopoietico di cui la serialità televisiva si nutre e che accalappia gli spettatori: i bad guys.
I cattivi ragazzi sono la spina dorsale dei drama, sono le centinaia di parole spese nei libri di saggistica della critica della televisione, sono la ragione per cui ci si abbona a Netflix, Amazon Prime o Sky, sono il pepe sulla farinata della televisione contemporanea, sono l’aggancio per una serie di successo.

Ciro l’Immortale, Thomas Shelby, Jax Teller, Walter Heisenberg White sono il fascino della mitologia cattiva, sadica e malata che fa innalzare a icone popolari personaggi e atteggiamenti riprovevoli, mitologia che lo spettatore riesce a sopportare e apprezzare perché circoscritta a storie in cui si legge già l’epitaffio, in cui i personaggi entrano carichi già del loro tragico destino sulle spalle, perché in fondo si sa che la fine del gangster è quello di morire “morto ammazzato”. E se per Thomas Shelby e i Peaky “Fuxxking” Blinders il destino non è ancora stato scritto e si scoprirà solo nella prossima stagione, per tutti gli altri non è spoiler dire che, alla fine, almeno nelle favole, i cattivi perdono sempre.
Se ancora non si è certi di guardare Peaky Blinders fatevi convincere dalla colonna sonora, magistrale e d’effetto. Un punto in più per un period drama degno di nota, diretto come un film, con una fotografia e una ricostruzione storica eccezionale (nei limiti, come già visto, della Storia) e con un cast di una bravura immensa.
Violenza, alcool e fumo in abbondanza che mettono quasi a disagio il fegato e i polmoni, dialetti incomprensibili e una storia che va da sé, tutti elementi degni di una grande serie televisiva.
Per tutto il resto ci sono le repliche di 7th Heaven.

Letture
  • Hans Magnus Enzensberger, Politica e gangsterismo: quattro saggi su criminalità comune e strutture di potere, dalla Chicago degli anni ’20 alla Roma degli anni ’50, Savelli, Roma, 1979.
  • John Gabre, Pupe, macchine e pistole. Il gangster: da Piccolo Cesare a Il Padrino, Milano Libri Edizioni, Milano, 1976.
  • Peppino Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Il Saggiatore, Milano, 2009.
  • Robert Warshow, The Gangster as Tragic Hero, Doubleday, New York, 1948.