Culturale, la rivoluzione
che resiste nel mondo arabo

Chiara Comito, Silvia Moresi (a cura di),
Arabpop.
Arte e letteratura in rivolta
dai paesi arabi
Mimesis, Milano-Udine, 2020

pp. 224, € 18,00

Chiara Comito, Silvia Moresi (a cura di),
Arabpop.
Arte e letteratura in rivolta
dai paesi arabi
Mimesis, Milano-Udine, 2020

pp. 224, € 18,00


A quasi dieci anni da quando Mohamed Bouazizi si diede fuoco in Tunisia, inaugurando un ciclo di rivolte che poi si sarebbe diffuso in diversi paesi arabi, è stato pubblicato in Italia un testo particolarmente originale e innovativo, che torna su quei fatti a partire dalla prospettiva inedita della produzione artistica e culturale che ha preceduto, accompagnato e seguito le proteste e le rivoluzioni arabe. Si tratta di Arabpop. Arte e letteratura in rivolta dai paesi arabi, curato da Chiara Comito e Silvia Moresi per Mimesis (2020).
Il testo sembra quasi una mappa, capace di disegnare processi e orientare nei complessi rapporti tra cultura, politica, critica sociale e vita quotidiana nei paesi arabi dell’ultimo decennio. O meglio, è un insieme di mappe che possono essere lette anche singolarmente: ogni capitolo coglie i recenti sviluppi, in relazione alla tradizione da un lato e al mutato contesto socio-politico dall’altro, di una specifica arte: il romanzo (Chiara Comito), le arti visive (Catherine Cornet), la musica (Fernanda Fischione), il fumetto (Anna Gabai), la street art (Luce Lacquaniti), la poesia (Silvia Moresi), le arti performative (Anna Serlenga) e il cinema (Olga Solombrino).
Indubbio merito del volume è la capacità delle otto autrici di mettere a disposizione di un pubblico di non addetti ai lavori un sapere altamente specialistico. Del resto, come spiegano le curatrici nell’introduzione, la scelta di intitolare l’insieme di questi contributi Arabpop ha un duplice significato: “pop” sta tanto per “famoso”, e dunque popolare, quanto per “non di élite”. I fenomeni artistici presi in considerazione sono dunque quelli che hanno preso forma dal basso, in opposizione alla cultura ufficiale dei regimi e in dissonanza con le imposizioni ereditate dai colonialismi, e che hanno avuto un’eco tale da coinvolgere le popolazioni locali e da risuonare anche al di fuori dei propri confini geografici e culturali.

Pace, Ashekman, Tripoli (Libano) 2017. (Foto archivio Ashekman)

Si può ipotizzare allora che anche il pubblico di lettrici e lettori immaginato dalle autrici di Arabpop sia un pubblico “non di élite”, un pubblico al quale si intende raccontare dei paesi arabi da una prospettiva decisamente diversa da quella dominante, abbondantemente veicolata dagli orientalisti classici e pienamente assorbita da un certo pensiero di senso comune. Infatti il testo prende le mosse dalla costatazione che l’orientalismo europeo ha consolidato l’immagine di una società araba “monolitica” e “incompatibile con la democrazia”, motivo per cui le “primavere arabe”, così denominate dalla stampa occidentale, sono state interpretate perlopiù come “inaspettati scoppi di violenza” o “il risultato di giochi di potere tra Stati occidentali”, come ricordano le curatrici.
Nel libro, chiaramente, si mette esplicitamente in questione tale attitudine orientalista, ancora dura a morire. Ma si va anche oltre: il mondo arabo e le sue produzioni culturali non vengono qui esplorati col solo scopo, seppur meritorio, di contro-narrare e di decostruire; il volume, cioè, non si costruisce in un serrato confronto col mondo occidentale, seppure la dimensione postcoloniale lo attraversa costantemente e in modo trasversale. Le autrici però, facendo riferimento innanzitutto alle voci di scrittori, musicisti, artisti ma anche intellettuali, commentatori e analisti del mondo arabo, riescono a costruire un discorso che parte dagli immaginari autoctoni di coloro che lì producono cultura. Assumono un posizionamento che rivela la capacità non comune di parlare del mondo arabo in modo non orientalista, ovvero senza strizzare l’occhio a quell’immaginario che ha costruito l’oriente come lo speculare negativo dell’Europa (cfr. Said, 1978), e in modo non occidentalista, cioè senza partire sempre e comunque dall’occidente e dal suo punto di vista in quanto locus di enunciazione per eccellenza (cfr. Mignolo, 2013), anche solo per opporvisi.

Arti in battaglia
Una delle linee interpretative di fondo consiste nel presentare il rapporto tra le rivoluzioni politiche e le produzioni culturali in chiave osmotica: le prime hanno certamente nutrito le seconde, risvegliandole dal torpore in cui le avevano sospinte i regimi, ma ne sono state a loro volta incoraggiate, narrate, archiviate ed evocate.

Alcune forme di arte sono state, come si ricorda più volte in diversi dei saggi, “benzina” per le piazze, anticipandone talvolta le istanze e funzionando da collante, specialmente per quella generazione di giovani donne e giovani uomini che, più delle altre, ha rappresentato il volto di proteste e rivoluzioni. Così dai saggi di Fernanda Fischione e di Silvia Moresi si apprende che, rispettivamente, la musica e la poesia, hanno dato voce collettiva alle proteste, agendo come fonte di ispirazione e incitamento prima, e come strumento di narrazione dei fatti, dentro e fuori il mondo arabo, poi. Mentre queste due forme di arte hanno una antichissima tradizione popolare in quest’area, durante le rivoluzioni hanno avuto un crescente seguito anche forme espressive “nuove”, come il fumetto per adulti che, proprio perché privo di una sua storia popolare, spiega Anna Gabai, è riuscito ad aggirare la censura preventiva e a diventare uno strumento espressivo capace di portare i fatti e i temi delle rivolte nel mondo.
Altra espressione artistica decisamente contemporanea è la street art, un vero e proprio campo di battaglia in cui graffiti e disegni vengono costantemente modificati da una parte e dall’altra, cancellati dal regime e riproposti dai militanti. Una pratica, quella dell’arte sui muri, che per Luce Lacquaniti si configura come una riappropriazione di quegli spazi comuni prima egemonizzati dal potere pubblico nonché un modo per combattere l’oblio voluto dalla repressione, per esempio attraverso la rappresentazione dei volti dei martiri delle rivoluzioni. Sulla stessa scia, una delle armi più diffuse in molti paesi, specialmente in quelli in guerra come la Siria, è stata la videocamera, con lo scopo di filmare il più possibile, anche a costo della vita, nota Olga Solombrino. Il cinema documentarista diventa così una delle vie maestre per mostrare al resto del mondo cosa sta accadendo, ma anche per costruire nel presente la memoria per il futuro e porre così le basi per un archivio.

Dopo la repressione: arti e critica sociale
Questa stagione culturale estremamente ricca non si esaurisce insieme alla repressione che, purtroppo, ha duramente soffocato l’azione politica rivoluzionaria in molti paesi negli ultimi anni. Le arti svolgono un ruolo decisivo anche dopo, quando le speranze delle proteste vengono tradite e gli orizzonti di un’intera generazione ne escono del tutto frustrati. La vita quotidiana, intesa come il modo di vita di un’intera società, ne esce necessariamente modificata, perché è la prospettiva con cui la si abita a essere stata definitivamente incrinata dalle rivoluzioni. Ecco, allora, che le arti non hanno solo infiammato e narrato le proteste, ma continuano a tener viva l’attenzione su nervi scoperti che le rivoluzioni avevano messo in rilievo, come le ambigue identità postcoloniali dei paesi arabi o i rapporti tra i generi e la sessualità.
Rispetto a quest’ultimo punto risultano particolarmente efficaci le arti performative che, mettendo in scena corpi eccentrici e non conformi, rompono il silenzio sulla violenza patriarcale e spostano il dibattito collettivo oltre le istanze più urgenti delle rivoluzioni, ponendo al centro quelli che Anna Serlenga chiama i “diritti alla felicità”. Non solo forme di azione politica: le arti diventano così veri e propri strumenti di critica sociale. Per esempio, nota Chiara Comito, caratterizzato da tempi più lunghi di elaborazione rispetto ad altre arti, il romanzo, più che incitare alla battaglia nelle prime fasi, si è mostrato capace di mantenerne viva la memoria, stimolando riflessione e critica. Non a caso si diffondono in questi anni soprattutto due generi letterari, la distopia e il romanzo storico, che riescono a indagare ed esplorare il presente senza nominarlo, così da aggirare creativamente la censura; il primo presentando ipotetici sviluppi futuri e il secondo raccontando situazioni critiche del passato analoghe a quelle presenti. E, ancora, temi espressamente postcoloniali attraversano la scena culturale negli anni successivi alle rivoluzioni.

Laddove nell’Ottocento la pittura è stata una delle massime espressioni di orientalismo, gli artisti contemporanei si servono di tecniche come il remix e le sovrapposizioni, elaborando così una frattura estetica capace di interrogare in maniera profonda gli ambivalenti rapporti tra paesi arabi e occidente, evitando di creare nuove dicotomie e dando invece espressione alla molteplicità identitaria che necessariamente caratterizza i paesi arabi. Tra gli esempi riportati da Catherine Cornet, risalta The new Pietà, di Oussama Diab, che, appropriandosi di una delle più note opere della cristianità occidentale, raffigura Gesù con una kufiyya, per ricordare le madri di martiri che abitano la Palestina. Il rapporto tra occidente e paesi arabi è trattato in chiave critica, ma anche ironica, nel rap non mainstream: protagonista di alcune canzoni del rapper libanese El Rass è Jimmy, il white man che appoggia le rivolte, ma che può anche abbandonare la causa non appena la situazione diventa pericolosa.

Eterotopie resistenti
Se le istanze politiche che hanno animato rivolte e rivoluzioni sono state spesso aspramente represse e subdolamente tradite (l’Egitto ne è un esempio lampante), o sono affogate in guerre di cui non si scorge la fine (è il caso della Siria), e se i cambiamenti sociali non sono stati quelli auspicati, Arabpop sembra suggerire che la rivoluzione culturale, nelle sue forme più estemporanee e in quelle di lunga durata, è qualcosa da cui non si può tornare indietro:

“Il tentativo di rinchiudere in schemi prefissati la poesia (e l’arte tutta) è forse già un segnale preoccupante che riflette una certa rigidità politica, e il primo passo verso la decadenza di un’intera società, costretta a esprimersi solo secondo regole non negoziabili. Questa era la condizione di molti paesi arabi prima delle rivoluzioni, in cui la cultura ufficiale a servizio del regime, con la censura e l’imposizione di “parole d’ordine”, cercava di tenere al guinzaglio intellettuali e scrittori dissidenti. Nella fase attuale, molti governi sono riusciti con la violenza a ripristinare lo status quo, ma le ragioni che avevano scatenato le violenze non sono svanite […]. Così come le società arabe stanno provando a scrollarsi di dosso la paura, e non accettano di dover tornare al punto di partenza, così la poesia continua a “trasgredire” rifiutando i vecchi schemi”
(Moresi, 2020).

Una felice coincidenza, forse non casuale, che il nome della collana editoriale in cui Arabpop ha trovato collocazione sia Eterotopie. Michel Foucault le intendeva come quei luoghi che, a differenza delle utopie, hanno una loro concreta tangibilità, spazi reali ma anche virtuali, come l’immagine riflessa in uno specchio (cfr. Foucault, 2010). E come il linguaggio, che apre spazi altri e al tempo stesso rimane ancorato alla concretezza delle parole di cui si nutre e dei supporti attraverso i quali prende forma, che si tratti di pagine scritte, pellicole, tele o muri di una strada. E Arabpop, in un certo senso, racconta di eterotopie resistenti, di luoghi e spazi di produzione culturale e artistica che, anche quando la rivoluzione politica e sociale è stata e continua a essere repressa, non può più tornare indietro, non può evitare di aprire su altri luoghi, di contestare quelli esistenti, di immaginarne altri. Qualcosa del genere è rappresentato in maniera emblematica in un’opera di street art a cui fa riferimento Lacquaniti nel suo saggio.

Trompe l’oeil, Ammar Abou Bakr. Foto: Munir Sayegh

Si tratta di Trompe l’oeil, esito della campagna Mafish Gidar/No walls lanciata al Cairo da alcuni artisti egiziani i quali, quando il Consiglio supremo delle forze armate egiziane ha eretto dei blocchi di cemento per impedire l’ingresso dei manifestati in Piazza Tahir, luogo simbolo della rivoluzione,

“hanno reso i muri “invisibili” disegnandovi sopra degli straordinari treompe-l’oeil e ricordando a tutti quanto sia importante, in una rivoluzione, immaginare una realtà alternativa” (Lacquaniti, 2020).

Letture
  • Michel Foucault, Eterotopia, Mimesis, Milano-Udine, 2010.
  • Walter Mignolo, L’idea di America latina. Geostoria di una teoria decoloniale, Mimesis, Milano-Udine, 2013.
  • Edward Said, Orientalism, Pantheon Books, New York, 1978.