Profanazione del doppio
tra sacrificio e liberazione

Doppi umani e doppi sociali sono presenti in Us (Noi) di di Jordan Peele
e in Parasite di Bong Joon-ho.

Doppi umani e doppi sociali sono presenti in Us (Noi) di di Jordan Peele
e in Parasite di Bong Joon-ho.


Un’esplorazione reale e virtuale accomuna Us (Noi) (scritto e diretto da Jordan Peele) e Parasite (per la regia di Bong Joon-ho, Palma d’oro a Cannes nel 2019): la vita è agita non solo in superficie. Sotto corteccia rimane una parte essenziale del mondo in luce: sono storie nelle storie; legami personali e doppi esistenziali; forme di censura e di comando, in ogni caso di resistenza.

Doppio di trama: le vicende di Us (Noi)…
Santa Cruz, 1986. Un televisore acceso, dopo aver reso previsioni meteo non propizie, propaganda i meriti di Hands Across America, un’iniziativa benefica che unisce milioni di americani da costa a costa per combattere la fame nel mondo. A seguire le trasmissioni è una bambina, come rivela l’immagine riflessa contro lo schermo. Si tratta di Adelaide, in vacanza al mare con la propria famiglia. In una sera di divertimento al luna park estivo della cittadina, Adelaide incautamente si allontana dai genitori e, girovagando, si perde. Entra in una casa degli specchi, dove diviene vittima di un evento traumatizzante. Ritrovata (come almeno credono padre e madre), non riesce a parlare, né a comunicare in altro modo; vive in un mondo tutto suo, di sguardi stupiti e silenziosi.
Ai tempi nostri. Adelaide è ormai sposata e madre di due figli, l’atletica Zora e il vivace Jason, appassionato di trucchi magici. Su insistenza del marito, Gabe Wilson, e con i ragazzi, torna a Santa Cruz nella casa delle estati d’infanzia, per quanto una voce interiore la dissuada fortemente. La premonizione si rivela fondata. Rientrati da una gita sulla spiaggia, i Wilson trovano ospiti inattesi in giardino, quattro persone che indossano tute rosse e impugnano un paio di forbici dorate. Sono i loro doppi. Inizia una macabra contesa, tra combattimenti feroci e dialoghi rivelatori, fino allo scontro epico conclusivo che riporta Adelaide e il suo doppio nel mondo nascosto sotto quell’attrazione piena di specchi dove tutto ha avuto inizio. Come nel passato l’oscurità aveva restituito solo una delle bambine alla luce, così nel presente è una sola donna a riemergere da uno spazio raggelante e temibile.

Una domanda è posta sulla soglia di entrambe le storie: chi torna dalla discesa infernale, Adelaide o il suo doppio? Intanto, di nuovo, la televisione annuncia l’invasione degli Stati Uniti da parte di un numero incalcolabile di uomini e donne, che si tengono per mano formando una catena ininterrotta. Tutti vestono di rosso.

… e le vicende di Parasite
Mentre all’esterno una parte di vita scorre sull’asfalto della strada, tra incroci di auto, biciclette e carrelli portacarichi, all’interno della propria quotidiana domesticità, nello spazio angusto di un seminterrato fatiscente, la famiglia Kim (composta dal padre, Ki-taek, dalla madre, Chung-sook e dai due figli, Ki-woo, fratello maggiore, e Ki-jung, sorella minore) ricorre a ogni espediente per resistere alle secche di miseria e povertà. D’improvviso, la buona sorte pare penetrare la segregazione di questo stagnante microcosmo. Preannunciata dal dono simbolico di una roccia benaugurante che l’amico Min-Hyuk porta a Ki-woo; accompagnata dall’esclamazione piena di stupore di Ki-woo “Quanto è metaforico!” (destinata a divenire un intercalare costante nel parlato del giovane), la parte buona del destino pare affiorare dal pantano melmoso in cui era sprofondata quando Min-Hyuk offre a Ki-woo l’opportunità di sostituirlo come insegnante privato di una ricca adolescente, Da-hye. Entrato in un mondo tutto lusso e ricercatezza, Ki-woo sovrascrive il design essenziale della casa che lo ospita con il plot di una propria storia fatta di inganni e contraffazioni. Giocando sull’ingenuità della padrona, che avendo tutto deve preoccuparsi di poco, il ragazzo, reso al contrario scaltro dalla necessità, procura a ciascuno dei propri congiunti un lavoro all’interno dell’ambiente perfetto che fa capo alla famiglia Park.
Per raggiungere l’obiettivo, Ki-woo mette in scena una rocambolesca commedia degli inganni e degli equivoci, mentendo sull’identità delle persone che volta per volta introduce a corte. Così, la sorella, Ki-jung, diviene educatrice del piccolo Da-song (fratello minore di Da-hye); il padre, Ki-taek, è assunto come autista del signor Park; infine, la madre, Chung-sook, ottiene il ruolo stabile di governante, in sostituzione della domestica che era già a servizio presso il proprietario originario. Durante una breve assenza dei Park, i Kim scoprono che Moon-gwang, la precedente colf, ha legato indissolubilmente la propria vita allo spazio di quella abitazione; ha, infatti, nascosto il proprio marito in un bunker ricavato nel seminterrato per salvarlo dalla presa dei creditori.

Nello stesso frammento di episodio, Moon-gwang viene a conoscenza del segreto dei Kim, che non sono tra loro estranei, bensì tutti parenti, e minaccia di rivelare ai Park la trama di fandonie e falsità opportunisticamente ordita. Ne segue una vera e propria guerra tra due contrapposte aspirazioni a un vivere parassitario. La lotta per conservare o riprendere una insperata opportunità occupativa porta a ulteriori sotterfugi; a gesti disperati per segnalare (anche in codice) quanto di oscuro vi sia dietro a ogni evidenza; a scontri fisici che culminano in un attacco violento e drammatico (attenzione: spoiler nel prossimo paragrafo, ndr).
La festa imbandita per il compleanno di Da-song si trasforma in un eccidio funereo, che macchia, con il sangue e con la scomposta aggressività di reazioni esasperate, la promessa di imperturbabilità illusoriamente offerta da una spudorata disponibilità di mezzi e sostanze. Per i fatti accaduti, il signor Kim è costretto a fuggire. Nessuno sa cosa gli sia successo. Un giorno, però, Ki-woo, tornato sulla collina che si estende dietro la casa del lusso e dell’orrore, vede, all’interno, una luce brillare in modo discontinuo, punto – linea – punto. È un messaggio cifrato, come il marito di Moon-gwang aveva insegnato si potesse fare. Un segno di vita sommersa, eppure di vita.

Doppio di spazio. Tra sottosopra e retromondo
Lo spazio è chiaroscuro. Vive di profondità ctonia. Si estende oltre l’egoistica pervasività delle regioni visibili. Così dicono le parole che, all’inizio di Us (di seguito indicheremo il titolo originale, ndr) entrano in sequenza, come bianche apparizioni corporee, sul nero dello schermo ancora vuoto di azione:

Ci sono migliaia di chilometri di tunnel sotto il suolo degli Stati Uniti, metropolitane in disuso, percorsi di servizio inutilizzati, miniere abbandonate. Molti non hanno mai avuto uno scopo conosciuto”.

Una volta composto, il testo, al sapore ibrido di memoria e profezia, si dissolve e fluttua, prima che tutto abbia inizio, per poi muoversi libero e sempre presente negli interstizi bui di ogni scena. Che possa darsi una realtà di limbo è confermato dalle finestre ad altezza di strada, protagoniste indiscusse della prima inquadratura di Parasite, diaframmi di vita conficcati tra suolo e sottosuolo. Più avanti lo ripete, come segno da decifrare, l’inquietante intermittenza di una luce tonda, forma perfetta sospesa tra le linee essenziali di una casa lussuosa. Continuerà a farlo, quasi fosse a questo destinata, anche quando l’impeccabile geometria dell’ambiente si sarà trasformata nel palco cruento di un teatro grottesco (cfr. Ligotti, 2015).
In entrambi i film, è un’esistenza eccepita quella che pulsa contro il margine della terra. Per coglierla, occorre abbandonarsi ad un percorso di speleologia figurativa (in Us), o lasciarsi sedurre da quello che sembra un irresistibile incantesimo metaforico (in Parasite). Jordan Peele apre con i colori caramella e i suoni ripetitivi di un luna park ormeggiato sulla spiaggia di Santa Cruz, riedizione dislocata del Festival del Canale di Derry, dove, tra giochi chiassosi e baracconi generosi di premi, Adrian Mellon in It (uscito negli USA nel 1986) s’era trovato a vincere quello strampalato e carnevalesco cappello che lo avrebbe consegnato alla morte (cfr. King, 2019).
Le scene iniziali catapultano proprio nel 1986, anno iconicamente consegnato a una progressione di viaggi verticali. Se Tom Cruise (alias Pete “Maverick” Mitchell) aveva già attraversato i cieli a bordo dell’F-14 della Marina statunitense che è divenuto oggetto di culto dell’immaginario cinematografico, ora Lupita Nyong’o (alias Adelaide) è chiamata a scendere verso il basso, quasi a precipizio, per perdere la propria identità nelle sommerse regioni di un materico tunnel dell’orrore.
L’ingresso in una dimensione sinistra e spaventevole si rende esplicitamente debitore del genio di Stephen King: il pronome assunto a titolo, Us, diviene citazione consapevole dell’eternamente inquietante It. Una nuova forza, personale e collettiva, si sostituisce, come legittima erede, all’antica energia distruttiva liberata da una forma neutra e mutante. Un’associazione pervasiva e penetrante quella tra la pellicola di Peele e la pagina di King, che torna a più riprese e si compendia, da ultimo, nella voce di cronaca di un funesto notiziario, che annuncia l’invasione di creature replicanti fuoriuscite dalle fogne a imitazione del personificato sorriso uncinato del vecchio Pennywise.

Lo sguardo si muove rapido nella cornice delle sequenze introduttive per seguire Adelaide, la piccola protagonista, tra giostre, che simulano labirinti in cui perdersi; montagne russe, che dicono come si possa stare anche a mondo capovolto; divertimenti visionari e premonitori, come l’acchiappa-talpa, che punta a colpire e respingere sotto terra il rigurgito di vita che viene dal profondo. Indugia, poi, quasi ipnotico, sulla mela caramellata che la bambina tiene in mano, così polposa, tonda e lucida da attrarre, irresistibilmente invitante, verso la soglia di una fiabesca realtà. E infatti il frutto cade, si libera dalla presa proprio sul limite che segna il confine tra noto e ignoto, divenendo parente stretta, per forma e funzione, di quella palla luminosa appesa al soffitto che divide in due emisferi lo spazio apparentemente eletto di Parasite. Adelaide entra in una finta casa su cui campeggia l’insegna “Vision Quest”, che occhieggia senza rinvio all’omonimo film di Harold Becker (andato in proiezione nel 1985, l’anno precedente a quello in cui sono ambientati i fatti di Us) in quanto, lungi da ogni romanticismo, intende deformare in esperienza ludica il rituale iniziatico pur noto alla tradizione sciamanica. Non è, perciò, un caso che sia aggiunta, come nota esplicativa, la didascalia “Find yourself”.
Obbedendo a questo imperativo magnetico, la piccola avanza in un percorso accidentato e asfittico, dove tutto è inghiottito da miriadi di specchi in un’eco di immagini incapace di soluzione. L’indicazione “Exit”, riflessa ossessivamente fino a formare un cordone costrittivo intorno al corpo di Adelaide, estende la dinamica rifrattiva ai rapporti tra vero e falso, convertendo l’uscita in ingresso e l’ingresso in uscita, mentre alla possibilità di un doppio spaziale, che si delinea con progressiva forza, si associa la possibilità di un doppio esistenziale. Ora lo schermo è occupato da due teste, perfettamente uguali, acconciate con gli stessi codini e fermagli, eppure gli occhi dell’una incontrano la nuca dell’altra: non è duplicazione di specchio, ma di realtà. Su questa immagine e sul senso di smarrimento dalla medesima provocato il sipario si chiude, per riaprirsi subito dopo lasciando emergere dal nulla una reiterazione parossistica: gabbie di conigli bianchi che si ripetono a centinaia di fronte a una serie indefinita di tavoli, tutti uguali e tutti con due posti, l’uno di fronte all’altro.

È così scoperto un nuovo nomos, uno spazio consegnato a un proprio ordine e a una propria legge. Per capire di quale mondo si tratti, occorre aspettare la virata centrale del film, quando la spiegazione viene dal dialogo (parlato e figurato) tra Adelaide (o meglio, la donna che continua a essere indicata come la versione autentica di Adelaide) e il suo doppio fisico (il cui nome anonimo corrisponde al colore del vestito, Red), che proprio da quel regno occulto e rimosso proviene. Al termine, Adelaide deve ripetere lo stesso percorso che la bambina delle origini aveva tracciato, per inabissarsi fino al centro della verità, lasciando il mare di Santa Cruz sulla superficie e facendo discesa in una dimensione infernale dove l’attende uno scontro epico. Tutto è reale: nessuna utopia, nessuna anticipazione distopica. È una versione radicale di sottosopra abitata da uomini e donne in carne e ossa, non da mostri (come gli orridi demogorgoni di Stranger Things), ma da umani, pur costretti a vivere un’esistenza mostruosa.
Corrispondentemente, uno spazio stratificato compone il complesso universo di Parasite. Il punto di vista comincia dal basso, con una linea di soffitto che è di poco superiore al livello della strada, a chiudere il disordinato microcosmo della famiglia Kim, un guscio stretto in cui si progettano, intorno all’unico tavolo, le più varie strategie di resistenza. Per agganciare a scrocco il wi-fi di chi ha una connessione attiva, occorre stendere il braccio e lambire, con il telefono, la soglia tra suolo e sottosuolo, o raggiungere la posizione di fortuna rappresentata dall’unico elemento igienico, arroccato in un angolo su tre gradini, prosaicamente innalzato sopra la linea di superficie. La ristrettezza di sostanze e di metri quadri porta a una gestione in accumulo: mucchi scomposti di oggetti e indumenti diventano i nuovi soprammobili di una geometria variabile, in assenza di regole, in difetto di assiomi.

La dimora dei Park è il doppio specularmente opposto di questo problematico spazio di vita famigliare. Un’elegante roccaforte di snobismo architettonico (si deve infatti a un architetto – che ne fu primo inquilino – l’ideazione della struttura dell’edificio) è circondata da un’oasi verde, incontaminata nella sua privatezza, l’alternativa ricca alla popolare strada pubblica che corre oltre le finestre dei Kim, così trafficata da offrire ripetuti spettacoli di impenitente impudicizia. L’interno si sviluppa intorno alle linee essenziali di un lungo tavolo squadrato (inversione normativa del cerchio tondo che tiene uniti in circolo i Kim), di un divano a penisola, che non conosce limiti di accoglienza, e di un frigorifero metallizzato che satura la propria augusta verticalità con ogni varietà di cibo, di preparato costoso, di acque minerali in bottiglie sobriamente ricercate. Come nell’ecosistema dei Kim, anche nel regno dei Park il bagno è collocato a un livello superiore, non di gradini, ma di piano; in questo caso, però, la calibratura di arredi e biancheria accoglie il visitatore in un autentico salone di bellezza, come la giovane Ki-jung dà prova d’aver inteso, sprofondando in una vasca tutta bolle davanti a uno schermo acceso.
L’effetto straniante del film è raggiunto quando si comprende, attraverso un’ulteriore espansione dell’esperienza percettiva, che la casa dei Park non solo è il doppio per opposizione della casa dei Kim, ma custodisce, entro le proprie mura, il proprio doppio contrario. In quel paradiso, che il pubblico può riconoscere, è custodita l’oscurità di un inferno privato. Oltre la dispensa, ancora ispirata a un senso di scrupolosa amministrazione (tutti i barattoli di conserva e di frutta sotto spirito sono irreggimentati come fila di un esercito sull’attenti sui ripiani di mobili robusti), una porta immette in una diversa dimensione: gradini che scendono e strettoie che curvano, fino al cuore del bunker, un tempo progettato per offrire salvezza ai ricchi coreani in caso di attacchi e scontri militari, ora abusivamente occupato da un povero per sfuggire alla persecuzione rapace e violenta di creditori insoddisfatti.
Un ambiente asfittico, anche se completo dell’essenziale per sopravvivere (un letto, una scrivania, un frigorifero, un sanitario scalcinato), si apre come una oblunga ferita nel buio. Chi lo abita può guardare il mondo in superficie non attraverso la trasparenza convenzionale offerta dal vetro di una finestra, ma grazie alla proiezione ingegnosa di messaggi in alfabeto Morse. Essi sono formulati azionando l’interruttore di una lampada che, nel mondo di sopra, inizia a mandare segni luminosi discontinui, come canto rapsodico di una sepolta presenza-assenza.

Interrogato dal signor Kim su come si possa resistere per anni in una dimensione claustrofobica priva di luce, quasi morti in vita, il marito della prima governante fa decantare lo stupore, ricordando come, in realtà, milioni di persone vivano sottoterra. L’esclamazione “Pensa a quante buche ci sono!” si salda compiutamente alle parole introduttive di Us in una estetica verbale dell’invisibile presente. In profondità giace il residuo di un mondo scorticato, che ha trasformato in abitudine una desolazione cigolante (cfr. Ligotti, 2016). Questo è il miracolo scandaloso, la conversione laica cui si è liturgicamente chiamati: l’eccezione è stata fatta norma.
Un ulteriore dispositivo iconico sutura le rappresentazioni del sommerso in Us e Parasite: le scale che materialmente consentono l’accesso alle più infime regioni. In Us, l’Adelaide adulta è condotta verso il basso da una luccicante e ripida scala mobile, che predica ai nastri consunti delle metropolitane l’invitante luminescenza delle arterie dinamiche e vitali dei centri commerciali.
In Parasite, il signor Kim e i suoi due figli, per far ritorno dalla fortezza Park ai propri quartieri nel mezzo di un diluvio di proporzioni apocalittiche, devono correre a precipizio giù per migliaia di gradini che disegnano lungo la parete un percorso zigzagante a vari livelli. Non si tratta della rapida discesa dei protagonisti di un videogame al sapore retro-pop, ma di una caduta verticale che metaforicamente richiama il miltoniano allontanamento di Lucifero dal regno eletto. È, questa, la perdita del Paradiso, accompagnata dalla costituzione di una nuova e desolata giurisdizione, dove le regole sono diverse, per non affondare nelle acque putride che sgorgano a fiotti dalle fogne. Ancora, in Parasite i Kim fanno esplorazione della notte estesa oltre il perimetro della casa perfetta, avventurandosi di gradino in gradino per un cammino ripido e stretto, lungo il quale è difficile conservare l’equilibro, come dimostra il gesto disaccorto di Ki-woo, per colpa del quale anche la pietra portafortuna è abbandonata a una precipitosa, inesorabile capitolazione. La metafora ruzzola, per poi fermarsi e riallineare tutti i volti spaziali delle diverse realtà.
Il retromondo nietzschiano viene così risignificato: non è per insufficienza ontologica dell’empirico che il pensiero pone l’esistenza di un superuranio vero e fondamentale, ma è per eccedenza di vita che il limitato palcoscenico delle apparenze respinge dietro le quinte una parte di esistenza, contenendone, fin dove possibile, il ritorno.

Doppio di carne. Tra agnizioni e falsificazioni
Us e Parasite celebrano la duplicazione non solo dello spazio, ma anche delle incarnazioni di identità. Questo è il tema centrale, conficcato in quel “Noi” che titola le sequenze di Jordan Peele; è il motivo ricorrente che torna, in modo concettuale e filosofico, nella scrittura filmica di Bong Joon-ho.
Chi è originale e chi replicante? Quale è il senso del doppio e quale il suo destino?
Adelaide Wilson ascolta la spiegazione monologante offerta dalla sua ombra (come nel film espressamente viene denominata), la versione cresciuta della bambina che aveva condiviso con lei gli specchi della Vision Quest. La voce, parzialmente soffocata e gutturale, quasi a tradurre nel suono la provenienza cavernosa del personaggio, prende a raccontare una storia bruta di sperimentazione e fallimenti. Un esercito di cloni era stato progettato per controllare, dalle parti più recondite della terra, i movimenti, le azioni e le decisioni degli umani in superficie; ma qualcosa era andato storto, così quell’ammasso di doppi era stato abbandonato, degradato dalle funzioni di regia alla negletta esistenza di creature di scarto.
Ogni vivente, dunque, ha il suo gemello perduto in un anfratto nascosto della storia, un essere imbruttito, deformato dalle condizioni di privazione in cui è cresciuto, costretto a cibarsi di carne cruda di conigli, autoriprodotti in soprannumero, vincolato – contrariamente all’originario disegno – alla ripetizione meccanica dei comportamenti tenuti dalla propria matrice. Così, se nel mondo dei vivi Adelaide (ammesso che si tratti della prima, autentica Adelaide) si sposa per scelta, necessariamente l’ombra di carne è obbligata a unirsi al doppio del marito, azzerando la possibilità di ogni sentimento; se Adelaide partorisce, l’ombra deve concepire la replica mostruosa e grottesca dei figli, fino a riprodurre le stesse modalità di nascita, naturale o provocata. È un grumo di sofferenza quello che cresce e si diffonde come struttura connettiva, unendo tra loro tutti i doppi, saldando le loro mani in catena, come l’epilogo potrà dimostrare. Gli incatenati (come sono chiamati) hanno vissuto in un tragico doppio temporale, chiedendosi come sarebbe poter sentire (il sole, il cielo, il vento), perché della percezione hanno tutti gli organi: occhi, denti, mani, sangue. Sono umani. Tutti, meno una, non sanno parlare per difetto di esercizio comunicativo e al linguaggio hanno sostituito una cacofonica variazione di suoni animaleschi.

Un tratto costitutivo, questo, che si trasforma in indizio, facendo balenare tutta la drammatica problematicità di cui si alimentano Adelaide e la propria controfigura. Se la bambina che (nel 1986) torna dall’esplorazione orrifica è chiusa in un mutismo impenetrabile, mentre la copia adulta, ricomparsa d’improvviso sulla scena (ai giorni nostri), è l’unica tra i propri simili in grado di esprimersi, quale delle due corrisponde alla versione originale di Adelaide? Chi abita un nomos escludente, ne porta il segno, una sorta di marchio impresso che distingue il nuovo come l’antico Caino.
I doppi di Us hanno carne consumata sotto gli occhi e una aggressività pronta a esplodere; i gesti robotici paiono ispirati da una vena di irragionevole follia, mentre un gusto perverso e macabro diviene criterio di lettura e interpretazione di un mondo rimasto troppo a lungo sconosciuto. Il senso di appartenenza a una classe di oppressi in rivolta è dichiarato dalla tuta rossa, comune a tutti, senza distinzione di età, sesso, colore, e dal paio di forbici, così potenti e metaforiche come potente e metaforica è la pietra portafortuna di Ki-woo.
In Parasite la famiglia Kim è il doppio rovesciato della famiglia Park, perciò vicina per sorte al marito di Moon-gwang e a quanti abitino i buchi della terra. Questo popolo di estromessi e perdenti si riconosce per l’odore sgradevole e penetrante, che oltrepassa il limite e si diffonde, fino a un inaccettabile contagio, come il signor Park fa notare con autentico disgusto alla moglie e come il naso fino dell’eletto in casa, il piccolo Da-song, sa fiutare prima di ogni altro. Un sapore acre, come quello che viene da un ravanello avariato o da uno straccio sporco che bolle, e che rende irrespirabile l’aria, costringendo chi conosce la purezza dell’ossigeno a tapparsi il naso.
In Us e in Parasite ci sono, perciò, doppi umani e doppi sociali (cfr. Waldenfels, 2011). Anche la famiglia Wilson ha il proprio facsimile arricchito, impersonato dai Tyler, vanesie caricature che popolano un mondo tutto comfort e status symbol, in cui la voce di Ophelia, l’immancabile intelligenza artificiale pronta a impartire comandi a ogni elettrodomestico, non tace neppure dopo la fine cruenta di chi dovrebbe azionarla, ma, come bloccata, continua imperterrita a singhiozzo, vessillo di idiozia e stupidità in un ordine di vuota bellezza. Specularmente, i doppi dei Tyler sono vanitosamente stupidi e per questo tratto si differenziano dall’indole propria dei doppi dei Wilson. Tra ferite e sangue che scorre a fiotti, mentre ancora un combattimento è in atto, solo la replicante della signora Tyler può, infatti, concedersi il lusso di provarsi allo specchio i rossetti della propria copia e sorridere incantata prima di trovare la morte.

In Parasite è Ki-woo a produrre deliberatamente la copia sofisticata di sé stesso, costruendo a tavolino la propria falsa identità di studente universitario modello e assegnando a ogni famigliare un ruolo da recitare, come un vero autore di una storia romanzata sa fare. Per uscire dal suo mondo, Ki-woo ne crea uno nuovo, spinto da un desiderio di rivincita e dall’amore per i suoi. È il respiro dell’immaginazione, che consola in difetto di spazio e suppellettili. In entrambi i film l’epilogo provoca una sbalorditiva profanazione del doppio, in tutte le consistenze in cui si sia manifestato.
Il doppio è scoperto per essere sciolto, così che le sue unità costitutive possano essere restituite alla loro individuale libertà (cfr. Agamben, 2005). È la slegatura (termine propriamente usato nel film) preparata nell’ombra e poi attuata dalla vera Adelaide contro la versione contraffatta di sé, quella che era stata venduta al mondo, nel 1986, dal doppio riemerso in superficie. È la sconsacrazione rituale di una vita privilegiata che il signor Kim celebra quando immola sull’altare della perdizione quella mossa odiosa più volte tollerata, due dita che si chiudono a molla sulle narici, per non sentire il fetore, così da evitare anche ogni immateriale contatto con chi sia ontologicamente escluso dal cerchio magico e solidale. In entrambi i casi è restituito al mondo ciò che pure esso aveva cercato di confiscare (cfr. Agamben, 2005).

Letture
  • Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Milano, 2005
  • Stephen King, It, Sperling & Kupfer, Milano, 2019.
  • Thomas Ligotti, Teatro grottesco, Il Saggiatore, Milano 2015.
  • Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, Il Saggiatore, Milano, 2016.
  • Bernhard Waldenfels, Estraneo, straniero, straordinario. Saggi di fenomenologia responsiva, Rosenberg & Sellier, Torino, 2011.
Visioni
  • Wes Craven, La casa nera, Universal Pictures, 2003 (home video).
  • Bong Joon-ho, Parasite, Academy Two, 2020 (home video).
  • Graeme Manson, Snowpiercer, Netflix, 2020 (prima stagione in corso).
  • Jordan Peele, Noi (Us), Universal Pictures, 2019 (home video).