Avanguardia come memoria:
un felice corto circuito jazz

Berne, Speed,
Anderson, King
Broken Shadows
Formazione:

Tim Berne (sassofono contralto),
Chris Speed (sassofono tenore),
Reid Anderson (contrabasso),
Dave King (batteria).
Intakt Records, 2021.

Berne, Speed,
Anderson, King
Broken Shadows
Formazione:

Tim Berne (sassofono contralto),
Chris Speed (sassofono tenore),
Reid Anderson (contrabasso),
Dave King (batteria).
Intakt Records, 2021.


Confrontare i percorsi musicali e le precedenti esperienze collaborative tra Tim Berne e Chris Speed è stimolante e allo stesso tempo significativo, non soltanto per il lento fluire degli anni, assai numerosi riguardo la loro storia musicale, ma anche per il rimodellarsi esteticamente, come è giusto che sia per due musicisti sensibili alle dinamiche artistiche e sociali in generale. Due sassofonisti alquanto diversi ma che segnano a loro modo le evoluzioni del jazz contemporaneo e ne delineano tendenze e frammenti estetici, intrecciando i loro percorsi e collaborando con un mondo musicale a loro affine. Dai tempi dei Bloodcount, con Jim Black alla batteria, Marc Ducret alla chitarra e Michael Formanek al contrabbasso, si ritrovano ora in questo particolare progetto Broken Shadows, nato come opportunità per suonare insieme senza troppe prove nei loro momenti di residenza a New York, con Dave King alla batteria e Reid Anderson al contrabbasso. Come si diceva, la distanza è ampia in termini temporali, ma non solo. Per alcuni versi siamo addirittura in mondi opposti rispetto alle atmosfere dilatate e inquiete dei Bloodcount.
La parabola artistica di Berne ha avuto sempre alcune caratteristiche basilari, che hanno contraddistinto quasi tutti i suoi progetti, non solo da leader. Sua prerogativa è quella di elaborare ampie zone sonore, composizioni estese dove scritto e improvvisato viaggiano fusi nell’elaborazione di universi sonori dalle atmosfere cangianti, con predominanza di tratti plumbei, intensi, smussati da momenti introspettivi. Il suo fraseggio è tagliente, ricco di frammenti diminuiti, che accentuano il tratto oppressivo ma ne esaltano allo stesso tempo la linearità alterata, anomala, e questo lo pone ai vertici della scena jazzistica contemporanea.

Da par suo Speed, di tredici anni più giovane, è una sorta di contraltare, dal suono scuro e ponderato. Anche lui al centro di numerosi progetti e figura di spicco del jazz mondiale, si ritrova al fianco di Berne in questo progetto forse più affine alle sue corde di quanto non lo sia per l’alto sassofonista di Syracuse. Ma cosa e come suona questo Broken Shadows, e quali sono le suggestioni e le indicazioni che questo disco indica in modo abbastanza chiaro?
Innanzitutto, vanno segnalate le parole introduttive di Branford Marsalis sul booklet (e va notata certamente anche questa anomalia, la presentazione di questo disco da parte di un musicista non così affine ai quattro membri del gruppo): “In a time of songs treated as vehicles for improvisation, with this band, the vehicle is the song”. E a rincarare la dose Marsalis riporta alcune dichiarazioni di Darius Milhaud riguardo l’importanza della melodia:“The most difficult thing in music is still to write a melody of several bars which can be self-sufficient.” Parole che illustrano in modo chiaro le linee programmatiche di questo progetto, che vede i quattro musicisti rielaborare e reinterpretare brani di Julius Hemphill, Ornette Coleman, Charlie Haden e Dewey Redman.
La novità non è solo nel programma musicale composto da illustri predecessori, ma nella maniera nella quale questo programma viene suonato. E la distanza con l’estetica, soprattutto di Berne, è veramente grande, pensando solamente alla durata media dei brani di questo disco, fra i tre e i quattro minuti. Infatti, l’accento è posto, come spiega efficacemente Marsalis, nella composizione, nella song, la melodia, l’importanza di un tema che canta, che scorre orizzontalmente e si libra nell’aria. Non che non ci sia improvvisazione, ma questa deriva dal tema, ne è uno sviluppo essenziale, concreto, che lascia intatte le prerogative del brano, semmai arricchendolo e non svuotandolo di importanza. Possiamo certamente dire che è la lezione di Ornette Coleman, ma non solo.


C’è questo aggancio alle avanguardie storiche, a coloro che negli anni Settanta hanno innestato nella rivoluzione free elementi eterogenei della tradizione, infrangendo inutili barriere stilistiche e quindi producendo quello strano corto circuito di futuro e passato dal fascino unico. Musicisti come Julius Hemphill, Henry Threadgill, il clarinettista e sassofonista John Carter, ovviamente Coleman, hanno scritto pagine affascinanti che hanno nei temi una loro incontrovertibile forza, e che segnano fortemente lo sviluppo improvvisativo.
In Broken Shadows ci troviamo ad ascoltare un Berne particolarmente ispirato ed essenziale, pronto a condensare le sue idee e metterle al servizio del brano. E se il suo fraseggio acido, storto, diminuito, taglia le composizioni con i suoi fendenti, Chris Speed ne attraversa le linee, scompare e riappare con quelle sue traiettorie incerte, dagli ampi intervalli, mantenendo integra la sua concisione e il suo controllo sonoro. Se da una parte l’assetto generale del disco è abbastanza semplice, quel tema improvvisazione tema che ha caratterizzato anni e anni di jazz (e non solo), il suono complessivo è limpido, la ritmica è brillante e creativa, fornisce spunti e sorregge le improvvisazioni, dando vita ad un proficuo e continuo dialogo tra i musicisti.

Nel segno di Ornette Coleman
Colpisce, ripetiamo, l’essenzialità e la valorizzazione dei temi, delle linee melodiche, dando lustro a composizioni come Broken Shadows, Toy Dance, Ecars, Civilization Day, Comme Il Faut, C.O.D., Una Muy Bonita, Street Woman, tutti di Coleman (il live album Crisis del 1969, pubblicato nel 1972 dalla Impulse, sembra essere quello più saccheggiato insieme al periodo Science Fiction).
Oppure l’originale scelta di Body e Dogon A.D. di Hemphill, la Song For Che (anch’essa dall’album Crisis) di Haden e la particolarissima Walls-Bridges di Redman, che mostrano l’originale songbook del gruppo, affrontato in maniera semplice, quasi privo di particolari arrangiamenti, così da porre in risalto la bellezza delle melodie e le essenziali e concise improvvisazioni. Un’operazione per certi versi radicale e innovativa, di questi tempi.
Dicevamo delle tendenze alle quali questo progetto si ascrive, e che mostrano più di un motivo di riflessione. La scoperta o riscoperta dell’avanguardia storica sembra arricchire le scelte estetiche di molti musicisti jazz attuali, dando frutti fecondi e inauditi. Quella libertà di attingere a diverse epoche del jazz, privilegiandone anzi periodi poco indagati e/o sottovalutati dalla critica ufficiale, che fu propria di esperienze collettive come l’AACM di Chicago, il BAG di St. Louis o anche la UGMAA (Union of God’s Musicians and Artists Ascension) della Los Angeles di Horace Tapscott, è motivo di forte ispirazione per il jazz odierno.

Anthony Braxton, da questo punto di vista, la fa da mattatore, data la ricchezza e la straordinaria trasversalità della sua opera artistica. Che i Thumbscrew di Mary Halvorson, Michael Formanek e Thomas Fujiwara riprendano inedite o semisconosciute composizioni dell’artista chicagoano, nel loro bel The Anthony Braxton Project edito dalla Cuneiform, è cosa per certi versi prevedibile, senza nulla togliere all’alta dose di creatività e di fascino dell’album. Meno scontato è il Braxton intriso di funky e con le radici ben salde nel brodo primordiale di Britches Brew dei The Locals (Alex Ward, clarinetto, Pat Thomas, piano, Evan Thomas, chitarra, Dominic Lash, basso, Darren Hasson-Davis, batteria), nell’album live registrato a Nickelsdorf nel 2006 e ora pubblicato dalla Discus, dal titolo Play The Music Of Anthony Braxton. Ma il premio per il progetto più originale e anomalo va senz’altro ai due ex allievi di Braxton, Mike Pride, batterista/percussionista (anche nel gruppo punk hardcore Millions of Dead Cops) e Brandon Seabrook, chitarre e banjo (con Nels Cline, altro musicista al di fuori degli schemi), che insieme allo storico bassista dei gruppi punk Minutemen e fIREHOSE (ma anche nelle ultime reincarnazioni degli Stooges di Iggy Pop) Mike Watt, allestiscono un lavoro dai molteplici riferimenti, un misto di elementi free, punk, noise, un banjo surreale tra sonorità sperimentali e lo spirito braxtoniano che attraversa tutto Stove Top, a nome Three-Layer Cake.

Disegnare nuovi orizzonti
Qual è quindi il senso di questa atipica carrellata di prodotti discografici? In realtà se c’è un filo conduttore, questo è il dissolversi degli steccati, la scoperta di nuove traiettorie all’interno di mondi sonori lontani negli anni ma per nulla distanti stilisticamente, o comunque accostati in modo creativo e particolare. Il riferimento a musicisti del free o del cosiddetto post free è funzionale alla creazione di esperienze musicali assolutamente innovative, proprio per questi intrecci e corto circuiti che diffondono musiche inaspettate. E a questo punto serve a poco la composizione “originale” quando c’è l’individuazione di una nuova traiettoria e il procedimento che trasforma radicalmente il prodotto iniziale, creandone di fatto uno attuale, inaudito. Da questo punto di vista l’avanguardia storica rappresenta un’inesauribile fonte di ispirazioni e idee, a dimostrazione del fatto che alcune esperienze passate continuano a produrre frutti creativi senza mai appassire di fronte alla storia.

Ascolti
  • The Locals, Play the Music of Anthony Braxton, Discus, 2020.
  • Three-Layer Cake, Stove Top, Rarenoise records, 2021.
  • Thumbscrew, The Anthony Braxton Project, Cuneiform, 2020.