Teoria e tecnica
della chemiocrazia


Ari Folman

The Congress (2014)

Cast principale:
Robin Wright, Harvey Keitel,

Produzione:
ARP,
Bridgit Folman Film Gang,
Entre Chien et Loup,
Opus Film, Pandora Film,
Paul Thiltges Distribution

“Si fa presto a dire “Bevimi”!
La piccola e saggia Alice
non aveva alcuna intenzione
di farlo senza riflettere”.
Lewis Carrol (Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie)

“I sogni hanno sempre la meglio sulla realtà,
se glielo si permette”.
Stanislaw Lem (Il Congresso di futurologia)

Se con film come Fritz the Cat (1972) di Ralph Bakshi il cinema d’animazione aveva impudentemente scavalcato i tradizionali confini del prodotto per l’infanzia, è pur vero che questa tecnica è stata per anni appannaggio di opere destinate ai giovanissimi (eccezion fatta forse per pionieri nipponici come Katsuhiro Otomo o Satoshi Kon). Negli ultimi anni questa tendenza ha sicuramente subito un’inversione di rotta, e film come Waking Life (2001), Persepolis (2007) e più recentemente L’arte della felicità (2013) del napoletano Alessandro, dimostrano che il cinema di animazione possiede grandi potenzialità espressive anche quando si rivolge ad un pubblico adulto. Nel 2008 l’israeliano Ari Folman aveva convinto pubblico e critica con Valzer con Bashir, magnifico documentario animato sugli orrori della guerra in Libano, raccontata attraverso gli incubi e i ricordi dei reduci.
Cinque anni dopo Valzer con Bashir, Folman ha poi firmato un altro film di grande impatto visivo, questa volta in tecnica mista (due blocchi di live action che racchiudono un corposo nucleo di animazione), liberamente ispirato al romanzo breve Il congresso di futurologia del polacco Stanislaw Lem. Presentato a Cannes nel 2013 alla Quinzaine des Réalisateurs, The Congress è un’audace opera sci-fi, che si misura, nel solco della migliore speculative fiction, con uno scenario distopico in cui occulti poteri corporativi dominano le masse attraverso sostanze psicotrope, diffuse capillarmente attraverso un modello di società consumistica. Cerchiamo di riassumere la trama. Dopo una folgorante carriera cinematografica, l’attrice quarantenne Robin Wright (che interpreta sé stessa), vive un momento di crisi professionale. Quando un produttore senza scrupoli le propone di smettere di recitare cedendo i diritti di sfruttamento della sua immagine alla Miramount (crasi non casuale tra Miramax e Paramount), Robin, sebbene inizialmente riluttante e disgustata dal cinismo degli studios, finisce per accettare. Ritirandosi definitivamente dalle scene potrà dedicare più tempo ad Aaron, il figlio adolescente affetto da una rara malattia degenerativa che lo condannerà a perdere la vista e l’udito.

Attraverso una sofisticata apparecchiatura, Robin viene digitalizzata in modo da crearne una perfetta copia virtuale, che la immortala in una giovinezza senza fine. È l’inizio di una nuova era per l’industria cinematografica: grazie agli sviluppi tecnologici gli attori non dovranno più recitare in praesentia, basterà scannerizzarli per poi impiegarli in film di ogni tipo. Firmando l’accordo, Robin rinuncia ad avere voce in capitolo sulla scelta dei film e dei ruoli, e accetta che la sua immagine venga impiegata per film commerciali e fantascienza di bassa lega. D’altra parte, si domanda: gli attori hanno davvero libertà di scelta, dovendo sottostare ai dettami di registi e produttori? Insomma: chi ha incastrato Robin Wright?
Vent’anni dopo, alla scadenza del contratto, la sessantenne Robin viene inviata a un congresso futurista. Per avere accesso alla zona animata è costretta a inalare da una fiala una misteriosa sostanza psicotropa. A questo punto, il film, che finora sembrava una riflessione un po’ prevedibile sulla grande fabbrica hollywoodiana delle (dis)illusioni, prende una piega inaspettata.

Visioni dall’altra parte
Una volta varcato il confine della zona animata, Folman abbandona i grigi e rassicuranti connotati del live action per inoltrarsi in una vorticosa esplosione animata, una sorta di Cartoonia in acido, con uno stile che ricorda la stilizzazione lisergica del beatlesiano Yellow Submarine ma anche l’eleganza vintage dei disegni animati anni Trenta.
Novella Alice in Wonderland, dopo aver inalato la fiala misteriosa Robin si è trasformata in un cartoon, così come la decappottabile che guida e il mondo intorno a lei. Ospite d’onore al Miramount Hotel di Abrahama City, riceve una nuova proposta di contratto dall’avido direttore della Miramount.
I film sono ormai “old news” e schiere di sceneggiatori sono costretti a lavorare a forza di antidepressivi a ritmi da allevamento intensivo. L’industria dell’intrattenimento sta per entrare in una nuova fase e gli studi cinematografici Miramount si sono uniti alla casa farmaceutica Nagasaki: gli attori, non più immagini computerizzate, diventeranno esperienze smaterializzate fruibili grazie a sostanze messe a punto allo scopo.

Nell’era della “libera scelta” gli spettatori potranno acquistare fantasie, sogni ed esperienze psichiche, e immaginare i loro attori preferiti in qualunque veste e ruolo, anche porno. Basterà bere o inalare una fialetta. Durante una pungente e spaventosamente calzante parodia di una convention Apple (con tanto di presidente idolo delle folle “Reeve Bobs”), Robin è invitata a presentare come testimonial questa nouvelle vague psicotropa, ma una volta sul palco, in un impeto di ribellione, critica duramente il nuovo sistema. Nello stesso momento la situazione degenera e il congresso viene attaccato da ribelli non meglio precisati, probabilmente decisi a strappare l’umanità a un futuro di manipolazione di massa operata dai colossi cinematografici-farmaceutici.
Robin viene messa in salvo da Dylan, l’uomo che per anni si era occupato dell’animazione del suo personaggio presso gli studios ed è finito per innamorarsi del suo avatar. Sfuggita ai tafferugli dell’hotel, Robin viene ibernata per anni prima di risvegliarsi in una New York psichedelica (che ricorda i toni surreali e freak di Heavy Traffic di Bakshi del 1973), dove i corpi si trasformano e fluttuano senza sosta essendo, in definitiva, nient’altro che la proiezione di un pensiero o una fantasia.

Questa “Festa Chimica” è una sgargiante carrellata di colori pop, un trip carnevalesco popolato da infinite copie di miti del cinema e icone dello spettacolo, rigorosamente in versione lisergica. Tutti possono diventare cosa o chi vogliono: Gesù Cristo, Michael Jackson, Cassius Clay, Marilyn Monroe, Ronald Reagan… Robin decide di mettersi alla ricerca del figlio Aaron e assume una sostanza che permette di abbandonare le illusioni chimiche. Squarciando il velo di Maya, Robin si ritrova dall’altra parte della Festa Chimica, in un mondo “reale” lucido ma cupo fino alla disperazione. Quando scopre che Aaron ha da poco abbracciato l’illusione chimica, Robin, in un finale aperto e onirico, torna nel mondo dei sogni per raggiungerlo.Mondi che non esistono: omnis est pillula
In effetti, The Congress porta alle estreme conseguenze un classico topos della fantascienza: la paura che quello che vediamo e viviamo non sia che un’illusione, un’allucinazione, una menzogna solipsistica. Il problema gnoseologico della realtà fittizia è stato ampiamente trattato in letteratura, dal racconto Il Veldt di Ray Bradbury risalente al 1950 alle opere di Philip K. Dick (fra le altre, Tempo fuori sesto e Ubik, rispettivamente del 1959 e del 1969), a Simulacron-3, romanzo di Daniel F. Galouye (1964) a cui Fassbinder si sarebbe ispirato per il suo Il mondo sul filo (1973), o ancora a Le piume di Vurt di Jeff Noon (1993). Naturalmente anche il cinema ha prodotto infinite variazioni sul tema: Ricomincio da capo (1993), The Truman Show (1998), Matrix (1999).

Lo stesso Lem si era già cimentato con il tema della realtà simulata: i dubbi che attanagliano lo psicologo Kelvin in Solaris (1961) sono molto simili a quelli di Ijon Tichy, protagonista de Il congresso di futurologia. Lem tornerà sull’argomento nel 1974, in un racconto contenuto nella raccolta Vuoto assoluto, Non Serviam, in cui si parla di personetica, ovvero la disciplina che si occupa della simulazione di esseri pensanti programmati al computer.
Questo genere di ipotesi ha conosciuto un grande successo anche in ambiente filosofico, fino ad una delle sue formulazioni più conosciute per mano del filosofo di Oxford Nick Bostrom, che suggerisce che la realtà sia una simulazione operata da esseri dall’intelligenza superiore. Se nel filone della realtà simulata si ricorre per lo più a modelli di tipo informatico e matematico, ne Il congresso di futurologia, la realtà virtuale è frutto di artifici chimici, nient’altro che un’allucinazione indotta da sostanze psicotrope.
Questa volta è l’industria farmaceutica ad incarnare perfettamente la figura del genio maligno di derivazione cartesiana, un’entità che si prende gioco degli uomini, fino ad illuderli di vivere un’esperienza reale. Una “criptochemiocrazia”, quella ipotizzata da Lem, che plasmando alla radice le esperienze psichiche delle persone, ne annichilisce l’autodeterminazione e la libertà. Sentimenti spontanei e quelli chimicamente indotti sono ormai indistinguibili.
Il film di Folman glissa su molti degli aspetti “tecnici” di questa farmacocrazia che invece sono descritti nel dettaglio nel romanzo. E vissero impasticcati e felici
Scatenandosi in un divertissement di neologismi, Lem illustra un campionario di sostanze, messe a punto e commercializzate per ottenere effetti specifici: “contestan” e “protestolina” per sviluppare la personalità nei bambini, “cooperandol” e “sordina” per calmare gli animi, “amnestan” e “mnemolitina” per cancellare i ricordi sgradevoli.
Esistono anche farmaci capaci di produrre ricordi sintetici che non si sono mai vissuti davvero, il che ricorda un po’ i ricordi artificiali impiantati agli androidi di Dick. Con le compresse di “algebrina” si può imparare la matematica senza sforzo, con la stessa facilità con cui il Neo di Matrix diventerà un esperto di arti marziali “caricando” le informazioni nel suo cervello. I “deallucinogeni”, infine, sono farmaci che illudono di non illudersi. C’è perfino la possibilità di consumare esperienze ad hoc: quella di vincere un premio Nobel o di picchiare un vicino per dare sfogo ai propri impulsi sadici. D’altra parte, se i governi si fondano sugli allucinogeni, la farmacopea “è il libro della vita, l’enciclopedia dell’essere, l’alfa e l’omega”.

Un impianto fantascientifico sicuramente lungimirante nel preconizzare certe derive della società, si pensi ad esempio all’uso dilagante di psicofarmaci. Ironicamente, anche le moderne teorie del complotto sembrano aver attinto a piene mani dal romanzo di Lem, che aveva scritto di cittadini drogati in massa tramite sostanze nebulizzate ben prima che si parlasse di scie chimiche.
Il film di Folman personalizza e aggiorna i contenuti del libro a cui si ispira introducendo un altro elemento cardine: la forza inoppugnabile dei poteri mass-mediatici, capaci di manipolare chimicamente le masse attraverso la joint-venture con l’industria farmaceutica e indurle in una spirale consumistica e spersonalizzante.
Un leitmotiv, quello del controllo sociale operato nascostamente dai media, che aveva già ispirato numerose opere di fantascienza, come il racconto Il tunnel sotto il mondo di Frederik Pohl del 1955 e il romanzo La colazione dei campioni di Kurt Vonnegut, del 1973, prima di diventare un tema popolarissimo con il film The Truman Show di Peter Weir.
Lo scenario sociopolitico delineato in The Congress mette inevitabilmente in discussione qualsiasi premessa di libertà e autodeterminazione: fino a che punto siamo davvero padroni e artefici dei nostri desideri? E ancora, quando Robin riesce a rintracciare suo figlio, raggiunge davvero uno spazio intersoggettivo, una fantasia chimica condivisa, o si tratta di una percezione ingannevole, dell’ennesima, deliziosa beffa della nostra chimica cerebrale manipolata? Confrontarsi con il testo di Lem è sicuramente un’impresa ambiziosa e la trasposizione cinematografica di Folman necessariamente sacrifica, modifica o ribalta alcuni elementi del libro, a volte a scapito della chiarezza e della comprensibilità. Rispetto alla fluida linearità del testo letterario, The Congress è un progetto titanico e impavido, che gioca ambiziosamente la carta dell’eccesso. Strabordante e psichedelico, il film attinge sfrenatamente ad un repertorio animato stilisticamente eterogeneo, dando origine ad una fantasmagoria pop di grande forza espressiva, per quanto a tratti confusa e sbilanciata.
Se la varietà dei registri del film (dall’umorismo sferzante ai toni melò) e le connessioni non sempre impeccabili tra i vari passaggi rischiano di rendere alcune parti disorganiche e un po’ forzate, questa inafferrabile eccentricità fa parte della ricchezza di un film originale e incasellabile, destinato a scardinare ogni pretesa logica. La soluzione migliore per godersi quest’opera è probabilmente abbandonarsi alla sua potenza visionaria e allucinata, come ad un sogno (o un trip) ad occhi aperti. Si rischia un leggero stordimento, ma ne varrà la pena.

LETTURE
––   Ray Bradbury, Il Veldt, in Cento racconti, Mondadori, Milano, 2013.
––   Philip K Dick, Tempo fuori sesto, Fanucci, Roma, 2012.
––   Philip K Dick, Ubik, Fanucci, Roma, 2013.
––   Daniel F. Galouye, Simulacron-3, in Psychon e altri simulacri, Mondadori, Urania, 2008.
––   Stanisław Lem, Il congresso di futurologia, Marco Y Marcos, Milano, 2003.
––   Stanisław Lem, Solaris, Sellerio, Palermo, 2013.
––   Stanisław Lem, Vuoto assoluto, Voland, Roma, 2010.
––   Jeff Noon, Le piume di Vurt, Frassinelli, Milano, 1993.
––   Frederik Pohl, Il tunnel sotto il mondo, in Le grandi storie della fantascienza 17, (a cura) di Isaac Asimov, Bompiani, Milano, 2012.
––   Kurt Vonnegut, La colazione dei campioni, Feltrinelli, Milano, 2005.

VISIONI
––   Ralph Bakshi, Fritz the Cat, MGM, 1972.
––   Rainer Werner Fassbinder, Il mondo sul filo, WDR, 1973.
––   Ari Folman, Valzer con Bashir, Lucky Red 2013 (home video).
––   Richard Linklater, Waking Life, 20th Century Fox, 2003 (home video).
––   Alessandro Rak, L’arte della felicità, Dynit Istituto Luce, 2014 (home video).
––   Harold Ramis, Ricomincio da capo, Sony Pictures, 2008 (home video).
––   Marjane Satrapi, Vincent Paronnaud, Persepolis, Bim, 2013 (home video).
––   Peter Weir, The Truman Show, Paramount, 2009 (home video).
––   Andy e Larry Wachowski, Matrix, Warner Bros, 1999 (home video).