Una vocazione parallela:
il saggista Eugenio Montale

Eugenio Montale
Sulla poesia
A cura di Ida Campeggiani

Mondadori, Milano, 2023
pp. 533, € 14,00

Eugenio Montale
Sulla poesia
A cura di Ida Campeggiani

Mondadori, Milano, 2023
pp. 533, € 14,00


Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che ogni autentico poeta tende (o finisce per ritornare) alla prosa, può trovare conforto nell’affermazione spesso ripetuta da Eugenio Montale che “il linguaggio poetico tende a farsi sempre più prosastico”. E che ci sono poeti che si esprimono in prosa, mentre non sempre il comporre in versi è poesia tout-court.
Montale scrisse versi per circa trentacinque anni fino al 1954-56 (nel 1956 uscì il suo terzo libro di poesie, La bufera e altro, fra l’altro lo stesso anno di Laborintus di Edoardo Sanguineti), e si dedicò quasi interamente all’attività di giornalista, dal 1948, quando fu assunto come redattore del Corriere della Sera. Lo racconta lui stesso in Sulla poesia, che è la riproposta dei saggi e degli articoli sulla poesia e sui poeti (italiani, francesi, angloamericani), la cui prima edizione risale al 1976, l’anno successivo al conferimento del Nobel per la letteratura al poeta ligure. E in questa antologia sono posti in apertura Dante ieri e oggi e proprio il discorso di Montale all’Accademia svedese in occasione del conferimento del premio, È ancora possibile la poesia?: discorso prezioso per le considerazioni che l’autore sviluppa sulla poesia in generale e sulla sua in particolare. Così questo libro diventa il più importante contributo insieme ad Auto da fè e Farfalla di Dinard, del Montale prosatore.

Un’antologia di saggi di Montale fu progettata da Luciano Anceschi all’inizio degli anni Cinquanta. Avrebbe dovuto comprendere saggi su poeti e prosatori, pagine di argomento generale, e sarebbe stata di mole ragionevole. Il progetto di Anceschi si è realizzato venticinque anni dopo e solo in parte. Sulla poesia, infatti, comprende un terzo delle centinaia di articoli e saggi composti da Montale in più di mezzo secolo. Gli scritti su prose di narrativa e di saggistica, assai più numerosi di quelli raccolti in questo volume, appariranno nel 1977. Insieme con una scelta (esigua per volontà dell’autore) delle numerosissime cronache musicali. A parte le trecentocinquanta pagine di Auto da fè, uno dei libri in cui lo Zeitgeist per riprendere un termine usato da Montale con chiarezza sempre maggiore, bisogna ammettere che il Montale critico è ancora in larga parte da scoprire. Il valore di questa nuova riedizione è duplice, come ribadisce Ida Parmeggiani nell’introduzione:

“da un lato, infatti, questo libro permette di accostare in modo nuovo e approfondito numerosi autori di varie letterature, dall’altro offre la possibilità di entrare nel vivo e nel dettaglio dell’opera stessa di Eugenio Montale. Sulla poesia, apparso per la prima volta nel 1976, è infatti un libro composito e interamente articolato in nove capitoli, nei quali il poeta è presente con discorsi (ad esempio quello scritto in occasione del Nobel) autocommenti e interviste, ma soprattutto ragiona su figure di epoche e culture diverse. Eccoci allora, in questi interventi per lo più usciti su riviste e giornali, come il Corriere della Sera, di fronte a nomi di grandi poeti molto lontani tra loro: da figure centrali dell’Ottocento a Paul Valéry, Thomas Sterns Eliot, Ezra Pound, W.H. Auden, Saint-John Perse, Char, ma anche Jiménez, Kavafis, Mayakovskij, Pasternak, fino ai nostri D’Annunzio, Pascoli, Gozzano, Campana, Sbarbaro, arrivando ad autori di generazioni successive, come Bertolucci, Sereni, Zanzotto”.

Sulla poesia si apre come si è detto con Dante ieri e oggi, discorso tenuto da Montale in occasione del settimo centenario (1965) dalla nascita dell’Alighieri. Pur non potendo in questa sede soffermarci troppo su questo scritto, dobbiamo almeno sottolineare alcuni punti-domande che Montale pone a stesso e all’uditorio e che restano attuali ancora oggi. Questioni attuali e non del tutto risolte. La prima domanda è “Dante è un poeta moderno?”. La risposta (e convincimento) di Montale è no, non è un poeta moderno, “il che non può impedirci di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un’altra conclusione: che noi non viviamo più in un’era moderna, ma in un nuovo medioevo di cui non possiamo ancora intravvedere i caratteri”.
Il secondo punto-interrogativo chiave è:

“che cosa significa l’opera di Dante per un poeta d’oggi? Esiste un suo insegnamento, un’eredità che noi possiamo raccogliere? Se consideriamo la Commedia come una summa e un’enciclopedia del sapere la tentazione di ripetere e di emulare il prodigio sarà sempre irresistibile; ma le condizioni del successo non esistono più. […) non sembra che in un mondo in cui l’enciclopedismo non forma più una sfera, ma un immenso coacervo di nozioni che hanno carattere provvisorio, si possa più ripetere in una forma ampiamente strutturata e con una inesauribile ricchezza di significati palesi e occulti l’itinerario di Dante”.

E su questo punto riteniamo più facile concordare con le osservazioni di Montale.

Quindici anni di silenzio poetico
L’attività di Montale critico letterario e musicale nasce abbastanza tardi, nel 1948 quando cominciò a lavorare come redattore al Corriere della Sera. Ricordiamo che dal 1929 al 1938 Montale aveva diretto il Gabinetto Viesseux a Firenze da cui fu poi allontanato per “insufficienze politiche”: non aveva, cioè, la tessera del partito fascista. Fra il 1956, anno in cui uscì per Neri Pozza La bufera e altro, terza raccolta poetica di Montale, e la pubblicazione della quarta (Satura, 1971), l’unico libro pubblicato da Montale è Auto da fè (1966), una scelta di novanta articoli sull’arte, la poesia e il loro ruolo nella società. Sono quindici anni di silenzio poetico. Eccone le ragioni spiegate in un’intervista del 1962, riproposta in Sulla poesia:

“Prima di tutto ho avuto l’impressione che avendo già pubblicato tre libri, che sono in definitiva tre parti della stessa autobiografia, potevo anche tacere, perché avevo detto già tutto l’essenziale. Poi c’è stata l’inflazione poetica che mi ha intimidito, essendo presenti sul campo migliaia di poeti nuovi pensavo che bisognasse cedere il proprio posto a loro. E ancora un po’ lo penso. Terzo motivo. Mi sono messo a scrivere in prosa. Ho composto anche dei racconti che sono stati pubblicati ne La farfalla di Dinard. Quarto: l’attività giornalistica non permette questa specie di otium, di vacanza interiore, che è necessaria, almeno a me, per la poesia”.

L’approccio, soprattutto personale, di Montale alla poesia è nello stesso tempo improntato a britannico understatement e a originale universalizzazione estetico-filosofica. Le due dimensioni convivono quasi sempre e basterebbe solo citare dal discorso succitato tenuto all’Accademia di Svezia e dal saggio pubblicato su Il Mondo nel 1962 sull’estetica di Benedetto Croce.

“In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è un’entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”.

Questo disse Montale agli accademici svedesi: parole ancora attualissime, soprattutto per la sottolineatura che la poesia non si valuta con il metro del sarto o un tanto al chilo. Ossi di Seppia, Le Occasioni e la Bufera, le prime tre raccolte di Montale valgono almeno un centinaio di libri scritti e pubblicati da molti contemporanei osannati da quotidiani e televisioni come grandi poeti. A proposito di Croce, Montale scrive in uno dei saggi più lunghi inclusi in Sulla Poesia:

“Io non credo che la poesia scritta, il quadro dipinto, la musica segnata sul pentagramma siano doppioni di una loro immagine ideale preesistente nell’anima dell’artista. L’artista è tale solo in quanto crea un oggetto nel quale si riconosce e che non era esattamente nelle sue previsioni. Ma questo non può farci credere che l’arte coincida con la tecnica e che l’analisi dei procedimenti tecnici dell’artista esaurisca il compito della critica. In parole povere, la tecnica è presente in ogni opera d’arte ma non è l’arte e non fa l’arte, perché in se stessa è perfettamente imitabile e si può studiarne il progresso, mentre nessun essere ragionevole, almeno in Italia, crede nel progresso dell’arte. Ed anche questo lo dobbiamo a Croce”.

Nella formazione del giovane Montale, ai tempi di Ossi di Seppia, Benedetto Croce – il Croce dell’Estetica e della Aesthetica in nuce – lasciò un’impronta non meno indelebile di filosofi come Émile Boutroux e Henry Bergson, che tra l’altro Montale conobbe in via indiretta. Dall’articolo L’estetica e la critica (uscito su Il Mondo nel 1962):

“In quella sua opera Croce veniva incontro a una concezione della poesia che da molti anni stava facendosi strada. Io avevo già letto i poeti, non i teorici della poesia; e i poeti che avevo letto erano tutti concordi nel cercare la poesia fuori dell’eloquenza, fuori della retorica, fuori di tutto quello che in una composizione poetica può essere edonistico, discorsivo, decorativo (o meglio illustrativo), fuori insomma dei torbidi ingorghi di ciò che i filosofi idealisti consideravano come spirito pratico, utilitario”.

L’understatement genovese-britannico di Montale lo porta, in questi saggi e nelle interviste, addirittura ad attenuare la precocità della vocazione poetica:

“Scrissi i primi versi da ragazzo. Erano versi umoristici, con rime tronche bizzarre. Più tardi, conosciuto il futurismo, composi anche qualche poesia di tipo fantaisiste o se si vuole grottesco-crepuscolare. Ma non pubblicavo e non ero convinto di me. Ambizioni più concrete e più strane mi occupavano. Studiavo allora per debuttare nella parte di Valentino nel Faust di Gounod; […] i pronostici erano ottimi, ma quando morì il mio maestro, Ernesto Sivori, uno dei primi e più acclamati Boccanegra, mutai rotta, anche perché l’insonnia non mi dava tregua”.

Disarmonia tra l’io e la realtà
Abortita nel suo nascere la prima vocazione musico-canora, la poesia comincia a imporsi come un’alternativa artistico-espressiva forse anche più congeniale al futuro poeta degli Ossi di seppia. E la sua poesia, come si renderà conto chi leggerà questa riedizione di Sulla Poesia, è molto più filosofica di quanto Montale stesso tenda ad ammettere. Arsenio, uno dei personaggi e avatar montaliani protagonista dell’eponima poesia degli Ossi di seppia, pubblicata poi sul Criterion, è un perfetto manifesto della prima poetica montaliana insieme a Meriggiare pallido e assorto, il verso di Montale forse più inciso nella memoria collettiva, incipitario di una poesia scritta da Montale addirittura nel 1916, dieci anni prima della pubblicazione degli Ossi di seppia con le edizioni di Piero Gobetti. Il contrasto tra condanna al determinismo fenomenico dell’esperienza quotidiana e anelito alla fuga (“tu balza fuori, fuggi!”, da In limine, in Ossi di seppia) che è simbolo di tensione metafisica, trascendente, si esplicita nelle metafore della “maglia rotta nella rete” (ibidem).
Arsenio è una poesia esemplare di quello che possiamo definire come un breve quadro narrativo in versi. Qui il poeta filma un momento particolare della giornata – l’imminente scatenarsi di una tempesta – nel quale il rapporto tra l’uomo inteso come Umanità (rappresentato da Arsenio) e il fenomeno temporalesco descritto rivive nella cifra simbolica dell’evento che potrebbe sconvolgere, in senso metafisico, la trama ordinata e prevedibile del reale: i primi effetti di questa perturbazione sono il “segno d’un’altra orbita”: il poeta esorta Arsenio a discendere verso l’orizzonte,  a non temere quel turbamento degli elementi e dell’ambiente,  ma a vedere in esso il principio di una rivelazione, di una nuova libertà: “quell’istante/è forse molto atteso, che ti scampi /dal finire il tuo viaggio, anello d’una/catena, immoto andare, oh troppo noto/delirio, Arsenio, d’immobilità…”.  Una poesia fortemente descrittiva e simbolica nello stesso tempo:

“I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…”
(Montale, 2023).

L’immoto andare, il delirio d’immobilità: due ossimori che scolpiscono l’assurdo della nostra esistenza che è un continuo e frenetico girare nel nulla e intorno al nulla. Ma da dove nasce la poesia di Montale? Ce lo dice lui stesso.

“Avendo sentito sin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di un maladjustment psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche”.

“Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini, ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile”.

Dunque questo libro è doppiamente utile: aiuta a conoscere la poetica e l’estetica di Montale (soprattutto attraverso gli articolo della sezione Sulla poesia, e le interviste e le auto-interviste) e a capire il suo giudizio su un ampio spettro di poeti italiani del Novecento: da Camillo Sbarbaro e Dino Campana, a Umberto Saba, Corrado Covoni, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Antonia Pozzi fino ad Andrea Zanzotto. Per riprendere le parole di Giorgio Zampa (nella postfazione della prima edizione, che in questa riedizione non è ripubblicata),

“attraverso le sezioni di questo volume sono visibili i tre binari – italiano, francese, anglosassone – lungo i quali ha proceduto Montale. […] La poesia francese ha avuto un’attenzione assidua ed estesa: da Baudelaire in poi, non c’è aspetto di essa che Montale non abbia esplorato. Ma i poeti anglosassoni lo hanno forse più attratto, e arricchito di maggiore sostanza. La costellazione Keats-Shelley-Browning, è visibile all’invio della sua carriera; seguono Eliot, Pound, Hopkins, la Dickinson, Hardy, Auden, Dylan Thomas, il lungo intermezzo shakespeariano”
(Zampa, 1976).

Montale insiste più volte su una definizione della poesia formulata dal matematico e poeta Tommaso Ceva (1649-1736): un sogno fatto alla presenza della ragione. Definizione perfetta anche per la Divina Commedia, che nella sostanza è la visione di un mondo immaginario e reale nel contempo, descritto con la lucidità del cronista, cui non sfugge nulla della vita terrena e cosmica. Oggi invece, secondo un’affermazione di Montale, tuttora valida: “Un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che s’incarica di sfuggirgli”.

Letture
  • Eugenio Montale, Auto da fé, Mondadori, Milano, 2016.
  • Eugenio Montale, Tutte le poesie (a cura di Giorgio Zampa), Mondadori, Milano, 2023.
  • Giorgio Zampa, Postfazione, in Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano, 1976.