Reinventarsi sardi
in una narrazione corale

Sergio Atzeni
Passavamo sulla terra leggeri
Prefazione di Marcello Fois
Sellerio Editore, Palermo, 2023
pp. 272, € 14,00

Sergio Atzeni
Passavamo sulla terra leggeri
Prefazione di Marcello Fois
Sellerio Editore, Palermo, 2023
pp. 272, € 14,00


Scrive Marcello Fois nella prefazione alla recentissima edizione Sellerio del romanzo di Sergio Atzeni Passavamo sulla terra leggeri:

“Lo scrittore endemico si riconosce da un’idea sovrana della scrittura, scevra da qualunque catarsi o riconoscenza che lo uniformi. Per gli scrittori della portata, e della competenza, di Sergio Atzeni è impossibile scrivere per un fine se non quello di rifare il mondo, reiventarne le leggi fisiche, imporne il proprio marchio. Si scrive per esporre, con autorevolezza, la propria variante con l’intento di farla percepire come unica, come autentica. In pratica si diventa cantori di un popolo solo a patto che ciò avvenga per acclamazione e alle proprie condizioni. Abitando il potere di condurre una narrazione come un’irrealtà che produce una realtà possibile a cui piace immensamente credere. Il sistema più pratico per ottenere questa credibilità è quello di sapere dosare genialmente il vero e il falso: la pignoleria, fino alla pedanteria, dei riferimenti cronologici e topografici versus la disinvoltura con cui si immagina una vicenda dichiarata storica”.

Scrive questo Marcello Fois sul suo conterraneo concentrando, assai efficacemente, in poche righe il nucleo identitario del più famoso romanzo dell’autore isolano nato in provincia di Cagliari nel 1952 e morto nell’isola di San Pietro nel 1994 quando, seduto su uno scoglio, un’onda lo travolse risucchiandolo in mare e portandolo definitivamente via da quella terra di cui seppe essere un cantore tra passato e innovazione, nella conciliazione della memoria con la coscienza dei limiti del suo presente e la conseguenziale generazione di un piano narrativo, sia storico che estetico ed espressivo, fino ad allora in qualche modo mai concepito in quei confini. Sapersi muovere lungo i bordi, nei limbi, nelle intersezioni tra il nero e il bianco, tra verità e finzione, tra realtà e costruzione onirica, è merito di pochi, oltre che attitudine che presuppone una conoscenza talmente ampia e profonda degli accadimenti reali di cui consta lo scenario storico da potere essere travalicata senza che il lettore ne abbia la minima percezione. Equilibrio complesso che esige massimo rigore. Perché in questo consiste il processo creativo che sta alla base del romanzo di Atzeni, nel tentativo di ripercorrere la storia del popolo sardo attraverso la rappresentazione di quella che potrebbe dirsi un’epopea se a farla fossero degli eroi canonicamente intesi, esseri a metà strada tra umano e divino le cui gesta eroiche celebrate nella dimensione narrativa dell’epica si fondono al dato storico generando la leggenda, lo spazio che la storia lascia libero e funzionale alla ricchezza dell’immaginario dei posteri.

Nonostante dell’eroismo classicamente concepito qui esista poco se non nell’aspetto bellico tratteggiato con dettagliata violenza e con tali vertici di sanguinolenta visione da condurci in qualche modo nella primigenia spirale dei versi omerici dell’Iliade, all’interno del romanzo quella adottata è la soluzione di fare confluire la realtà storica in un potenziale fantasmagorico, che deve fare i conti con lo spirito sardo estremamente concreto, pur se tra le righe di uno scrittore come Sergio Atzeni: essa nasce, esattamente come l’epica, dall’esigenza di tramandare, oralmente prima, l’origine del popolo sardo e il suo evolversi o resistere nel confronto con l’altro. È il depositario del racconto a cui Antonio Setzu si rivolge a raccontare il tutto, facendosi il destinatario una sorta di erede e custode di quella storia. I due interlocutori di questo legame di trasmissione ereditaria non hanno un’identità specificamente e fortemente connotata: sono entrambi parti, in apparenza passive, del processo metastorico narrato e recepito. In realtà, sono il tramonto e l’alba, la vita sul finire che si lascia ascoltare e la vita che si affaccia al mondo carica di un’eredità imponente. Lo dice l’incipit che accenna quasi a una sorta di percorso iniziatico:

“Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola”.

Dunque, non solo la ben miscelata confluenza di un apparato storico e immaginifico di una tale portata da generare un senso di smarrimento, quasi ne fosse biblica la suggestione, ma la coscienza che la storia di un popolo non possa prescindere da quella individuale, rapportandosi l’abnormità della prima con l’essere a digiuno, nella singolarità esistenziale, della complessa legge dello stare al mondo che, conosciuto il male, impone l’uso della forza, l’impiego della violenza, la risposta alla coercizione quale esecrabile, ma necessitato, per ottuso umano sguardo, rimedio nell’impossibilità di dialogo lungo le falle degli assetti politici che più o meno stabilmente si affacciano sull’isola. La storia si compone di tempi alternati e l’origine si racconta felice, una laica rappresentazione di un Eden locale, ma nulla è destinato a rimanere uguale per sempre. Gli uomini incontrano altri uomini e crescono, ma confliggono anche, nella logica delle relazioni tra i medesimi sovrastata dal desiderio di dominio. Ce lo dice Atzeni:

“Eravamo incuriositi dal proliferare di dèi ma nessuno ci pareva più grande e saggio del dio tramandato dagli antichi, il creatore che parla nel cielo notturno. Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”.

Un principio, un’origine che nella natura ha il suo vertice, che volge lo sguardo al cielo nella possibile determinazione conseguenziale della propria limitatezza. In fondo, i sardi etimologicamente, in un piano di poetica finzione, sarebbero “danzatori delle stelle”. Leggeri, dunque, come il loro passo. Coscienza e aspirazione: mancanza e desiderio. Umano e apparato divino. Pur senza eroi classici, la storia sarda si palesa fonte di un margine di storia non scritta in cui lasciare che accada l’imprevisto, che si manifesti l’ignoto, che si ribalti l’ordine precostituito delle cose umane. Quasi un’esplorazione che passa dall’oralità e investe la dimensione privata dell’esistenza dell’uomo che quella storia attraversa:

“Parlare. Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. Scoprire l’altro nelle storie che racconta”.

Sarebbe esclusivamente una storia di resistenza quella sarda, ricostruita da Atzeni con dovizia di particolari e riuscito popolamento di personaggi che ne racchiudono lo spirito ostinato e battagliero, a ben guardare, da entrambi i lati, nell’avvicendamento di categorie di dominatori e dominati sull’isola, se non fosse per una nota che impone di entrarci dentro con occhio più attento, oltre che per la leggenda, il folklore, l’idillio e la narrazione dei riti iniziatici che la attraversano. Scrive Fois, ancora nella prefazione:

“Siamo un organismo senza Storia, abbiamo infilato i secoli in un setaccio a maglie strettissime che ha selezionato e fatto passare materiali sottilissimi, ma spesso ininfluenti, a danno di sistemi ponderosi, e determinanti per chiunque abbia la passione, e il coraggio, di un’autoanalisi senza sconti. E l’abbiamo fatto noi”.

Un’ammissione di colpa, quella di Fois, e in qualche modo l’attribuzione di un senso preciso alla memoria e al suo passaggio di generazione in generazione attraverso la dimensione indispensabile del racconto che reinventando gli accadimenti storici offre l’opportunità di uno stravolgimento delle coordinate stantie che collocano il popolo sardo unicamente nella posizione ostinata di un resistente senza speranza. Ma l’immaginazione è più potente della miseria della realtà, si appella a un’antica era felice, la rende oggetto di narrazione e, nella confusione dei tempi, la genera anche, producendo non l’occasione per evadere dalla tristezza di un’omologazione al vincitore, al dominante di turno, ma lo spazio libero in cui nulla è certo, tranne il rapporto quasi panteistico del popolo sardo con la natura, la loro fedeltà al passato, la loro irriducibilità a una mera condizione di sottoposti. Ora, se è vero che l’opportunità offerta dalla miscellanea storia-finzione è lo strumento di un’altra narrazione possibile con cui lo scrittore sardo omaggia il suo popolo, è altrettanto vero che indirettamente ne riconosce i limiti, gli stessi ammessi da Fois:

“Se anche lontanamente assomigliassimo all’immagine che ci piace di noi tutto questo non sarebbe accaduto: parleremmo correntemente il sardo, con l’italiano e magari con l’inglese; saremmo danzatori provetti in piazza, non certo spettatori per chi balla sui palchi; saremmo appassionati di chi ci pone domande che di chi ci dà le risposte che vogliamo sentirci dare”.

Pur nell’ammissione di colpa, l’omaggio offerto alla sua terra da Sergio Atzeni passa non solo dalla necessità della reinvenzione, ma anche dall’inserimento nella trama storico-narrativa di una figura che accompagna il popolo sardo nell’attraversamento delle epoche che Antonio Setzu consegna a colui che di quella storia si fa erede e custode. Pur nella variazione degli assetti politici delle varie anime sarde che, dislocate diversamente, in funzione di istinti vitali che passano dall’esigenza di difesa e sopravvivenza, subiscono in qualche modo l’ingresso dello straniero con cui il confronto è passaggio inevitabile di avanzamento di corsi e ricorsi storici, qualcosa permane: è il giudice, colui che, fin dalla primigenia forma tribale di costituzione civile, dirime le controversie, decreta il giusto alla luce di un diritto che travalica il tempo storico e lo spazio dell’invasore.
Il diritto, l’oralità delle norme consuetudinarie che si affermano per il buonsenso di un latore di verità possibili, prescinde dall’esterno, dal volere di chi pretende di esercitare un potere assoluto in quelle terre intimamente refrattarie al dominio altrui. Il giudice è uomo o donna tra gli uomini e le donne, è depositario di una verità possibile, non perché essa si palesi al pubblico come calata dall’alto, ma perché frutto di esperienza e di ascolto di chi non confonde la giustizia con l’occasione dell’esercizio di un potere politico e radica la propria decisione a un substrato terreno impastato di equilibrio, concretezza, raccordo compromissorio tra le parti in funzione di un abbattimento della conflittualità. Perché “meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori”. È in essi, nei giudici, la garanzia della permanenza dell’anima sarda, la resistenza di un popolo ostinato e succube all’avanzare delle pretese di dominio altrui. Non sfugga al lettore che lo scrittore decide di fare coincidere la fine della civiltà giudicale con la sottrazione, sebbene vana in ultima istanza, a opera del popolo romano del libro eterodosso, l’eretica interpretazione del messaggio evangelico che giunge in Sardegna per mano di un marinaio egiziano e, consegnato a un bambino acclamato portatore di luce, Lucifero appunto, congiunge l’anima sarda allo spirito rivoluzionario di Cristo senza intermediari.

Testo estremamente complesso quello di Sergio Atzeni perché nella costruzione della storia egli non si limita a sbrogliare una generica matassa di trame, ma se ne fa cantore attento e responsabile, quasi temesse la perdita di qualche dettaglio senza il quale il tempo custodito da Antonio Setzu e lasciato in eredità ai posteri potrebbe essere tradito. Eppure un presunto tradimento è già stato compiuto perché l’oralità della storia è il limite e la ricchezza dell’atto del tramandare: una garanzia di un lascito dai contenuti vacillanti. Ma Atzeni scrive, porta sulla pagina scritta la storia narrata da Antonio Setzu in una sera estiva del 12 agosto 1960. E, in qualche modo, ferma il flusso della storia nei termini raccontati, ma anche ricordati, quasi a rammentarci che la scrittura non è mai, anche quando si pone diversamente, fedeltà a una verità assoluta. Costruzione, quella del romanzo, che parte con tono epico per poi assestarsi lungo coordinate paratattiche, ingresso opportuno a un continuum di azioni entro cui non si risolve mai la poetica dello scrittore. Perché di là dall’uomo c’è il “mese delle mandorle aspre”, quello “del vento che piega le querce”, “del sole che asciuga l’uva e dà forza al vino”, “della neve” e quello “dell’asfodelo”, c’è “l’acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci”, ci sono piane e paludi fertili, monti ricchi di pascolo e fonti. C’è tutto quello che non siamo e non possiamo agire. L’imprevisto. La vita, ben oltre quella umana, che ci sovrasta.