OMBRE FLUTTUANTI E DISSOLVENZE SPETTRALI NEL SOGNO D’INNOCENZA DI UN CRAP ARTIST di Linda De Feo |
courtesy
of the Philip K. Dick Trust Tutta la produzione dickiana, come Boivin sembra acutamente cogliere, è attraversata dalla vibrante ripercussione del vuoto: “nulla di ciò che potevano fare aveva importanza. Erano ormai polvere radioattiva, tutti quanti. Solo manciate di polvere bruciata, nera e radioattiva” (Confessioni di un artista di merda, p. 147). Jack-Barjo dunque è costretto a rinunciare a garanzie di comodo, come quelle che si fondano sull’idea di potersi affidare a una qualche forma di provvidenzialità, razionalità o necessità: non leggi, né logiche conseguenze di principi sono alla base degli eventi, che si verificano senza regolarità, e dei quali inutilmente si ricerca la causa nei salti di una temporalità discontinua, scardinata, out of joint, o addirittura invertita, upside down, che dunque non procede linearmente, ma per rotture e capovolgimenti. Le forze cosmiche militano contro l’immutabilità della rutilante realtà, e, con lo sgretolarsi delle costruzioni simbolico-culturali, fugaci e deperibili, l’individuo dickiano si trova improvvisamente ad affrontare il problema di trattare con il mondo al di là del suo Io, del suo consueto sé sociale, e di patteggiare, quindi, con l’altro: il soggetto, incarnato efficacemente da Jack-Barjo, destinato fatalmente alla dissoluzione, diviso dall’ambiente, tende, con tutta probabilità, a divenire sempre più diviso anche da se stesso, sempre più disintegrato e sempre più alienato (Taylor, pp. 296-297). Come tutti i romanzi animati da principi etici di affievolita risonanza metafisica, ma radicati nei movimenti e nelle esperienze di vita, Confessions of a Crap Artist, proiettando i suoi potenti riverberi sulle immagini delle Confessions cinematografiche, consuma interamente il proprio significato nel modo stesso in cui inizia: “Io sono fatto di acqua. […] Anche i miei amici sono fatti di acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno, ma anche che dobbiamo guadagnarci da vivere. In realtà c’è un problema ancor più grosso. Dovunque andiamo non ci sentiamo a casa nostra. Perché?” (Confessioni di un artista di merda, p. 15). Dall’incipit, ricorso a una tragedia che continua incessantemente a compiersi, l’autore sortisce un epilogo epico, non conciliante come quello del film, ma che, non ignorando lo spaesamento prodotto da un’impotenza così ingiusta, induce a interpretare il romanzo alla luce delle parole conclusive di Jack, pronunciate dopo aver deciso di servirsi dell’aiuto di uno psicanalista selezionato grazie a un calcolo delle probabilità di successo terapeutico: “Sulla base delle mie scelte passate, mi sembra piuttosto evidente che non posso fidarmi del tutto della mia capacità di giudizio” (ivi, p. 248). Tutto riprende allora a giocarsi sul proposito di un ricominciamento più responsabile della vita, sulla coscienza dell’inesistenza di quella che potrebbe esser definita una fondamentale sicurezza epistemologica, che non distrugge però la motivazione all’azione, e sulla consapevolezza dell’assenza di certezze ontologiche, legata nel brulichio del microcosmo allo scacco biologico e nel ribollimento del macrocosmo alla propulsione entropica (Frasca, 1989, p. 81). Pete Welsch from Washington, USA Jack-Barjo, uomo assolutamente marginale, outsider dall’anima contemplativa, che sembrerebbe soccombere alla morsa feroce della quotidianità che lo attanaglia, antieroe, che ossessivamente cerca di reperire un significato in qualsiasi accadimento, si adopera come può nel processo di ricostruzione di un senso sempre penultimo da attribuire all’insensata infinità dell’esistenza, non solo per registrare la realtà, ma per contribuire a produrla, almeno provvisoriamente, come struttura logica, attraverso l’osservazione attenta delle storie possibili delle caduche individualità creatrici di valori, chiamate, di volta in volta, a ridisegnare direzioni, riconfigurando destinazioni. Nel dolente e straziato tentativo di decifrare le irrisolte ambiguità e nel pertinace e maniacale accumulo di scorie del vissuto, l’eccentrico crap artist, solitario barjo, presente alla propria fragilità, ma non meramente appiattito sul rischio dell’esistere, aspira a superare il movimento caotico dell’accadere storico e ad affrontare la labilità della sorte umana. Si ricapitola dunque dalle origini, e, pur incarnando un sogno d’innocenza, aderisce fedelmente al reale, mantiene il contatto con i contrasti del concreto, non se ne allontana con artifici mistificanti, ma accetta uno stato di perenne precarietà, sentendo il tempo e l’effimero in relazione con l’eterno, nell’ansia costante dell’impossibilità di un definitivo ancoraggio conoscitivo e dell’ineludibilità di un’essenziale, imperitura finitudine. | ||
LETTURE
opere citate di Philip Dick | ||||||
The World Jones Made, 1956, trad. it. di Fefè S., E Jones creò il mondo, Fanucci, Roma, 2001. Counter-Clock World,
1967, | Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, trad. it. di Duranti R., Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000. A Maze of Death,
1970, | Confessions of a Crap Artist, 1975, trad. it. di Nati M., Confessioni di un artista di merda, Fanucci, Roma, 1996. A Scanner Darkly,
1977, |
The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, (edited by Lawrence Sutin), 1995, trad. it. di Pannofino G., Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997. | |||
altre
letture
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Brolli D. Caramiello L. Caronia A. De Feo L. Di Costanzo G. | Fattori A. Frasca G. Jung C. G. | Pagetti C. Panella G. L. Sutin (a cura di) |
Taylor A. Viviani G.-Pagetti C. (a
cura di) Williams P. | |||