OMBRE FLUTTUANTI E DISSOLVENZE SPETTRALI NEL SOGNO D’INNOCENZA DI UN CRAP ARTIST di Linda De Feo |
courtesy of the Philip K. Dick Trust Le velleità titaneggianti, che, a volte, sferrano un’accanita e inutile lotta alle imperscrutabili forze che deteriorano, alla finitezza umana e all’invalicabilità di quel limite, contrastano al contempo la segreta voluttà di essere annichiliti, la pulsione di morte coltivata gelosamente dall’individuo e dall’umanità intera: “attratto da tutto ciò che [può] portarlo fuori da sé, in una dimensione in cui la sua identità [perde] i contorni per riconoscersi nella molteplicità di un nulla trascendente, [Dick finisce, così, attraverso tutta la sua opera] per trasformare la fantascienza in una parabola sull’incubo terminale dell’universo – quello di riprodursi, espandersi, moltiplicarsi, dissiparsi fino a un’estatica cancellazione dei propri confini” (Brolli, pp. VI-VII). D’altro canto, la cultura dickiana dell’apocalisse (Pagetti, p. 7), e la sua traduzione nel cinema, che utilizzi o meno i canoni della science fiction e che preveda o meno una palingenesi della nostra Terra, rimanda a quella fondamentale, perversa capacità di sopravvivere adattandosi, il più forte potere posseduto dall’uomo: e “non di sopravvivere come bestie, bensì come autentici esseri umani che fanno cose autenticamente umane” (Introduzione a “Dr. Bloodmoney”, in Mutazioni, p. 116), continuando a condurre l’esistenza in paesaggi infernali attraversati da catastrofi variamente declinate. Le fiere delle aberrazioni dickiane, oltre ad esibire masse aggrovigliate di organi e carne mutanti, mostri umanoidi dotati di piume, scaglie e code, creature dallo sguardo triste che sbirciano dal corpo di altri esseri, infecondi “vicoli ciechi” (E Jones creò il mondo, pp. 32-33), offrono alla vista oscene carrellate di morte, con animali domestici accasciati, intenti fino a un attimo prima a brucare placidamente, per poi essere inchiodati improvvisamente al suolo dalla pistola impazzita di un uomo tradito, tra disperati nitriti, striduli belati e strazianti mugolii (Confessioni di un artista di merda, pp. 190-194). L’ironia dissacrante e demitizzante delle Confessions, in versione sia letteraria sia cinematografica, non diluisce dunque l’orrore di un quotidiano unheimlich, non domestico né familiare, contro cui l’unico rimedio appare proprio il totale annientamento, come sembra voler suggerire tristemente Dick, quando nell’ellittica conclusione di Seth Morley, personaggio di A Maze of Death, ribadisce il valore di quella che epistemologicamente e ontologicamente si presenta come la sola realtà possibile: “Our only comfort. Death”. E proprio quella levità umoristica, che non stempera però le tinte cupe delle oppressive visioni dickiane, sembra proporsi, sia nel libro sia nel film, come forma di sconsolata salvezza, vista la vanità dell’azione umana, come espressione di una saggezza senza conforto di fronte alle ragioni incontrastabili dell’esistenza, come unico, esile ancoraggio rispetto al naufragio cosmico della vita, che, nonostante i calcoli dell’umana intelligenza, descrive imprevedibili percorsi, lasciando all’uomo la percezione della pericolosità dell’errore e dello scompenso tra progetti e risultati, mentre il terreno della pratica si sgretola sotto il piede che avanza per calcarlo. Contro la vittoria dell’indecifrabilità dell’esistenza a nulla valgono le mistificazioni, le illusioni, le evasioni, perché sempre l’indomabile mistero denuda e pone crudamente dinanzi alla sconfitta. E a nulla vale l’infinita ricerca di un senso, di un senso ultimo, scandagliando i recessi della vita interiore di un uomo che, svestito delle sue spoglie individuali, assurge a simbolo rappresentativo di una condizione che impone un sofferto trapasso senza riscatto. Durante l’attacco di cuore di Charley, foriero di raccapriccianti sventure, assistiamo sgomenti ai tentativi di immersione della vita, non ancora esaurita, nella terra: “Poi cadde in avanti, e mentre cadeva allungò le mani verso il terreno, poi ve le affondò dentro e le strinse. Strappò pezzi di terra, se ne riempì le mani, li mangiò e li bevve, e ne respirò l’odore, ma perse il respiro, tentando di mandarli giù, dentro i polmoni. E dopo non riuscì a fare più nulla” (ivi, p. 91). Come in un gioco di dissolvenze, ci sorprenderà, poi, il riaffiorare della vita esanime, il suo rinascere dalla fossa, tra quei fiori rinsecchiti e quelle erbacce ammuffite del cimitero di Forest Knolls, avvolto dalle entropiche ombre di Counter-Clock World. E ci stupiremo, infine, quando la vita stessa si tramuterà nel suo contrario, per risorgere potentemente, ancora una volta, dal suolo, insieme all’azzurro e spettrale “fiore del futuro” (Un oscuro scrutare, p. 327), che dissemina degenerazione e disperde esistenza, la Substance Death di A Scanner Darkly. | ||
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