OMBRE FLUTTUANTI E DISSOLVENZE SPETTRALI NEL SOGNO D’INNOCENZA DI UN CRAP ARTIST di Linda De Feo |
courtesy of the Philip K. Dick Trust La disarmante visuale di Barjo-Jack, tingendosi di amara comicità, offre una “caleidoscopica galleria degli orrori” (Caramiello, p. 163) attraversata da ipocrisie e tradimenti, da una sessualità impietosamente votata all’annullamento dell’altro, anche quando è vincolata alla conciliante istanza riproduttiva, e dalle ottenebranti menzogne, a tratti rischiarate da flebili barlumi di verità mai definitivamente tali, rivelate dall’acida descrizione dickiana di cui Boivin non esita ad appropriarsi. Disadattato e incompreso, incapace di entrare nel gioco che la vita spietatamente gli offre, di sperimentarne le passioni, incapsulato nel bozzolo della propria costituzionale inettitudine, Barjo-Jack simboleggia dunque un’esemplarità di modesta portata, non manifestata dal gesto straordinario, ma dall’esaltazione del quotidiano, che si riconosce nella confessione continua dello stato d’animo, nel racconto della coscienza in fieri e del sentimento del tempo umano. Definito da Dick “uomo indulgente, capace di valutare senza pregiudizi […] il cuore e le azioni di uomini come lui, […] una specie di eroe romantico” (Williams, p. 14), il barjo crap artist si mostra forse più adatto a ricordare emblematicamente il progressivo sfarinamento della soggettività romantica nel mito dell’uomo decadente, avviluppato nel proprio solipsismo, ripiegato in una tenace introspezione, stretto in un’instancabile analisi dello spazio interiore esplorato a un livello di superficialità solo apparente, che finisce per palesare i germi di un orrifico sfacelo. L’alieno, fondamentale figura nell’opera di Dick, viene così a costituire in questa storia, sia sulla pagina scritta sia sullo schermo, una sorta di “congettura mitologica”, una forma di materializzazione, di proiezione nel vuoto degli archetipi dell’inconscio collettivo (Jung, 1958, pp. 174-178), quelle immagini arcaiche, primordiali, appartenenti al patrimonio comune dell’umanità, risultato di esperienze ricorrenti nella vita, come la nascita, la fuga dal pericolo o la morte (Id., 1934/1954, p. 17). Serie di ologrammi proiettati che agiscono come trasformatori, trasduttori di creature universal-oniriche (Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, p. 266), contenuto subliminale divenuto visibile, insorgenza dell’“inconscio filogenetico” (Dall’Esegesi, ivi, p. 361), epifania di inquietanti misteri nascosti nella psiche collettiva umana, la presenza aliena si caratterizza come simbolo dell’irruzione dell’incomprensibile nel territorio della realtà ordinaria, e dallo spazio esterno affiora come alienazione nello spazio interno. Nel formicaio delle esistenze, “ombre che fluttuano nell’aria, dirette verso il nulla” (Confessioni di un artista di merda, p. 60), si transita verso realtà parallele, mondi alternativi, universi altri, che nelle Confessions di marca americana e francese sono dominati dai ritratti sovrapponibili di Jack e Barjo, abitanti di una riserva non tanto protetta di cui sono al contempo demiurghi e destinatari: entrambi, assorti nella reiterata riflessione, non si scagliano contro la prossimità della fine, attendendo invece con rassegnata trepidazione l’ineluttabile avvenire di estinzione cui è condannata l’umanità, la pervicace opera di fagocitosi che satanicamente corrode materia ed energia, per poi rendersi conto di essersi sbagliati, che il mondo non sarà cancellato, non subito almeno, e riuscire a sopravvivere a questa straordinaria presa di coscienza. Nel conflitto tragico con la realtà brutale della vita balenano patetici guizzi superomistici, che celebrano, con inerme e donchisciottesca disperazione, la volontà di liberazione suprema dall’inanità del vivere, se mai affrettando i tempi, contraendo quella parabola della quale qualcun altro sembra possedere l’intelligenza complessiva, agendo attraverso la sussunzione titanicamente soggettiva dell’inesorabile dissipazione, realizzata dal suicidio rivelatore di Charley: “Vi fu una luce, invece di un suono. Lui vide, per la prima volta. Vide tutto. Vide come lei [Fay] lo aveva manovrato, come lo aveva portato a quel punto. Vedo, si disse. Sì, vedo. Morendo comprese tutto” (ivi, p. 197). | ||
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