OMBRE FLUTTUANTI E DISSOLVENZE SPETTRALI di Linda De Feo |
courtesy of the Philip K. Dick Trust Uno dei romanzi americani più significativi del Ventesimo secolo, Confessions of a Crap Artist (Williams, p. 14), fu scritto da Dick nel ’59 e pubblicato nel ’75. Nel 1992 fu presentata a Cannes una sua trasposizione cinematografica abbastanza fedele col titolo Confessions d’un Barjo, diretto da Jérôme Boivin, e sceneggiato da Jacques Audiard e dallo stesso regista, film sperimentale che ottenne un discreto successo di critica, ma non suscitò l’interesse delle distribuzioni ufficiali. Caratterizzata da un’atmosfera sospesa tra il divertimento surreale e il dramma esistenziale, la pellicola intreccia la tensione metafisica della produzione dickiana alla trama del microcosmo domestico, trasportando la storia dalla società americana della fine degli anni Cinquanta a quella francese dell’inizio dei Novanta. Questa ricontestualizzazione testimonia, ancora una volta, l’ineludibile potenzialità degli scritti di Dick di rivelarsi puntualmente in ogni traduzione comunque attuali e di offrirsi generosamente a duttili ridefinizioni, grazie all’urgenza interpretativa che li anima, alla consapevolezza ultima dell’impossibilità di accedere a una verità conclusiva e alla profondità burrascosa di riflessioni relative alle assurdità fondamentali della vita: “La mia opera di scrittore, in toto, rappresenta il mio tentativo di prendere la mia vita, e tutto quanto ho visto e fatto, riplasmarla in modo da conferirle un senso. Non sono certo della mia riuscita. In primo luogo, non posso falsificare quello che ho visto. Vedo disordine e sofferenza, e non posso non scriverne; ma ho visto anche coraggio e ironia, e quindi ci metto anche questo” (Introduzione a The Golden Man, in Mutazioni, pp. 127-128). Le ipotesi che riguardano i “massimi sistemi, il destino del mondo, […] le scelte abissali che i personaggi sono chiamati di volta in volta a compiere” (Di Costanzo) investono il romanzo e il film, orientandone il contenuto, permeato dell’umorismo insinuante del tono narrativo, spesso di vibrato riepilogo, che rende lieve il canto della solitudine, ma non meno incisivo il racconto della pena di vivere, percorso da una carica emotiva scoperta e costante. Sia Dick sia Boivin non sembrano voler commentare le vicende, ma nello stesso tempo non si pongono al di là della storia, aderiscono completamente ai personaggi anche se al contempo se ne distaccano, come si può evincere dai discorsi mentali che si dipanano liberamente, per poi intrecciarsi indissolubilmente nei tradizionali soliloqui, che trascorrono senza soluzione di continuità nello stream of consciousness, e nei monologhi riprodotti dal narratore. Le vicissitudini acquisiscono, per ognuno dei protagonisti, un senso differente attraverso gli spiazzamenti, i ribaltamenti di prospettiva, i capovolgimenti di valore, e la storia raccontata da Dick, pur dispiegandosi con assoluta leggerezza, risucchia gli individui nel gorgo di umani, troppo umani accadimenti d’amore e morte. Fay, tanto sensuale quanto aggressiva e insensibile, è tormentata dalle tipiche nevrosi delle donne borghesi, il marito Charley, pragmatico e incolto, prototipo dell’American self-made man, è torturato da un malessere interiore che diventa insostenibile, Nathan, giovane e spaesato intellettuale, si allontana da una moglie innamorata per lasciarsi stregare dalle lusinghe erotiche dell’affascinante Fay, e il fratello di quest’ultima, Jack, l’artista del titolo, ricrea le forme di vecchi pneumatici, colleziona originali cianfrusaglie e crede in Atlantide, nelle percezioni extrasensoriali e nell’imminente fine del mondo. | ||
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