Provando a stare qui,
tra vuoto e rovine

Christopher Thomson
The New Wild
Vita nelle terre abbandonate
Voce: Sarah Waring

Regno Unito/Austria/Italia, 2017

Christopher Thomson
The New Wild
Vita nelle terre abbandonate
Voce: Sarah Waring

Regno Unito/Austria/Italia, 2017


Si parte da un luogo geografico, Dordolla, frazione di Moggio Udinese, Valle Aupa, provincia di Udine, Prealpi Carniche: qui, dove abitano circa 45 persone tra vecchi e nuovi abitanti, attori endogeni ed esogeni di un luogo in transizione, si parlano friulano, italiano, austriaco e inglese.
Abbandono, rovine, natura, agricoltura, cultura, luoghi marginali, campagna, città, nuovi e vecchi abitanti, storia, futuro passato e presente, tempo spazio: sono alcune delle riflessioni che, partendo proprio da questo ‘puntino’ sulla mappa, si incontrano nel viaggio proposto da The New Wild. Vita nelle terre abbandonate di Christopher Thomson.
Il film è stato presentato in prima mondiale a Innsbruck, Austria, il 12 ottobre 2017, durante il Nature Film Festival, dopo tre anni di lavoro solitario e indipendente di produzione e postproduzione. Da qui, fino a Tallin in Estonia per il Black Nights Film Festival, sempre più richiesto, distribuito da Tucker Film, sta continuando a viaggiare attraverso un sorprendente passaparola, dopo la prima nazionale al cinema Visionario di Udine l’8 gennaio.
Recita la sinossi:

“Con l’invecchiamento e il declino delle popolazioni rurali, nuovi e sorprendenti paesaggi appaiono in tutta Europa. Le terre agricole restano abbandonate, reclamate da un mondo naturale che si autodetermina: gli alberi crescono dove un tempo c’erano campi; animali selvatici vagano liberi tra le macerie”.

The New Wild prende corpo nella dialettica con l’old wild: “residui simbolici di uno spazio senza persone”, “da visitare e a cui offrire la nostra venerazione occasionale […] al di là, fuori lo spazio in cui viviamo, completamente modellato dall’uomo”, in mezzo, tra i due, un altro mondo. Paesaggi rimasti sul bordo della (nostra) modernità, in transizione: paesi e villaggi vuoti, edifici in macerie che tornano a mostrarsi nella loro natura di pietra, legno, metallo, terra; oggetti e manufatti, eco di forme e funzioni impresse dall’umano: visioni o spettri di altri mondi. Abbandono e natura che, con il tempo (di cui è essenza tangibile), prepotente riprende il suo posto, dimentica che un tempo era stata tenuta ai margini dal compromesso dell’agricoltura (parola che inglese contiene “culture”, cultura; rimando presente in italiano nell’uso di “colto” per dire acculturato).
Memoria e povertà è la prima parte: “Siamo giovani, nella città”, “Le strade della città sono piene di storie di paese”. La narrazione si apre con una contabilità implacabile: negli ultimi 100 anni il rapporto tra abitanti delle campagne e abitanti delle città si è invertito: a inizio XIX secolo 1 su 5 viveva in città, più della metà adesso. Una rivoluzione silente, senza “alcuna fanfara”, “la più grande rivoluzione culturale da quando abbiamo iniziato a lavorare la terra.”

Silent. Silenzio, dice su un fotogramma nero la voce di Sarah Waring: primo piccolo shock che ci costringe a fermarci. Lo spazio non vibra più di suono udibile, non ci sono immagini a distrarci. Conviene chiudere gli occhi, pensare, immaginare da soli: ferma morbida ingiunzione, che tornerà frequentemente, con una parola sussurrata mentre si ferma il racconto visivo. Una pausa è un istante: “cerco l’eco di una storia resa Storia […] e io sono troppo giovane per ricordare ciò che non ho mai saputo […] cerco d’immaginare provando a stare qui”, vivere qui: così l’autore racconterà gli echi di queste storie. Non un discorso da fuori, da lontano, ma da dentro, con quei luoghi. Lo spettatore inizia a viaggiare con Thompson come se ascoltasse Marco Polo appena tornato alla corte di Gengis Khan, dal paese del Sol Levante. Ma quell’Altro Mondo misterioso di cui si parla è qui, invisibile e nascosto, nell’esperienza quotidiana, nella memoria recente e/o passata di 1 su 5 in Europa: in between.

Alle radici dell’esodo
Eco pausa istante silenzio. Il suono cresce: vento, acqua, stormire e crepitare di foglie nel bosco, sotto i passi. Lunghe inquadrature, per lo più fisse, in una contemplazione piuttosto bidimensionale, da pittura di paesaggio; ma la voce restituisce la tridimensionalità, reclama profondità, invita a seguirla nella spazialità complessa disegnata dal suono, che toglie peso alle immagini restituendo la dimensione dell’oralità: osservare, sentire, attraverso i cambiamenti di luce, profumo, temperatura, con pazienza.
“Perché ce ne siamo andati? […] in cerca di una vita migliore, di lavoro, opportunità, convenienza e perché tutti gli altri l’hanno fatto. L’abbiamo visto in TV.” La più grande migrazione silente, attraversa l’Europa da almeno 100 anni, suscitando domande che riguardano tutte le migrazioni cercando di agguantare un perché: l’origine della spinta, una traccia che spieghi quel movimento di umani che si sono riversati ininterrottamente verso le pianure, a ingrossare le città. Il suono dell’acqua corrente che trascina a valle, downstream, è il movimento dell’abbandono di ciò che è, “troppo distante [dalle città] per diventare una periferia.”. “Di chi è stata la scelta?”, “È stata la nostra liberazione?” o una rinuncia alla Terra? Il tempo pervade tutto “come se entrambi, presente e futuro, fossero stati risolti” in un presente ininterrotto.

Il ritmo del film, tempo umano di sosta, sguardo, respiro, di chi ha raccolto per noi le immagini, rigetta la velocità dei montaggi che ci hanno abituato a dis/trarci fuori di noi. Oltre la materia piana dello schermo ci si immerge, confrontandosi con domande ineludibili. Non è possibile fermarsi alla superficie del flusso delle immagini, pervase di meraviglia inquieta. La “ruota del mulino si disintegra” “ogni pietra riscopre il proprio peso”. Questi villaggi, fatti con la materia dei luoghi in cui avevano trovato spazio, ritornano alla natura che li aveva concessi. “Ed io penso a Roma. Questo non è marmo”, rovine del Gran Tour, al cui cospetto poeti, filosofi, artisti, viaggiatori meditavano melanconici su caducità degli imperi e vanità della grandezza umana. Quei marmi, ora recintati, conservati e visitabili a pagamento, fanno cassa e confermano la Storia, che, dalla Grecia Antica attraverso Roma e Carlo Magno, arriva ininterrotta a sostenere il cuore freddo dell’Europa.
Le rovine del film invece, tracce calde, minime e povere di un passato fin troppo recente, con le quali manteniamo una relazione ambigua, ci turbano.  Non più abituati a macerie e rovine come è stato per secoli, le abbiamo confinate a orizzonti contemporanei di guerra, troppo lontani ed esotici per inquietarci, oppure ai paesaggi all’eccezione: terremoti, alluvioni e altri disastri, posseduti dalla tensione a riempire, rifare, riedificare, ricostruire, restaurare.

A che cosa pensiamo quando parliamo di rovine
Come se nulla fosse successo, spesso abbiamo costruito abbandono di paesi nuovi e vecchi doppiamente disabitati, consegnandoli alla polvere del tempo che fu e/o che non sarà. Oppure, soffia fluida la voce, riduciamo questi paesaggi a spazi rassicuranti e organizzati: parchi archeologici, riserve naturali, meta e oggetto dei nostri sguardi assenti, “della nostra venerazione” del weekend.
Le rovine non sono più quelle di una volta. Cosa ne rimarrà se non “un vago e retorico ‘C’era una volta’ nel quale la terra sarà sinonimo di povertà?”. Ogni villaggio che cede all’abbandono è una cultura e una lingua che scompaiono: “Questa è la nostra povertà. E presto non sapremo nemmeno cosa abbiamo perso.”
Questi luoghi, parte della nostra modernità, sussurrano inesausti che natura e cultura, tempo e spazio, sono la stessa cosa. Siamo impregnati dalla sensazione della fine della Storia, accumulo di tempo storico, di passato che non è passato. Se riuscissimo a guardare oltre la linea su ci hanno insegnato a disegnarlo, il tempo libero dalla prigione geometrica si rivelerebbe con-presenza di più possibilità. Perché abbiamo tanto bisogno di rovine, di luoghi abbandonati? Cosa si intende per ‘rovine’ in un film, che ha come sottotitolo Vita nelle terre abbandonate? Quello che si abbandona, non più curato, rovina, e quello che è in rovina, non potendo più espletare la sua funzione, viene abbandonato: causa ed effetto l’uno dell’altra, in un rincorrersi che evoca lo stesso significato.

La seconda parte è Le erbacce di ieri, che diventate giovani alberi, poi bosco, ingoiano un paesaggio svuotato di gesti e voci umane, privo di umani ma non di abitanti: “la morte è vita”. In una prospettiva che apre a sguardi post-umani, piante selvatiche, alberi della foresta, animali scacciati dall’antico avanzare degli insediamenti umani e dell’agricoltura si ri-insediano. La malinconia non è più quella di una volta: “si accompagna a un egual senso di stupore” che fa immaginare il futuro. Wonder, dice la voce; segue un rosario di antichi abitanti animali ri-tornanti e di nuovo pausa, fotogramma nero, dove la voce espirando suggerisce segreta “forse presto il Lupo”, Wolf. Poi, l’orso, nel frame di una videocamera di sorveglianza, incarna la nostra ambivalenza nei confronti del Wild: “la paura e la meraviglia”, “proteggere l’animale, uccidere la bestia”.
È impossibile guardare il film senza raccogliere l’eco dell’inglesità di Thomson.

Frontiere, transiti e oltrepassamenti
L’antica invenzione dell’Arcadia rovina emerge la passione per la frontiera, finis terrae, fine dell’esperienza umana fin qui possibile. Thomson non è andato a vivere in quei luoghi per fare il film. Ha fatto il film perché ha scelto di viverci, spostandosi da Londra, capitale occidentale della produzione di immaginari verso una frontiera vergine che è qui dentro casa, frontiera dell’immaginario: “trying to be here”, “provando a stare qui”.
Possiamo “celebrare il potenziale ecologico di questi nuovi spazi?”. Forse il potenziale ecologico di questi luoghi è anche un potenziale etico? Questo Wild nuovo non è “un’isola recintata di natura bisognosa di protezione”, ma un paesaggio vivo rampante, fuori dal nostro potere e volere. La natura, che dalla prospettiva della città è “libera di essere un sogno”, scompare. Nel nuovo Wild come nell’Old, il “bucolico coltivato aperto” diventa di nuovo un sussurro sul nero: “scuro, emozionante Wild”.
Per i cittadini la natura è al massimo il canarino in gabbia, il pesce nell’acquario, i gerani sul balcone, i fiori dei compleanni, gli animali dello zoo, il bosco curato del parco urbano. Vivere questi luoghi fragili è un percorso di educazione sentimentale alla relazione con il mondo: il fuori è come il dentro. La divisione comoda (?) tra natura e cultura non scomparirà fino a quando non capiremo che natura è cultura.

Le rovine, testimoni e parte materiale della potenza generatrice e distruttrice della natura insegnano. Insistiamo a separarle, ma anche, soprattutto, quando ce ne proclamiamo partigiani, tracciamo confini, ci allontaniamo. Nella nostra dis-cordanza abbandoniamo il paesaggio di vecchi campi che avevamo conquistato, mentre colonizziamo e disboschiamo per nuovi campi sempre “più grandi, più piatti più a buon mercato.” Vuoti di persone e cultura. “La città cresce e la campagna si divide”, “sterili distese di coltivazione industriale e mosaici viventi dell’abbandono.” Ma “dipenderemo sempre dal mondo naturale”, “quindi come può la cultura districarsi veramente dalla natura”.
La terza parte è Il luogo in mezzo. Il suono diventa impercettibile, la voce ci abbandona all’eco delle domande precedentemente disseminate. C’è la dichiarazione silente di una posizione. Ascolto, sento, tocco e sono toccato, vedo, annuso, gusto: suono, forma, vibrazione, odore, sapore dello spazio in cui sono immerso in un paesaggio abitato da umani senza parole. Silent. Una teleferica segnala una presenza umana, portando qualcosa da monte a valle. Dordolla è il villaggio in cui il regista vive.
Tra mille piccole attività raccontate, ci sono mani che sistemano fiori, lavori edili, carriole, campi; un pastore con un gregge, in corsa spettacolare, viene giù dall’alto; operai nel cantiere del ponte sul fiume; mani  appendono panni ad asciugare; c’è la preparazione di una festa della comunità (Harvest, festival e residenza artistica); una donna si ferma al sole a guardare il cielo.

Un ultimo fotogramma nero
Un minuscolo aereo taglia nel suo volo orizzontale una luna che giganteggia su tre quarti di fotogramma. La grandiosità della natura e la piccolezza infantile della nostra aspirazione perpetua a misurare, controllare intrappolare il tempo nello spazio senza senso di una linea retta, che segna il confine della modernità. Una provocatoria mappa multilingue della metropolitana di Dordolla, eco distopico della città arrivata quaggiù scompiglia il binomio città-campagna, giocando con i fantasmi di lingua, nazione, appartenenza, identità. Infine, la foto di gruppo con gli abitanti del paese. Sale il suono di acqua e vento, torna la voce. Dordolla, “siede precaria, al margine di un momento, delicata e durevole”, circondata dal Nuovo Wild che avanza, “l’uno aiuta a spiegare l’altra”.
Paesaggio antropizzato e paesaggio selvaggio: scontro o incontro? Giovan Battista Vico nella Scienza Nuova metteva in relazione due parole latine, Locus (luogo) e Lux (luce). Scrive che gli umani seminomadi nella foresta, quando individuavano un posto, Locus, lo disboscavano e da quel luogo potevano vedere la luce, Lux. Locus nella foresta era Lux: il cielo dove si legge il tempo atmosferico, il passaggio da luce a buio, gli astri, le stagioni, il volo degli uccelli, le eclissi: segni e messaggi dal mondo oltreumano, degli dei, abitanti nella luce e nello spazio fuori del tempo, perché sono il tempo.
Sull’ultimo fotogramma nero la voce evoca una possibilità: “se ci ricordassimo di vedere la cultura nei nostri paesaggi naturali, vedremmo la natura nei nostri paesaggi umani, dovunque viviamo”, “non avremmo bisogno di immaginare un Wild al di là di noi stessi, forse non avremmo bisogno di aspettare una fine per tornare alla Terra”.
Nero, suono dell’acqua, titoli di coda.