Il cigolio di un’altalena
mentre il mondo va su e giù

Piero Balzoni
Vita degli anfibi
Alter Ego Edizioni

Viterbo, 2023
pp. 208, € 17,00

Piero Balzoni
Vita degli anfibi
Alter Ego Edizioni

Viterbo, 2023
pp. 208, € 17,00


Il volo di un’altalena a nove anni sa sempre di giorno di festa, di voci nell’aria, di mani in cerca di cielo, di braccia larghe ad accogliere il ritorno di chi sale e scende tra nuvole e terra. Ma le conferme non appartengono all’infanzia di tutti. Capita a volte che il ritorno a terra faccia male, sia caduta, polvere, fiacchezza di gambe e una domanda per sempre. Dove sei andato, papà?
Il nuovo romanzo di Piero Balzoni Vita degli anfibi (dopo quello d’esordio nel 2015, Come uccidere le aragoste), pubblicato da Alter Ego Edizioni e candidato al Premio Strega 2023, è questa domanda e questa assenza. Un giorno non ordinario, quello di un compleanno, un regalo da ricevere, prima un giro in altalena, poi il fragore del vuoto alle proprie spalle.
La protagonista del romanzo è una bambina che si ritroverà così a ricercare per una vita intera il padre, sparito il giorno del suo compleanno nei pressi di un caseificio abbandonato in riva a un tenebroso lago. Perché i luoghi tra le pagine somigliano al dramma della sparizione di quest’uomo. Sono buio e mistero, l’eccedenza della grandine d’estate, nidi di rane negli angoli delle case, fili d’erba nel cemento, barattoli di girini sulle scrivanie, il lago putrescente, un caseificio esiliato, l’attesa della metamorfosi mentre si sopravvive come anfibi. Un po’ fuori, un po’ dentro l’acqua, la vita, la memoria. Un po’ in apnea, un po’ a pieno respiro. Un po’ su, un po’ giù.
Se nella vicenda tutto è troppo forte, la scrittura di Balzoni sa mantenersi in un equilibrio quasi idrostatico sulle increspature di quel lago, dove tutto parte e a cui tutto torna. È una scrittura lieve, continua, si scompone nella moltitudine di riflessi delle acque in cui si immerge, ma senza rimanervi impantanata nei dettagli. Gira intorno alle presunte verità della memoria, senza alcuna pretesa della definizione assoluta. Allontana con frequenza la meticolosità dell’interpunzione, per insinuarsi nel flusso delle cose sotto la superficie di acqua come di vita. È una scrittura che recupera la comunione anfibia di assenza e presenza in ciascuno dei personaggi della narrazione.

A leggere questo romanzo un’eco affiora fin dal principio: “[…] la Tigre Assenza, / o amati, / ha tutto divorato / di questo volto rivolto/ a voi! […]” (Campo, 1991). L’assenza è belva famelica che smargina volti, legami, ricordi, paesaggi, il presto e il tardi di ogni cosa. E travolge tutto e tutti anche nelle pagine di Balzoni. A partire dai nomi. Sono pochi, per lo più di personaggi secondari, quasi che l’assenza sia talmente connotativa da spettare solo a chi tesse la trama. I protagonisti sono fatti di assenza per metà della loro esistenza. Così è per il lago così per il caseificio, ambientazioni della storia. Il primo è presenza leggendaria di un dio nei suoi abissi, quello che abita nella cattedrale di un’immaginaria città sommersa dalle acque, dà vita e toglie vita, avvera desideri in cambio di un dono di luce. Ma il lago sa essere anche oscurità di melma e silenzio di risposte da parte dello stesso dio, invocato dalla protagonista nella caccia al padre.
Assenza è carattere dell’ex caseificio dove figlia, madre e, prima della sua scomparsa, padre alloggiano ogni estate come custodi di un posto spoglio da tempo di latte e formaggi, custodi di erbacce senza regola e di un tetto compromesso. Però, il caseificio è anche pienezza di una famiglia a tre, nelle estati di vacanza sul lago, dei saltelli festosi dei loro cani Lampo e Balena, dei cerchi di vapore del caffè e dell’aroma di pane fresco in cucina.
Assente è il padre, all’improvviso e senza ragione. Atteso dalla madre con lo sguardo al soffitto, cercato dalla figlia incredula che sia finito proprio tra le sue dita un dramma così.

“Perderti è stato un giro di altalena. Papà più forte, più forte. Le tue mani sulla schiena, il respiro dietro il collo. Volo in alto a occhi chiusi, le mani sudate strette intorno alla catena, un soffio al cuore, lo stesso tra i capelli. Ancora, papà”.

Presenza è il maglione marrone di questo padre, troppo generoso per la statura di una bambina, prima, di una donna, poi. Eppure indossato dalla protagonista per anni su un abito qualunque, quasi ad affidare ad esso il ricordo di un’intesa tenace tra padre e figlia, un residuo di speranza, il riparo dall’umidità del lago e del dolore.
Presenza è quella della madre della protagonista, capace di difesa nei confronti della figlia mediante la consuetudine di gesti ripetuti, di certezze immaginarie, di evasione dalle troppe domande, di gentilezza innaturale. D’altronde, la madre si fa progressivamente assenza nel suo trattenere il respiro sul letto e attendere che le cose accadano mentre lei è ferma lì. Si fa assenza nel masticare la mancanza del marito fino a travolgere tutto in una risata continua, irritante, scomposta, annodata alla gola.

“E mentre gli altri, la polizia, la gente, tutti cercavano chissà dove, una sera avevo visto mia madre che rideva da non potersi più fermare. Rideva e rideva davanti alla finestra spalancata e io da sopra la sentivo. La sua risata di rana”.

Sopravvive questo di una madre, le parole passate e non quelle future, una passeggiata smarrita tra le sterpaglie intorno al lago, tra un triciclo blu e una papera di plastica, un senso che manca, una risata che resta, anfibia anche questa. Un po’ da rana, un po’ da donna. Un po’ fiduciosa, un po’ sfiduciata.
Assenza è quella della protagonista che vaga in queste pagine tra fantasie ed errori, mentre attraversa tre fasi di vita, pari ai cicli di crescita di un anfibio tra tutti, la rana.

“Disegnavo uno spazio vuoto intorno e mi preparavo per il momento in cui saremmo tornate al caseificio, alla nostra vita vera, alle acque nere di un lago che una volta ogni tanto si portava via qualcuno. Un mulinello, l’acqua pesante, e magari stavolta era toccato proprio a lui. A mio padre”.

Diventa donna mentre le si infila nel cuore la certezza di un padre a metà, svanito in un giorno che conta, forse senza avere un regalo di compleanno per lei, senza avere il coraggio della verità sul proprio equivoco lavoro, senza avere tempo per insegnarle un mondo adulto oltre le favole, senza avere il desiderio di amarla fino al punto da negarle il saluto della partenza. Diventa donna innalzando sponde intorno a questo vuoto, mentre il lavoro da infermiera, distante dalla madre e dalla progressiva desolazione del lago, le restituisce l’attenzione alle cose belle anche quando hanno inizio da una fine. Perché è con il tempo che la donna impara a riconoscere pezzi di suo padre nelle movenze di altri, pezzi di lui nelle trasparenze degli occhi di un passante, pezzi di lui nelle cadenze di una voce, pezzi di lui in uno spazio tangibile composto non solo di memorie. Perché è con l’assistere a un altro dolore, altrettanto cupo e inaccettabile, che la protagonista si fa presenza.

“Due giorni fa stavamo decidendo dove cenare a Natale. Ma è possibile? L’ha mai vista una cosa così? Mi dica sinceramente. Noi qui ne vediamo tante. Sì, capisco. Va bene. Però questa qui è mia figlia. Parlavamo insieme di Natale. Aveva sottolineato la parola Natale come se quella fosse davvero una parola fuori contesto, come se l’insensatezza fosse tutta lì”.

Giulio, un altro padre, Irene un’altra figlia, conosciuti dalla protagonista in una corsia d’ospedale, le mostrano un dolore simile al suo ma a parti invertite. Qui è la figlia ad andare via, vittima di un male imprevedibile, mentre tutto intorno si allestisce la festa dell’anno. La protagonista del romanzo si ritrova ora dall’altra parte della scena, nel ruolo di chi, divenuta infermiera, è tenuta a spiegare l’imponderabile e l’impossibile scomparsa di una figlia al cuore nudo di un papà. E, come sempre, nella pena condivisa si ritrova un certo modo di sentirsi presenza per l’altro.

“Allora ero tornata a casa e avevo tirato fuori dalla valigia tutti i regali per mio padre, tutte le cose che nel tempo avevo incartato nei vecchi articoli di giornale. Le avevo sparpagliate per il pavimento e seduta a gambe incrociate in mezzo al salotto mi ero messa a rileggere tutti gli articoli, tutte le parole ingiallite dal tempo […] e mi sembrò che un senso potesse esserci in quelle storie raccolte e poi gettate. Mi sembrò possibile davvero ritrovare mio padre […]”.

La forza del libro di Balzoni trova spazio in questa verità. Quello che manca, pur a volerlo nominare in altri modi per compensazione, mancherà per sempre. Ma sopravvive solo chi con l’assenza prende confidenza, ne accetta le pennellate d’ombra, sa riconoscere anche la spinta uguale e contraria del vuoto verso l’alto, impara a fluttuare pure nelle acque melmose. Coraggioso è il realismo dell’autore perché non sta a dirci di sogni d’aria, ma di simmetrie tra pieni e vuoti. Il suo è un romanzo di forze che si bilanciano, di amare certezze, di dolori che imparano a dialogare e a farsi un po’ più sottili nella vicinanza. E proprio in questo dialogo trova spazio e confine una prospettiva di vita affilata quanto lucida, che anfibi in fondo siamo noi tutti.
“L’altalena va su, l’altalena va giù”.

letture
  • Cristina Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano, 1991.