Apocalittici e integrati
nell’era algoritmica

Paolo Landi
La dittatura degli algoritmi
Krill Books, Lecce, 2023

pp. 96, € 14.00

Paolo Landi
La dittatura degli algoritmi
Krill Books, Lecce, 2023

pp. 96, € 14.00


“Lei è l’imprenditrice e l’operaia, lavoro e tempo libero per lei sono la stessa cosa, lavora sempre senza lavorare mai, è essa stessa merce senza smettere di essere individuo: anzi, elevando alla massima potenza il valore di sé come persona”.

Paolo Landi, con questo riferimento a Chiara Ferragni, ci restituisce inconsapevolmente anche una definizione perfetta del capitalismo contemporaneo, quello digitale. All’interno del quale, come già osservarono Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del Partito Comunista: “Il Capitale… ha trasformato la dignità personale in valore di scambio”. Secondo Marx (siamo nel capitolo diciassettesimo del Capitale), “il salario dell’operaio si presenta come prezzo del lavoro, come una determinata quantità di denaro che viene pagata in cambio di una sua determinata quantità di lavoro” (Marx, 2021). Nel suo recente La dittatura degli algoritmi Landi sottolinea questo mutamento della quantità di lavoro, aspetto fondamentale dell’economia digitale, dove la standardizzazione, la spartizione della giornata in tre frazioni di otto ore, non funziona più, per la maggior parte. Si lavora nel tempo libero e si potrebbe lavorare mentre si dorme.

Il capitalismo egoista
Punto fondamentale che Landi enfatizza è l’importanza dell’immagine sociale:

“Perché gli influencer non vendono la loro forza-lavoro, vendono sé stessi: così facendo il loro valore e il loro prezzo prendono l’apparenza esteriore del prezzo o valore immateriale della loro performance astratta. Possiamo definire l’economia contemporanea”.

Se, come egli afferma, gli influencer vendono sé stessi, vendono anche la loro libertà. Il nostro odierno sistema viene definito “post-panottico”, in cui “siamo controllori, siamo controllati e facilitiamo il nostro controllo” (Bauman, Lyon, 2015) e l’immagine sociale gioca un ruolo fondamentale. Se la brandizzazione avviene sull’influencer stesso, quest’ultimo non può permettersi di sbagliare. Il prezzo da pagare sembrerebbe essere proprio questo: il controllo eccessivo e l’immagine perfetta che si crea intorno a queste figure potrebbe essere ciò che potrebbe determinare la morte degli influencer stessi. In questo sistema, se la merce siamo noi vuol dire che siamo agganciati a un sottile filo tenuto in alto grazie all’adorazione dei seguaci. Altrimenti potrebbe sganciarsi, mutilato dalla gogna.

“La ricchezza, sui social, sembra facilmente conquistabile. Nutriti per anni dalle mitologie dei ragazzini diventati miliardari nei garage della Silicon Valley, abbiamo introiettato il concetto che anche noi possiamo farcela. Chiara Ferragni lo ha ribadito: non serve niente per essere ricchi, lo si può diventare all’improvviso, essendo semplicemente sé stessi”.

Il sogno americano si quadruplica nel mondo social. Contenuti che aizzano il mito del self made man o woman, che spronano a diventare “la migliore versione di sé stessi”. Logica intrisa nel cosiddetto capitalismo egoista, o narcisistico riprendendo la riflessione di Landi.

“Le tossine più nocive del capitalismo egoista sono quelle che sistematicamente incoraggiano l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu”.
(James, 2009)

Una logica dove siamo convinti che esista la meritocrazia, dimenticandone la distopia sottesa. Insomma, l’abitudine di sembrare e mostrarsi ricchi, più che essere ricchi; divenendo perfetti attori all’interno della società dello spettacolo, come intuì Guy Debord:

“Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppantesi per sé stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori”
(Debord, 2008)

Le echo chamber degli algoritmi

“Il nuovo capitalismo digitale incoraggia le echo chamber, preferisce comunità divise, perché il potere economico ha paura della dialettica sociale tra poveri e ricchi, che anzi pretende di modernizzare, spostandola su temi civili, come se questi non fossero conseguenza della separazione a monte tra diritti primari e responsabilità politica”.

Cosa c’è dietro a tutto questo? Perché notizie, credenze, pensieri vengono amplificati, a tal punto da non tener più in considerazione quelle che possono essere pareri o opinioni in contrasto? Il capitolo sulle echo chamber degli algoritmi è uno dei più cruciali del libro. “Camere” in cui l’eco del nostro conformismo si riverbera: siamo noi ad aver fornito ai social, sui quali apriamo i nostri profili, una quantità incredibile di informazioni, attraverso la pubblicazione di pensieri e immagini che dicono tutto di noi, cosa preferiamo, cosa acquistiamo, perfino quali emozioni proviamo e di fronte a cosa”. Riprendendo la stessa analisi, gli autori del JRC Science for Policy Report del 2020 hanno svolto una serie di ricerche finanziate dalla Commissione Europea riguardo al tema della tecnologia e al suo risvolto sulla democrazia. A tal proposito scrivono:

“Il paradosso della rete Internet: abbiamo in mano solo una piccola porzione del mondo: la nostra, cadendo nell’equivoco di aver tutto il mondo in mano. Sottomessi alla potenza dell’algoritmo. Gli algoritmi prendono decisioni senza controllo pubblico, regolamentazione o diffusione della comprensione dei meccanismi alla base delle decisioni che ne derivano […] operano come delle scatole nere […] tanto che perfino i creatori o i proprietari degli algoritmi potrebbero non essere consapevoli del loro funzionamento”
(JRC, 2020).

Occorre sottolineare la differenza fra “camere d’eco” (echo chamber) e “bolle di filtraggio” (filter bubble). Le camere d’eco, o di risonanza, fanno riferimento ad ambienti in cui le persone sono sottoposte sempre agli stessi stimoli, provenienti da persone che hanno opinioni e credenze simili. Le filter bubble sono invece degli ambienti chiusi: l’algoritmo seleziona contenuti in base alle nostre preferenze, rivelate da noi stessi, offrendo la nostra grande quantità di dati. Fenomeni che sfidano fortemente la democrazia. Anche dalla letteratura in materia emerge che, se la polarizzazione esiste offline, esiste anche online. Viene esplicitato tutto ciò che questo fenomeno consegue: la disinformazione e malinformazione. La differenza fra le due è che la seconda ha un intento malevolo (cfr. Wardle, Derakhsan, 2017). Ulteriori sfide verranno lanciate proprio dall’intelligenza artificiale, con i cosiddetti deep fake, in cui forse non basta solo la consapevolezza del reale per non cadere nel tranello dell’inganno. “Disinformazione e fake news sono diventate la nuova minaccia globale”.

“Proud to be”
Eccoci al fulcro del discorso di Landi, che riesce a collegare perfettamente tutto ciò che ha esplicitato in precedenza:

“La lotta di classe degli algoritmi si sposta sul terreno del «Proud to be». L’orgoglio di essere qualunque cosa: donna, uomo, nero, grasso, magro, gay, diversamente abile, cattolico, buddista, ateo, ignorante, in un elenco senza fine dello «stay woke» (stai all’erta) nei confronti di presunte ingiustizie sociali e razziali. Non abbassare mai la guardia, in uno stato di allarme permanente verso la sensibilità delle persone, di qualunque persona, che può essere urtata continuamente da parole, atteggiamenti, azioni”.

L’essere “Proud to be” si muove sul terreno della spettacolarizzazione di sé stessi, ed è alimentato grazie alle camere dell’eco. Giocano un ruolo fondamentale in questo anche le bolle di filtraggio: se siamo in contrasto con quel determinato “Proud to be” saremo inondati da contenuti che non faranno altro che potenziare il nostro disaccordo; creando una sorta di equilibrio perfetto all’interno dell’ambiente social, dove più che una finestra sul mondo continua a essere un binocolo sul nostro piccolo mondo.

La democrazia del like

“La tecnologia che promette l’abbondanza sfrutta la potenza di questi nuovi mezzi, che illudono di aver realizzato l’uguaglianza perché ognuno può dire la sua e mettere un like a quella di un altro, mentre un abisso continua a separare la realtà dal mito della condivisione democratica virtuale, così abilmente costruito: non saranno le parole, da sole, a colmarlo”.

Ecco un nuovo paradosso “il mito della condivisione democratica virtuale”: di quale popolo stiamo parlando? Scrive Colin Crouch in Postdemocrazia:

“La democrazia prospera quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle priorità della vita pubblica; quando le masse usufruiscono attivamente di queste opportunità; e quando le élite non sono in grado di controllare e sminuire la maniera in cui si discute di queste cose”.
(Crouch, 2003)

Tutti possono dire tutto, ma non possiamo aspettarci che tutti condividano il nostro pensiero. Il punto cruciale per Landi è come si risponde all’altro. Sempre riprendendo il concetto del sistema post-panottico, “siamo controllori, siamo controllati e facilitiamo il nostro controllo”. Quindi, in virtù di questo dovremmo evitare di controllare gli altri e punirli, oppure dovremmo evitare di condividere i nostri pensieri? È come un labirinto senza fine, dove forse l’unica soluzione è trattare gli altri come vorremmo che gli altri trattassero noi.

“Se sembra tutto gratis, se non si paga per usare i social network e i motori di ricerca, con la Rete che ci consente di accedere gratuitamente a una enormità di servizi, è evidente che lo scambio con chi possiede questi mezzi di comunicazione siamo noi, la massa degli user, gli utilizzatori che, come in era analogica, riunisce operai, impiegati, studenti, disoccupati, precari, cassintegrati, lavoratori flessibili, sfruttati di ogni categoria”.

La merce siamo noi, sono i nostri dati, le tracce lasciate, i nostri contenuti condivisi. Siamo immersi in un mondo di bolle di filtraggio e camere dell’eco, e possiamo essere portavoce di una lotta comune. Basti pensare a come i social network sono stati culla della nascita di molte proteste, e di lotte. Una perfetta panoramica ci viene offerta dal politologo francese Yves Mény in Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico:

“L’individualismo esacerbato che le nuove tecnologie favoriscono ed esasperano nel mono dei consumi e dei servizi privati sono l’antipasto del terremoto in corso… Si aderisce ad un partito o un movimento con un semplice click e vi si contribuisce digitando gli estremi della carta di credito; non si esige una militanza attiva e non si richiede di condividerne l’azione o di fare volantinaggio. Tutto questo sostituito da qualche like”
(Mény, 2019).

Ed è qui che ritorna il problema della democrazia, un termine problematico per natura, data la sua caratteristica polisemica. E infatti ben sappiamo che il popolo è sì sovrano, ma regolato. Riprendendo Yves Mèny, parliamo del paradosso della democrazia “che quel sovrano popolare che produce norme è esso stesso sottomesso alle norme” (ibidem). Lo stesso politologo francese si domanda: “Che cosa può diventare la democrazia nazionale e rappresentativa in un mondo radicalmente nuovo caratterizzato dalla combinazione senza precedenti della globalità e dell’individualità?” (ibidem). Una domanda a cui bisogna ancora cercare una risposta.

Time Porosity
Se i social network e gli influencer agitano lo slogan “Se vuoi puoi”, perché continuare a vivere una vita monotona? Anche in questo caso, Paolo Landi mette in evidenza un tema di estrema importanza. Perché lavorare e ricevere uno stipendio mediocre se posso essere padrone della mia vita utilizzando i social network come fonte di guadagno? In letteratura riguardo il tema del mercato del lavoro del futuro appaiono abbondantemente temi come burnout, stress, work life-balance. Bisogna lavorare, ma non vivere per lavorare: potresti avere la FOMO (Fear of Missing Out, termine coniato dall’imprenditore statunitense Patrick J. McGinnis), ovvero aver la paura di essere tagliato fuori dal tuo gruppo di amici o magari dal mondo social. Forse non per puro caso questo termine è stato coniato proprio da un imprenditore, immerso nella logica del capitalismo della performance. La vera difficoltà sta nel dividere il tempo del lavoro dal tempo libero, scissione che le tecnologie – o il lavoro da casa – rendono sempre meno possibile. Le nuove tecnologie portano a quello che Emilie Genin, professoressa associata presso l’Istituto molecolare di chimica all’Università di Bordeaux, definisce Time Porosity, un fenomeno che “indica un’interferenza fra ciò che è considerato tempo di lavoro e ciò che è considerato tempo personale” (Genin, 2016). Osservando poi la spettacolarizzazione del sé sui social, la domanda sorge spontanea: “che lavoro a fare?”. Noncuranti del fatto, inoltre, che non è tutto come sembra. Ore di lavoro, di riflessione, e di tempo, stress e burnout non sono proprio al di fuori di questo mondo (soprattutto sui social). Aggiungiamo la continua ricerca dell’apprezzamento per evitare di rompere il filo dell’immagine sociale e sprofondare nella gogna.

“Perché l’umanesimo, o la sua parodia, la speranza in una tecnologia salvifica per l’uomo, che lo liberi da qualunque tipo di sfruttamento restituendogli centralità”.

Dall’analisi di Landi non è esclusa una riflessione sulla Blockchain e tutto ciò che ruota intorno a questo sistema, dove il focus è la decentralizzazione. “Bitcoin is an apolitical tool for the human freedom” (Maier, 2023), ovvero siamo in presenza di uno strumento che promette di supportare i diritti umani. Una tecnologia che investe tutti gli aspetti della vita, dichiarandosi totalmente neutrale e ugualitaria. “Be Your Own Bank” scrive C. Jason Maier, l’autore di A Progressive’s Case of Bitcoin. Un altro concetto rilevante, in quest’ottica, è quello definito dall’imprenditore indiano-americano Balaji Srinivasan: “Network State”; prevede un modello di governance guidato dalla tecnologia digitale, dalla decentralizzazione e da Internet. Esso enfatizza le comunità virtuali e le piattaforme decentralizzate che trascendono i confini geografici. L’imprenditore e investitore sostiene che lo Stato della rete può fornire migliori servizi e rappresentanza ai cittadini grazie la tecnologia, consentendo un maggiore controllo sui dati, sulla privacy e sul benessere economico. Dobbiamo quindi interrogarci sulla riformulazione dei sistemi economici e di potere. Queste tecnologie fanno riflettere molto sull’idea dell’eliminazione via via sempre piú prorompente degli intermediari, sia in campo politico che nella vita sociale. Arrivando forse a un momento in cui questi intermediari non esisteranno più? Anche in questo caso più che avere una visione apocalittica o totalmente entusiasmante dovremmo cercare di porci le domande giuste.
Alla fine, passando per tutti gli altri capitoli, si giunge a chiederci: “l’individuo è solo?”. Tolti gli intermediari di tipo bancario, di tipo sociale e scartati per la maggior parte le fabbriche e gli uffici in termini fisici, passando poi per l’utilizzo dei social all’interno dei quali come direbbe la psicologa e tecnologa Sherry Turkle: “Siamo insieme ma soli”. Le bolle di filtraggio sono create ad hoc per noi, l’esperienza sembra condivisa ma individuale. Quando si pubblica la relazione è da uno a molti, anche il like parte dal singolo per il singolo. La narrativa del sogno della donna o dell’uomo che ce l’ha fatta, il mito dell’imprenditrice o imprenditore, e di chi ha creato il suo futuro partendo da zero. Tutto questo, come osserva Landi, non fa altro che creare la solitudine, condizione necessaria del mondo contemporaneo e dell’economia digitale e conclude:

“Ci sarebbe bisogno di una nuova classe di ingegneri-filosofi-antropologi-avvocati capaci di applicare i principi etici frutto delle conquiste del genere umano agli schemi degli algoritmi, mettendo loro dei vincoli, codificando matematicamente i nuovi valori, per impedire che la supposta neutralità dei numeri perpetui cliché e discriminazioni”.

Letture
  • Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2015.
  • Colin Crouch, Postdemocrazia. Laterza, Roma-Bari, 2003.
  • Guy Debord, La società dello spettacolo, Viterbo, Massari, 2008.
  • Oliver James, Il capitalista egoista, Codice, Torino, 2009.
  • Jason Maier, A progressive’s case for bitcoin. A path toward a more just, equitable, and peaceful world, Bitcoin Magazine Books, 2023.
  • Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Feltrinelli, Milano, 2017.
  • Karl Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma, 2021.
  • Yves Mény, Popolo ma non troppo. Il Malinteso democratico, Il Mulino, Bologna, 2019.
  • Balaji S. Srinivasan, The Network State: How to Start a New Country, Amazon Kindle, 2022.
  • Pasquale Stanziale, Introduzione, in Debord, 2008.