Ora i Non morti
stazionano nel Far East

Yeon Sang-ho
TrainTo Busan
Cast:  Yoo Gong, Soo-an Kim, Yu-mi Jung, Kim Su-an
+ Seoul Station
Midnight Factory/Koch Media, 2017

Yeon Sang-ho
TrainTo Busan
Cast:  Yoo Gong, Soo-an Kim, Yu-mi Jung, Kim Su-an
+ Seoul Station
Midnight Factory/Koch Media, 2017


Quando nel 1978 George A. Romero riprese il suo seminale discorso sui morti viventi con Zombie, alias Dawn of the Dead, consegnò al pubblico gli speciali occhiali da sole di Roddy Piper in Essi vivono (1988) di John Carpenter. La spiccata critica al consumismo messa in scena da Romero, la rappresentazione dello zombie che ricordava di dovere andare al centro commerciale, ancora spinto verso i centri del consumo, veniva esplicitata in Essi vivono con i cartelloni pubblicitari che con gli occhiali che svelavano a John Nada, personaggio interpretato da Piper, il messaggio subliminale realmente veicolato.
In altre parole, la pletora di messaggi subliminali nascosti nella quotidianità del consumismo si palesò sotto forma di corpi mobili galvanizzati dall’idea del consumo. Decenni dopo, in un paesaggio mediatico dove “you can hardly put a foot forward without stepping on a flesh-craving fiend” (Quinn, 2016), ne sono passati di zombie sotto i ponti fino al 2016, anno di uscita di Train to Busan. Si tratta del primo film in live action del regista sud coreano Yeon Sang-ho, Train to Busan, anticipato dal suo prequel animato Seoul Station e non deve meravigliare perché Yeon Sang-ha già alle spalle due lungometraggi d’animazione. Entrambi, Seoul Station e Train to Busan, dopo essere passati solo in festival cinematografici come il Trieste Science+Fiction Festival 2016, vengono distribuiti in Italia, per il mercato home video, dalla Midnight Factory (Koch Media) in un’unica edizione limitata in cofanetto.

In tutto questo lasso di tempo il sottotesto politico non ha mai cessato di occupare il fronte delle interpretazioni del non morto nell’immaginario cinematografico. Come la parodia Shaun of the Dead (2004) di Edgar Wright col suo j’accuse a una società di lavoratori trasformati in zombie destinati a ripetere gli stessi gesti anche da morti, oppure la ferocia politica della società autodistruttrice del 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle. In Sud Corea Train to Busan e Seoul Station, due lavori intrecciati l’uno con l’altro, sono approdati nelle sale in un momento storico particolare, con le piazze sud coreane colme fino all’inverosimile di manifestanti per l’impeachment dell’allora presidentessa Park Geun-hye, figlia dello storico dittatore Park Chung-hee. Una vicenda legata allo strapotere di pochi, tra cui delle grandi corporazioni a guida, generalmente, familiare in Sud Corea conosciute con l’etichetta chaebol. È un paese in cui la corruzione dei piani alti è stata protagonista per decenni, con uno sviluppo sociale mutilato da ingiustizie infinite poi affluite negli ultimi quindici anni di cinema locale tra thriller, opere biografiche e drammi utilizzati a mo’ di digestivi.

Train to Busan assolve a uno scopo simile, optando però per una visione destinata a illuminare gli spettatori su un possibile scenario futuro di stampo economico, delle conseguenze catastrofiche date dal capitalismo sfrenato che separa la popolazione benestante dagli invisibili e impresentabili della società, diretti protagonisti, al contrario del live action, dell’animato Seoul Station. Pur essendo quest’ultimo un prequel di Train to Busan, la storia inizia nel live action, un incidente di qualche sorta in un’azienda di ricerca e sviluppo genera un virus che trasforma gli infetti in creature rabbiose a caccia di carne umana. Un cervo sembra essere la primissima vittima del gene mutato, mentre il primo umano di cui la doppietta filmica dà notizia abita nel sottosuolo di Seoul, per l’esattezza dentro i tunnel della stazione dove tutti loro si riuniscono la notte per dormire. È un male che distrugge la base della società, quella che letteralmente vive sotto le sue fondamenta, allagando la metropoli poco alla volta facendo straripare la folla sulle strade incapaci di arginare una massa umana che agisce con la fisica di un torrente. La fuga è impossibile, tranne per gli ignari e (apparentemente) fortunati protagonisti di Train to Busan, viaggiatori dalla capitale politica alla capitale commerciale, destinati a scappare a bordo di un treno in corsa da una delle minacce classiche della cinematografia.
Un treno alta velocità in cui la maggioranza dei viaggiatori appartiene alle classi più agiate, di cui è membro il protagonista e la sua giovane figlia. Ne consegue una escalation segnata da un ritmo adeguato e da situazioni visionarie anche per il genere, come gli zombi che piovono giù dal cielo o dilagano da tetti e vetrate fino a un inseguimento al treno che rende appieno il senso dell’apocalisse in corso. Tutto sorretto da interpretazioni convincenti a iniziare dalla formidabile piccola Kim Su-an. E se in Seoul Station non esiste quasi parametro di confronto tra le classi sociali, essendo esse così separate da rendere impossibile la formazione di punti di incontro tra le parti, in Train to Busan con personaggi senza portafoglio e la presenza dell’equipaggio proletario del treno la lotta sociale è palese: l’invisibilità si trasmette negli occhi di chi combatte solo per sé stesso o in coloro che di fronte alla minaccia scelgono invece l’altruismo.

L’opera di Yeon Sang-ho si presta a una rapida lettura economica: la sua appare difatti come una dissertazione socio-economica in cui si sviluppa un immaginario futuro (cfr. Beckert, 2016). È la pessimistica previsione macro-economica dell’andamento della società sud coreana, l’identikit del volto colpevole di aver gettato la nazione nell’abisso delle disuguaglianze sociali. Il non morto in questa occasione infatti perde di caratterizzazione: se prima in Romero a dare loro corpo era l’identificazione con ciò che si consuma (cfr. Brancato, 2014), in Train to Busan, in misura maggiore rispetto a Seoul Station, le persone si identificano sulla base della loro posizione all’interno della piramide sociale, con la punta a indicare i colpevoli del disastro, almeno finché il loro numero non diventa così esiguo a tal punto da scadere nel simbolico. Un finale che rassomiglia alla chiusura di un altro lavoro sud coreano, Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013), con la donna a rappresentare il mito della rinascita e della ricostruzione del genere umano.

Letture
  • Jens Beckert, Imagined Futures: Fictional Expectations and Capitalist Dynamics, Harvard University Press, Cambridge, 2016.
  • Sergio Brancato, Fantasmi della modernità, Ipermedium libri, Santa Maria Capua Vetere, 2014.
  • Paul Quinn, Train to Busan in Hangul Celluloid, 2016
Visioni
  • Bong Joon-Ho, Snowpiercer, Koch Media, 2014 (home video).