Estremo, contraddittorio,
plurale ed esteso: il metal

Claudio Kulesko e Gioele Cima
(a cura di)

Metal Theory
Esegesi del vero metallo
D Editore Roma, 2024

pp. 223, € 21,90

Claudio Kulesko e Gioele Cima
(a cura di)

Metal Theory
Esegesi del vero metallo
D Editore Roma, 2024

pp. 223, € 21,90


Mario Bava, noto apostolo del cinema del terrore, nel 1963 fa uscire nelle sale un film a episodi tratto da due racconti di Anton Cechov e di Aleksej Tolstoj – cugino di secondo grado del più famoso Lev –, e da un terzo racconto erroneamente attribuito a Guy de Maupassant. Intitolata I tre volti della paura, la pellicola poteva vantare nel cast anche Boris Karloff, bandiera internazionale del genere oltre che icona della trasposizione sul grande schermo dei classici della letteratura gotica. Benché al botteghino i risultati non furono esaltanti, oggi la pellicola viene ricordata per essere stata di ispirazione a registi come Roman Polanski e Quentin Tarantino, ma anche e forse soprattutto per un altro motivo. Nella versione distribuita in Inghilterra, infatti, il film uscì come Black Sabbath, titolo che piacque così tanto all’allora diciannovenne Terence Butler da convincerlo a proporlo ai suoi tre amici – Ozzy Osbourne, Tony Iommi e Bill Ward – come nuovo nome da dare alla band a cui tutti insieme davano vita: una giovane compagine di Birmingham di ispirazione blues che da qualche tempo rispondeva al nome di Earth, dopo essere nata come Polka Tulk Blues Band. Due anni dopo, nel 1970, quella band avrebbe pubblicato un album omonimo, poi passato alla storia come uno dei più importanti lavori rock del secolo: Black Sabbath, appunto. Ed è da lì che, talvolta per convenzione, talvolta per esigenze narrative, si fa discendere un intero genere musicale: un genere malleabile ma pertinace, severo ma fanciullesco, inattuale ma sempre contemporaneo. Stiamo ovviamente parlando del metal.

Adattabile molto a fatica sotto il cappello di un’unica definizione, fin dai suoi primi passi il metal ha vissuto piuttosto di ampie possibilità di manifestazione, e da quel disco germinale del 1970, che mescolava chitarre dilatate e grida di disperazione con sentimenti gotici e cupe atmosfere – Black Sabbath comincia letteralmente sotto la pioggia, e con tetre campane che suonano a morto –, sono poi venute fuori diverse strade, ciascuna delle quali si è a sua volta suddivisa e suddivisa ancora, fino a dar vita a una vasta cartografia mobile che annovera sotto-generi anche piuttosto diversi tra loro: dalla chiassosa epica battagliera del power metal fino agli estesi eccessi sonori del drone; dal tradizionalismo di recupero del folk fino alla truce retorica del brutal death; dalle urla assatanate del black fino ai malinconici riverberi classicisti del death/gothic doom; e così a seguire. Benché ciascuno dei sotto-generi citati abbia avuto un suo luogo e un suo tempo privilegiati, come l’Inghilterra della metà degli anni Novanta per il death/gothic doom – con gruppi come Anathema, My Dying Bride, Paradise Lost eccetera – o la Norvegia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta per il black metal – Mayhem, Burzum, Emperor, Satyricon eccetera –, si può dire che tutti, come il metal nella sua interezza, si sono tuttavia caratterizzati per un attributo universale: non si sono mai esauriti, e anzi hanno continuato a rispondere a una doppia e contrastante tendenza: evolvere costantemente, traendo spunti da contesti musicali affini e non, da una parte; e rispettare con rigore la tradizione fino a riproporla tal quale in una rigida liturgia ritualistica, dall’altra. Chi dice che questa è un’affermazione irricevibile perché contraddittoria, probabilmente non ha molta dimestichezza col metal, luogo delle contraddizioni per eccellenza.

I Sunn O))) in concerto al Brutal Assault Festival nella Repubblica Ceca.

Per dar conto della moltitudine di anime annoverabili nell’ampia cornice che in musica chiamiamo metal, o quantomeno per cominciare a farlo in maniera anche soltanto leggermente sistematica, e per definire al contempo le linee generali della filosofia che vi soggiace – meglio se al plurale: le filosofie –, Claudio Kulesko e Gioele Cima hanno curato il volume Metal Theory. Esegesi del vero metallo, pubblicato da D Editore. Il volume, facendo da specchio all’ampiezza e alla complessità del metal inteso come unico grande contenitore di sotto-generi, e sorreggendosi su vari modelli teorici – più di tutti ricorrono Mille piani di Gilles Deleuze e Felix Guattari (2003) e Cyclonopedia di Reza Negarestani (2021) –, raccoglie una decina di contributi anche assai dissimili tra loro in quanto a stile, ambizioni, rigore argomentativo e temi trattati: da un godibile saggio narrativo sui desideri escapisti ritracciabili nella pratica eremitica del metal (Per questi sentieri eternamente adombrati. Del rapporto tra psicocosmologia, scrittura magica, epicness e fiction sonica, di Claudio Kulesko) si passa per esempio a una disamina sul pessimismo che caratterizza l’opera dei Neurosis (“Eppure tutto sembra senza una fine”. Il dolore cosmico dei Neurosis, di Gioele Cima); da un frettoloso argomentare sull’autenticità nel black metal (Purezza. Minaccia. Impostura. Retoriche dell’autentico nel discorso black metal, di Rosalba Nodari) si passa a una serie di appunti sulla filosofia necrofila alla base del grindcore e dell’opera dei Carcass (Goregrind, ovvero: dieci note sul decadimento, di Milena Quaglini); e così a seguire. Tra i contributi più convincenti del volume, ci sembra di poter annoverare quello intitolato L’identico e il negativo. Sul pellegrinaggio verticale del drone, firmato da Paolo Berti, un testo che intende indagare il portato filosofico ed esperienziale del drone metal, sotto-branca del metal che, a partire dagli anni Novanta, ha recepito fascinazioni dalla psichedelia e dalla musica d’ambiente, estendendo a dismisura tempi di esecuzione – come e più del già lento funeral doom – e infischiandosene delle esigenze degli irriducibili del pogo.
In particolare, Berti ci accompagna attraverso una consapevole lettura della musica dei Sunn O))), gruppo statunitense formato a Seattle, nel 1998, dai chitarristi Stephen O’Malley e Greg Anderson, e attualmente principale estensore di un genere la cui paternità è spesso attribuita agli Earth, band nata anch’essa a Seattle, nel 1990, che deve il nome, guarda un po’, proprio ai Black Sabbath – come si ricorderà, il gruppo di Birmingham si chiamava proprio Earth, prima che Butler vedesse il film di Bava.

Il drone – o bordone –, ovvero l’estensione oltremisura di “note persistenti, sostenute, spesso ripetute”, viene qui analizzato come elemento che, partendo dalla dimensione rituale di un antico passato più o meno tribale, cosa che in un certo senso lo apparenta con il black metal, e attraversando i rumori e le distorsioni della città industriale contemporanea, cosa che in un certo senso lo apparenta con il noise – diciamo noi – sarebbe in grado di favorire il passaggio della musica su uno scenario puramente speculativo. Uno scenario che, scavalcando la trascendenza, ma al contempo facendosene forte – ancora la contraddizione –, favorisce in chi ascolta un’esperienza squisitamente immanente, nella quale è facile avvertire l’insorgere di una sorta di pensiero geologico, astrale e comunque non-umano, l’affrancamento dalle pastoie della breve durata del nostro orizzonte più immediato e l’annullamento totale delle inezie biografiche di ciascuno di noi. In altri termini, il drone può essere considerato, sulla scorta di Joanna Demers (2015) – autrice citata nel contributo di Berti –, come “la musica che suona quando i marcatori temporali, gli orologi e i metronomi si fermano”. Esempio ne siano, diciamo noi, gli ultimi due album da studio pubblicati dai Sunn O))), ovvero Life metal (2019a) e Pyroclasts (2019b), due opere gemelle che già nei titoli e nell’artwork di copertina – cieli indistinti, fuoco, terra e pietra – esigono un passaggio interpretativo e di fruizione dal piano biologico a quello minerale. Otto pezzi in tutto – quattro per album – che, eccedendo in ogni caso la soglia dei dieci minuti, fino a picchi di venti e passa, dimostrano un’evidente intenzione di apertura prospettica. E se già i dischi in questione rappresentano a nostro parere un buon esercizio di pensiero svincolato dall’estensione del tempo e dello spazio per come li esperiamo come singoli individui, è nella dimensione live che la comunione con un oggetto trascendente e al contempo assai immanente – astri e carne, per non complicare – si appropria di chi ascolta. Come ben sottolinea Berti:

“Nel suono dei Sunn O))) l’approdo al piano sensibile è demandato in gran parte all’esperienza live. Il testo è rappresentato dal corpo stesso dello spettatore, avvertito attraverso la nebbia sintetica [di incontinenti macchine spara-fumo], i muri di amplificatori [schierati a decine alle spalle dei due chitarristi], la gestione scenica dello spazio, l’assenza di virtuosismo, la ritualità della pennata […] e soprattutto attraverso il volume”.

I Sunn O))) si esibiscono infatti suonando di norma a 120 dB, poco sotto la “soglia del dolore fisico”, così che il corpo di chi assiste ai loro concerti venga attraversato dalle basse frequenze e “percepisca la vibrazione nello stomaco, nella gola, nella cassa toracica, senza che l’orecchio riesca a tradurne totalmente la musicalità”. A conferma del fatto, la recente abitudine di O’Malley e Anderson di suggerire al proprio pubblico, prima delle esibizioni, l’utilizzo di tappi per le orecchie – presenti tra l’altro come gadget logato nel merchandising ufficiale della band –, perché non è principalmente dai timpani che il suono deve entrare. L’esperienza di ascolto live dei Sunn O))), con o senza tappi, è comunque totale. E paradossale, anche: perché stando fermi, senza fare un passo ai piedi del palco, fermi immobili, se non talvolta per distendere lentamente le braccia verso il duo che si esibisce invariabilmente in abiti sacerdotali – non c’è altro modo di assistere a un loro concerto –, si vive prima il profondo straniamento di un’esperienza estrema e sconosciuta, e subito dopo si prende a galleggiare in un altrove esterno dove si formano gli astri. Ed è proprio questa caratteristica del tutto peculiare che, sottolinea Berti sulla scorta di Owen Coggins (2017), favorirebbe in chi ascolta “un’amplificazione dell’immaginazione, culminante non nell’immedesimazione in un’estetica di genere, bensì (sull’onda della staticità sonica) in una visita mentale in ‘spazi altri’”. Cosa di cui, soprattutto in questi tempi, ci sembra di poter dire, abbiamo tutti un gran bisogno.

Ascolti
  • Black Sabbath, Black Sabbath, Rhino Records/Warner Bros., 2023.
  • Sunn O))), Life metal, Southern Lord, 2019a.
  • Sunn O))), Pyroclasts, Southern Lord, 2019b.

Letture

  • Owen Coggins, Unstable Metaphors for the Inaccessible: Mysticism, Blackletter, Drone Metal, in Owen Coggins e James Harris (a cura di), Sustain/Decay: A Philosophical Investigation of Drone Music and Mysticism, Void Front Press, Mountain View, 2017.
  • Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2003.
  • Joanna Demers, Drone and Apocalypse: An Exhibit Catalog for the end of the World, Zer0 Books, Winchester, 2015.
  • Reza Negarestani, Cyclonopedia, LUISS, Roma, 2021.

Visioni

  • Mario Bava, I tre volti della paura, Emmepi Cinematografica, Lyre Cinematographique e Galatea spa, 1963.