Storia ai confini del corpo,
verso le frontiere del sé

Chi Ta-wei
Membrana
Traduzione di Alessandra Pezza

Add editore, Torino, 2022
pp. 160, € 20,00

Chi Ta-wei
Membrana
Traduzione di Alessandra Pezza

Add editore, Torino, 2022
pp. 160, € 20,00


Pubblicato per la prima volta nel 1995 a Taiwan, paese d’origine del suo autore, Chi Ta-wei, Membrana viene oggi proposto al pubblico italiano dalla casa editrice torinese Add (traduzione dal cinese di Alessandra Pezza) senza che il tempo trascorso abbia inciso sull’attualità di molte delle tematiche affrontate, se non imponendo alla nostra attenzione l’imprescindibilità di prenderne atto in una dimensione che non sia più esclusivamente distopica. Discorso, a ben guardare, valido per tutto ciò che fino a qualche tempo fa poteva collocarsi, a ragione, nello scenario distopico di una fantascienza che offriva il margine e la distanza di riflessioni necessarie al mutamento di prospettiva di società piegate al denaro e allo sfruttamento delle risorse, anche umane, al successo e alla forma con cui si consacra il nulla e che oggi ha la consistenza di un incubo avverato.
Discorso che, seppure valido in presenza di pubblicazioni di questa portata, dunque di un genus, qui deve declinarsi differentemente non fosse altro che per la grazia e l’erotismo subliminale della visuale con cui lo scrittore taiwanese esplora l’ambiguo frapporsi, tra noi e il mondo, del nostro corpo. Persino il titolo ne è una derivazione. Ce lo dice chiaramente un passaggio in apertura del romanzo: “C’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”. La membrana, dunque, quale estrinsecazione corporea di un sentimento più ampio, quello per cui Momo, la protagonista, sente di appartenere a un altro spazio, a un altro tempo. Protezione e difesa e – ci si chiede – forse, anche, impedimento. Lo esplicita un passaggio:

“Era come una pesca infelice che desiderava cambiare albero. Magari per qualcuno i peschi sono tutti uguali, uno vale l’altro, no? E invece no. Due alberi sono due microcosmi a sé”.

Romanzo che, a partire dall’esplicazione del titolo racchiusa nelle prime righe, affronta il tema dell’identità, della forma e del genere, incastrandolo egregiamente all’interno di una struttura narrativa, non priva di una sua complessità, che investendo progresso, scienza, guerra, privacy, sicurezza, critica sociale delle condizioni di lavoro, non lascia il lettore indifferente imponendogli, in qualche modo, di attivarsi non senza scopo: quello per cui la flessibilità del pensiero sia talmente allenata da consentirgli di seguire l’apparente groviglio di fili che conduce al finale in una ricomposizione delle tessere senza verità conclamate e coerentemente all’immaginario suggerito, stimolato, generato e non vanificato dal termine delle peripezie della storia. Perché nulla qui ha la consistenza rigida e marmorea dell’assolutismo della verità, nulla è fermo, immutabile, ma un movimento continuo pare accompagni costantemente il lettore immerso nella liquidità di una civiltà subacquea, ivi sorta per effetto dell’esaurimento delle risorse indispensabili per l’abitabilità terrestre, e nella fluidità dei mutamenti che subiscono i personaggi, non sempre organici, spesso di prospettiva in chi li guarda.

L’impressione è che il viaggio possa davvero cominciare nell’istante in cui si è disposti a rinunciare all’ordinaria catalogazione del reale, non solo perché il contesto sociale in cui la vicenda si svolge è strutturalmente differente dal nostro, nonostante l’apparente diversità sia un ironico gioco sulle assonanze, collocandosi al di sotto della dimensione terrestre che attualmente abitiamo, ma anche perché il nucleo del romanzo è un oltre, un varcare la soglia, un superamento di limiti e confini, un attraversamento di spazi definiti e tratti risoluti per conoscere ciò che ci appartiene intimamente e travalica le forme imposte dall’umano per comodità e tranquillità di conoscenza. In fondo, un passare oltre la membrana. Quella corporea, ma anche quella che il sistema impone o di cui il paesaggio sottomarino necessita per garantire la forzata sopravvivenza umana in luoghi naturalmente deputati all’accoglimento dell’altro da noi. Tutte indispensabili a preservarci, eppure, talvolta, contrarie all’intimo in cui siamo oltre la schematica del reale. Nell’ultima declinazione la rivela alla nostra attenzione, abbastanza chiaramente, intersecando, in parallelo, come spesso qui accade, altre faccende del nostro incubo contemporaneo, il seguente passaggio:

“Sopra l’elegante distretto residenziale dove viveva, la membrana era pulita, senza traccia di coralli e anemoni. Alzando lo sguardo verso le insondabili profondità dell’oceano, si vedevano le onde turchine e argentate del mondo oltre la membrana che spumeggiavano e si accavallavano senza posa. Un’ombra scura attraversò fulminea le acque turbando il passaggio di un ordinato banco di pesci pagliaccio. «Un MM» pensò Momo assorta, reggendosi la testa con la mano. Un mezzo da guerra anfibio. Dicevano che in superficie fossero riprese le manovre militari, e in effetti sempre più spesso gli MM solcavano gli oceani in assetto da battaglia”.

Membrana che crea l’ambiente ideale per vivere, ma anche membrana rivelatrice di oscuri movimenti che vengono condotti alle nostre spalle e che, come questa storia dimostra, tornano indietro a colpire, con l’inversa determinazione di un boomerang, la nostra precaria illusoria condizione di salvezza. La guerra non è ciò da cui ci salviamo, ma ciò in cui siamo implicati fino al punto di non poterne più fare a meno, in un’inquietante voragine di confluenza tra scienza, industria bellica e nostra sopravvivenza. Tutto risponde a una logica, di profitto e, oltre ancora, all’esigenza primaria di assicurare al genere umano il superamento di ogni forma di precarietà, la certezza assoluta di potere vivere fino quasi a uno stato vicino all’immortalità, abdicando al corpo e alla sua scadenza e scivolando neanche più tanto lentamente verso la dimensione meccanica dell’esistenza androide in cui tracce di anima scombinano i piani e regalano al mondo e al romanzo ciò che resta dell’uomo. Ma Chi Ta-wei sa bene che sventrare la contemporaneità non è un’operazione che possa limitarsi a coinvolgere l’industria bellica e la scienza. Questo perché non solo esse possono ramificarsi nelle nostre esistenze solo con il supporto della tecnologia, altro grande potere da sviscerare e qui portato alla ribalta attraverso il lavoro della madre di Momo, oltre che investito del compito, rassicurante o inquietante, dell’esercizio del controllo sulle nostre vite affinché nulla sia come non appare, ma anche perché lo scenario sarebbe incompleto se si trascurasse ciò di cui Membrana è, in qualche modo, espressione.
L’editoria, il potere editoriale compaiono, in associazione alla dimensione informatica (discolibri), per rivelarci l’ambiguità della conoscenza: strumento ineguagliabile di dominio delle nostre vite se esercitato su una prevalenza di uomini che ignorano, ma anche opportunità di libertà per chi sfugge alla segregazione del pensiero e lo esercita perché non sia manipolabile dal sistema, ma duttile e funzionale a un immaginario di prossima libertà. È Il mercante di Venezia o La tempesta di William Shakespeare, Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, Misery di Stephen King o vecchi film come Tacchi a spillo di Pedro Almodovar o Prêt-à-porter di Robert Altman a popolare di ricchezza immaginativa e a nutrire di elementi strutturali i sogni di Momo in un collegamento anomalo con la madre che da controparte delle ostilità, come analisi insegna, diviene un’altra inimmaginabile storia che regala a ciò che resta della figlia malata e tramutata in androide la vita che, forse, le spetterebbe in un mondo più giusto, fuori da quello narrato, in cui biotecnologia docet e umano e androide possono combinarsi: insomma lo spazio libero assicurato dalla finzione letteraria o cinematografica lungo un processo di associazioni in cui ciò che la fantasia umana crea sopperisce, almeno in parte, al vuoto della cancellazione della memoria.

Si tutela Momo dalla precarietà delle relazioni umane, si difende dal dolore, teme di soffrire ancora per la madre che, scomparsa diciotto anni prima, riappare nella forma di un ipotetico incontro nel giorno del suo trentesimo compleanno nelle prime pagine di questo romanzo, ma “cade” nel desiderio di conoscere l’altro, la madre, un’amica della madre, un cliente, ben oltre i limiti della pelle su cui il suo sguardo si posa nelle ore in cui è “solo” un’estetista. Perché Momo “non detestava davvero la vicinanza fisica con gli altri”, “quello che non sopportava erano le inevitabili implicazioni emotive di queste relazioni”.
È una visione di solitudine e silenzio quella che di Momo ci restituisce il suo autore. E, in questa, nelle stanze asettiche di un ospedale e in un parco fuori dal mondo nasce l’esplorazione di sé attraverso l’universo androide, attraverso l’altro simile, ma non identico, funzionale alla propria sopravvivenza, ma anche alla coscienza della propria solitudine, con cui la giovane protagonista viene in contatto, ben comprendendo il potere ambiguo dello stare nel corpo fuori dalle illusorie forme, in cui ci rassicuriamo di non essere, in un sovvertimento di regole. Poco importa che siano quelle imposte dal sistema che frappone ostacoli alla rottura di membrane divisorie da cui nasca un sentire o quelle che gli androidi fanno saltare offrendo nel raffronto con l’umano squarci di anima. In regime di “pace” tutto converge verso l’asfissia, verso un abisso asfittico, il rischio che il mondo esterno sia l’ennesima prigione, la manifesta condizione di essere “canarini in gabbia”, la fine della scivolosità dei trampolini da cui ci lanciamo verso la vita, il controllo dall’alto, il nostro verso l’altro, il bisogno di conoscere che si infrange contro il muro del potere e l’erotismo che si affaccia nella violazione degli spazi posti a metà tra l’autorità e il desiderio di perforare ogni membrana per accedere alla vita fino al suo esatto opposto. Conoscersi per intero, in quella mancata conciliazione di opposti in cui siamo tutto e il suo contrario.


Chi Ta-wei.

Non appare in quest’ottica per nulla casuale la scelta di invocare Pier Paolo Pasolini nella decisione di attribuirne il nome a un umano che, come lei, finisce per introiettare, non solo fisicamente, la dimensione del vicino androide. In una recente intervista Chi Ta-wei racconta di essere rimasto affascinato dalle videocassette dei film di Pasolini di cui entrò in possesso, negli anni Ottanta, con complici esperti e che, masterizzate da programmi giapponesi, concedevano l’opportunità di un’esperienza quasi mistica. Dice: “È così che è iniziato il mio amore per Pasolini, e quello erotico è stato solo il primo canale di contatto, perché è stata poi la sua visione, la sua critica intransigente, a catturarmi” (Barberis, 2022). Tornano gli opposti. Il rigore e la sua violazione, lo scambio, le identità che, in un margine altro, fuori dalla realtà rigidamente intesa, si sfiorano e confondono. E regalano altra conoscenza possibile. Un viaggio corporeo senza malattia che non sia la casualità del fragile e senza soccorso conseguenziale della scienza. Dentro una libertà ancora possibile.

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