L’abisso del pensiero:
Blanchot al primo romanzo

Maurice Blanchot
Thomas L’Oscuro
Traduzione di Francesco Fogliotti

Il Saggiatore, Milano, 2023
pp. 139, € 18,00

Maurice Blanchot
Thomas L’Oscuro
Traduzione di Francesco Fogliotti

Il Saggiatore, Milano, 2023
pp. 139, € 18,00


Figlio rinnegato di Zeus e della pleiade Maia, Hermes nasce prematuro sul monte Cillene, in Peloponneso, al confine fra Arcadia e Acaia. Al tempo, il VI secolo a.C., quello era il cuore della Grecia, e di quella storia che di lì a pochi anni avrebbe dato le prime forme alla civiltà occidentale. Hermes esce presto dalla grotta che ospita lui e la madre. Le vicende dell’Inno a Ermete, Omero racconta, non comprendono più dei primi tre giorni di vita del neonato divino (cfr. Zanetto, 2000). Se non possiamo avere ciò che ci spetta, madre, vorrà dire che dovremo rubarlo. Pochi miti ricoprono un ruolo tanto cruciale come quello nel quale un dio rinnegato, per mezzo dell’ingegno, della musica, della rabbia conquista il posto che desidera fra gli Olimpi. Riconosciuto da Zeus come figlio, accolto dal riso del fratello Apollo – a cui ha rubato il gregge sacro riuscendo a farsi dichiarare di esso il pastore – Hermes riordina il mondo celeste e il mondo terreno. Sfigurando le fattezze del cosmo per come gli si era presentato, il futuro messaggero dell’Olimpo si appropria di ciò che sente suo.

Allegoria di un passaggio epocale
In un pregevole saggio, Norman Oliver Brown sottolinea come l’inno omerico sia l’allegoria di un processo storico di fondamentale importanza nella storia ellenica: il passaggio da una società in cui il potere è conservato dai pochi aristoi proprietari di terre, a una in cui lo scambio di merci coi vicini e lo sviluppo dell’artigianato avrebbe prodotto una nuova e potente classe sociale di commercianti (cfr. Brown, 1990). Da un ordine del mondo a un altro. Ma non è soltanto una metafora quella che Omero intreccia. Lewis Hyde suggerirà, in un celebre saggio del 1994, che la funzione di Hermes è collegata a doppio filo alla funzione dell’Inno, e a quella dell’aedo che lo canta. Spogliare la struttura del mondo della sua necessità: Hermes trova una via terza rispetto al mondo com’è, e al rifiuto del mondo; l’Inno apre a una via terza rispetto alla graniticità dell’ordine cosmico espresso nei miti, e al loro silenzio; l’aedo, di fronte al suo pubblico, incarna il briccone divino e ricorda agli uomini che nessuna legge è tanto antica o coriacea da non poter essere ridotta a semplice parola. La politropia della narrazione, che in Maurice Blanchot diventa: “chi scava il verso incontra l’assenza degli dèi” (2018).

Blanchot nasce in un paesino della Borgogna, nel 1907. Si spegne nel 2003, vicino Versailles. Studia filosofia a Strasburgo. Lì, l’ambiente è incredibilmente stimolante; conosce e lega con Emmanuel Lévinas, che di lui ricorda l’intellettualismo aristocratico e elitista responsabile dell’avvicinamento, in gioventù, alla cultura di destra – anche estrema. Grazie a Lévinas, Blanchot si interessa alla fenomenologia, che lo accompagnerà in maniera più o meno manifesta nella sua indagine abissale sul senso del fare letteratura, e sull’oggetto letterario. Il suo lavoro di scrittore e critico attraversa tutto il secolo; la sua opera da romanziere inizia effettivamente nel 1941, quando Gallimard pubblica Thomas l’obscur.

L’edizione italiana di Thomas l’Oscuro
Per la prima volta, grazie al lavoro di Francesco Fogliotti per il Saggiatore, il primo piccolo – l’edizione di riferimento è quella del 1950, significativamente ridotta rispetto a quella del 1941 – tesoro di Blanchot arriva adesso anche in Italia. Sono passati ottantadue anni, ma la rilevanza di Thomas l’Oscuro, non soltanto nell’ambito della critica letteraria o nella storia della letteratura, rimane invariata. Come ravvisa il traduttore per l’edizione inglese Robert Lamberton (1989), il problema della traduzione di Blanchot sta nell’unità del testo, nel fatto che ogni frase si lancia sulla seguente e si aggrappa alla precedente in una maniera per cui l’oggetto è un tutt’uno o non è nulla. Ma ciò non interessa solamente Thomas l’Oscuro, o l’universo privato delle singole opere: è tutto il lavoro di Blanchot a costituire questa unità inscindibile. Così in Thomas si illumina già chiaramente la via verso la maturità de L’istante della mia morte [1994], verso le riflessioni sull’enigma letterario ne Lo sguardo di Orfeo [1981], o le variazioni de La scrittura del disastro [1980] (cfr. rispettivamente Blanchot 1995; 2018; 2021). Come si trattasse dell’Aleph di Borges, il punto in cui sono compresi tutti i punti, ogni opera di Blanchot contiene, e si dirama verso, ogni altra.

Thomas l’Oscuro non è un racconto nel senso canonico del termine. Come accennato, nel 1950 subisce un’importante riduzione da parte dell’autore. Numerosi riferimenti filosofici e pure alcuni personaggi vengono espunti; il testo si fa più compresso, aumenta la densità della sua massa, come quando, nel ciclo di vita delle stelle, le giganti rosse rovinano in nane bianche. Il ritmo si fa più serrato e travolgente. Il romanzo non tratta di vicende e accadimenti, ma di qualcosa che degli accadimenti è l’accesso e la possibilità, il rifiuto e l’interpretazione. Le onde in cui Thomas è inghiottito all’inizio della trattazione sono le stesse che il lettore deve saggiare, volenteroso di iniziare da quello che potrebbe essere stato benissimo l’ultimo testo di Blanchot, invece che il primo. Poche figure attraversano le pagine: Thomas, la cui natura è irrimediabilmente sfuggente, e poi i commensali, poi un gatto, Anne che nel morire sceglie di morire, la madre di Anne. E il narratore, la cui oscillazione è continua e la cui prospettiva non si aggiusta mai su una posizione. Riassumere Thomas l’Oscuro è inutile: lo scritto di Blanchot è un esperimento retorico e linguistico irriducibile. Il testo, il narrarsi della narrazione, la prospettiva; ognuno di questi elementi concorre a creare un insieme che oltrepassa la somma delle parti. “Alla stranezza degli eventi si unisce anche quella dello stile, caratterizzato dall’abbondanza di metafore inattese”, scrive Giuseppe Zuccarino parlando del romanzo (Zuccarino, 2015). Ma non ci sono metafore in Thomas l’Oscuro: proprio questo è il gioco alla base dell’inafferrabilità del testo. Apparenti contraddizioni continue compongono le immagini impossibili che il testo (non) evoca

“nell’assenza di forma la forma perfetta della sua presenza”

“minacciava la purezza conferendole una nuova purezza”

“lo spazio che lo circondava era il contrario dello spazio”.

Occhi che diventano la parola occhi, pensieri che diventano teste e ratti giganti. Non c’è il linguaggio trattato come qualcosa di etereo, un gioco, il reversibile: Blanchot appiattisce tutto nella materia, dando densità e corpo ai pensieri e alle parole. D’altra parte, “la vita nella morte”, “la notte nel giorno”, “l’assenza dell’assenza”… sono i modi attraverso cui Blanchot, pagina dopo pagina, procede – e fa procedere il lettore – fuori dal pensiero. È l’invisibile a diventare centrale in Thomas l’Oscuro. Il pensiero, che produce le immagini delle cose, o anche solo le immagini delle parole, è assolutamente troppo visibile; Thomas è una rivolta contro l’egemonia della vista, contro Aristotele. Attraverso l’attenzione con cui il linguaggio del romanzo si rifiuta di concentrarsi sulle vicende, e assume totalmente la posizione dei pensieri – che pensano il loro annullamento ultimo –, Blanchot riesce a portare il lettore a trovarsi sul testo, sulla pagina, nella presenza assoluta del foglio, che è poi il nulla, “cuore della creazione” che Thomas agogna, e che Anne assapora. Cuore, anche, della creazione artistica.

L’origine della scrittura
Ne Lo sguardo di Orfeo, Blanchot discute di come il poeta vorrebbe possedere Euridice, ma è destinato soltanto a cantarne; la sua resa alla tentazione è necessaria, il suo girarsi e perdere l’amata deve accadere (cfr. Blanchot, 2018). La scrittura inizia esattamente con lo sguardo di Orfeo che cede al desiderio di possedere l’oggetto dell’intuizione. L’oggetto della scrittura distrugge lo sguardo dello scrittore, ma tale distruzione è necessaria a creare l’opera d’arte. La dialettica fra lettore e scrittore è quindi cruciale, poiché l’opera necessita del lettore per diventare una statua, un’agalma. Un libro mai letto è come un libro mai scritto, dirà Blanchot. Nel 1944, Blanchot sfiora la morte per mano dei nazisti. Quarant’anni più tardi, ne L’istante della mia morte, egli racconterà in maniera romanzata l’esperienza di quegli attimi, svelando uno dei temi fondamentali della sua riflessione. Il racconto parla di un giovane che si offre, al posto della sua famiglia, per farsi fucilare da una squadra di sovietici che crede essere SS (cfr. Blanchot, 1995). Un’esplosione in lontananza cattura l’attenzione dei soldati: il giovane è salvo, ma la trasformazione che subisce nell’aver sfiorato l’annichilimento farà di ciò che resta della sua vita una postilla al morire.

In una maniera quasi perturbante, le stesse preoccupazioni compongono parte del corpo monolitico di Thomas l’Oscuro. Anne, la giovane donna con cui Thomas intrattiene una relazione impossibile perché fondata su dimensioni oblique alla vita, è protagonista di pagine potentissime in cui ella, a un passo dal morire nel letto d’un ospedale, presa da riflessioni sulla natura della relazione fra i vivi e i morenti, il galateo del buon malato che ha da urlare e contorcersi, che ha da volere la vita e rifiutare la morte e dimostrarlo ai vivi pena il disprezzo, ella sceglie la propria morte dinanzi al morire, rilassa tutto il suo essere, trionfando nella notte del pensiero.

Uno sciame di eccellenti pensatori
Proprio il pensiero è a un tempo l’oggetto della narrazione, un personaggio, l’antagonista, un’allucinazione, un mostro incorporeo, una porta. Nonostante la riduzione del 1950, i rimandi ai filosofi, gli eccellenti pensatori che nel pensiero abitano la loro non-vita, rimangono innumerevoli seppure più impliciti. Come riconosce Zuccarino, Blanchot affronta, con ironia più o meno tagliente, Pascal che scrive nei suoi Pensées un non-libro (cfr. Zuccarino, cit.), ma anche Socrate, che attraverso la sua morte giusta dà all’allievo Platone la legittimazione a cercare l’immortalità nelle Idee. C’è poi Henry Bergson, il cui concetto di durata ritorna esplicitamente in più passaggi chiave, in cui Thomas affronta i limiti di un pensiero che è anche fenomenologia dell’esperienza estetica, della percezione nel pensiero, anticipando in maniera eccezionale le problematiche relative a quei punti oscuri dell’esperienza cosciente, come la temporalità, di cui si interessano Thomas Metzinger (2003, 2009) e David Roden (2013). Se per Bergson il linguaggio è incapace di catturare e restituire l’intuizione (cfr. Pessina, 1996), Blanchot mostra con Thomas l’Oscuro come anche i limiti del linguaggio possono essere utilizzati non per svelare la verità, ma per manifestare un segreto, un enigma, che rimane tale oltre ogni possibile capriccio. Come il messaggio oracolare di Hermes, che a Delfi non offre mai verità, ma l’opaco materiale, l’oscurità densa di un’ombra che è anche il corpo di cui è ombra: “non vi è retroscena nel puro enigma”, si lege in Thomas l’Oscuro. In ultimo, Blanchot rovescia Cartesio, e il Platone del mito della caverna:

“all’interno di una grotta profonda, la follia del pensatore taciturno mi apparve, e parole inintellegibili risuonarono alle mie orecchie mentre scrivevo sul muro queste dolci parole: Penso, dunque non sono”.

Così, come nel saggio Un vue de Descartes (1941), Blanchot valorizza ciò che in Cartesio è il mistero alla base del cogito, la sua continua e irriducibile contraddittorietà (cfr. Zuccarino, cit.), tutto ciò che nella razionalità cartesiana è espulso, come il suo rifarsi continuamente alla fede, e a un Dio la cui esistenza deve essere dimostrata subito dopo aver dimostrato la propria, come un figlio devoto che ringrazia il padre. Una scienza universale fondata sulla ragione – e sulla fede come motivazione. Contro la lunga storia del pensiero che legittima e coltiva sé stesso nella formula Pensare=Essere, in Cartesio come nell’Hegel della Logica, Blanchot consacra il suo primo romanzo a un’alleanza rinnegata dalla filosofia, una che rifiuta l’autoreferenzialità del filosofare. Thomas assiste dinanzi a sé alla materializzazione del proprio pensiero.

“Penso, riunisco tutto ciò che è luce senza calore, raggi senza lucentezza, prodotti non raffinati, li mescolo e li coniugo, in una prima assenza di me stesso, mi scopro nella più viva intensità come una perfetta unità”.

Blanchot cerca la coscienza pura e la scopre nella totale ineffabilità apparentemente esterna al pensare.

“Penso: là dove il pensiero si aggiunge a me, posso sottrarmi all’essere senza diminuzione né cambiamento, tramite una metamorfosi che mi priva di ogni nascondiglio in cui potrebbe sorprendermi”.

In questo percorso che è tanto dello scrittore quanto del lettore, entrambi forzati nella presenza al testo una volta neutralizzata l’immaginazione nella sua capacità di sintetizzare rappresentazioni sensibili, alle spalle dell’Ego Thomas scopre il segreto come tale, e non come segreto-da-svelare. Ci sarà sempre qualcosa di segreto nell’opera, l’a-letheia non come parola che contiene qualcosa, ma come segno vuoto: la parola “verità” che rimanda solo a se stessa, di fatto neutralizzando la relazione fra pensiero e reale, ed esistendo nell’eterno mistero di oggetto fra gli altri. È fondamentale, nella lettura, riconoscere che ogni parola è parte del testo non solo come segno canonico – come significante di un significato a cui rimanda – ma anche come oggetto conchiuso in sé. L’Hermes della filosofia, dell’ermeneutica come teoria della traduzione e dell’interpretazione, come archetipo della comunicazione, non è l’unico Hermes. Egli è anche un ladro, un rinnegato senza scrupoli – ma anche quel rinnegato, raggiunto ciò che desidera, accetta il nuovo ordine e si fa dio. Lewis Hyde ci dice che non c’è altra possibilità; il caos non è una reale opzione, il mondo può solo essere riordinato e ripartito, e mai annullato (cfr. Lewis Hyde, 1994). La ripartizione è effettuare tagli nel reale: è così che si produce il significato, nettare del pensiero (cfr. Barthes, 2002). Come si può giungere al “cuore della creazione”, al non-essere dell’assenza di pensiero, come vuole fare Thomas? In un breve articolo del 1987, François Laruelle discute dell’Hermes minore:

 “Accanto allo Hermes unitario e autoritario, c’è un altro Hermes. Egli determina l’essenza della verità come segreto, ma un segreto che per esistere e farsi conoscere non ha bisogno della luce del logos, dei trucchi del significato, delle strategie dell’interpretazione, degli orizzonti del Mondo o delle forme trascendenti dell’apparenza”
(Laruelle, 2022).

Leggere Thomas l’Oscuro è essere forzati a esistere nelle pagine e sulle pagine, proprio come deve fare lo scrittore. Metaforicamente, può essere concepito come l’esperienza della cecità. Perdere la vista porta ad acuire gli altri sensi: refrattario alle immagini, il testo si rivela ad altri livelli precedentemente non tematizzati. È solo un segreto, la cui oscurità è la massima lucentezza. Thomas riflette, a un certo punto, sul paradossale fato dei bruchi, che devono morire a loro stessi per poter vivere la vita di farfalle. Attraversare Thomas l’Oscuro è come perdere la vista. Passato il giusto ammontare di tempo, ci si accorge di sentire, nel buio, le farfalle urlare.

Letture
  • Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2022.
  • Maurice Blanchot, L’istante della mia morte, con commento di Jacques Derrida, in aut aut, n. 267-268, il Saggiatore, Milano, 1995.
  • Maurice Blanchot, Une vue de Descartes, in Chroniques littéraires du «Journal des débats», Gallimard, Paris, 2007.
  • Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, il Saggiatore, Milano, 2018.
  • Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore, Milano, 2021.
  • Norman Oliver Brown, Hermes The Thief: The Evolution of a Myth, Literary Licensing, Whitefish, 2012.
  • Lewis Hyde, Trickster Makes this World, Farrar, Straus and Giroux publisher, NY, 1998.
  • Robert Lamberton, postfazione a Maurice Blanchot, Thomas the Obscure, Station Hill Press, Barrytown, 1989.
  • François Laruelle, La verità secondo Hermes: Teoremi sul segreto e la comunicazione, trad. it. di Filippo Scafi, in Chaosmotics Journal, 21 giugno 2022.
  • Thomas Metzinger, Being no One. The Self-Model Theory of Subjectivity, MIT Press, Cambridge, 2003.
  • Thomas Metzinger, The Ego Tunnel. The Science of the Mind and the Myth of the Self, Basic Books, New York, 2009.
  • David Roden, Nature’s Dark Domain: An Argument for a Naturalized Phenomenology, in Royal Institute of Philosophy Supplement, 72, 2013.
  • Giuseppe Zanetto (a cura di), Inni omerici, BUR Rizzoli, Milano, 2000.
  • Giuseppe Zuccarino, Blanchot e i filosofi di Thomas, in Philosophy Kitchen, settembre 2015.