L’altra metà dello schermo


Una storia delle donne in televisione potrebbe essere, un po’ come quella delle donne all’interno del consorzio umano tutto, una contro-storia, una ricostruzione al tornasole del medium televisivo: il racconto paradossale di come metà del genere umano abbia potuto trovarsi nelle condizioni di subordinazione e minorità (in senso qualitativo) che normalmente affliggono le minoranze (in senso quantitativo) più svantaggiate in seno alla società.
Anche in questo, come nei contenuti che veicola e nella sua struttura economico-produttiva, l’industria televisiva è a tutti gli effetti parte del sistema sociale, economico e culturale che la produce, e questo ne è a sua volta circolarmente influenzato. Occupandosi dello spazio delle donne nel piccolo schermo, ovvero della raffigurazione della donna nelle narrazioni catodiche seriali, e delle donne dietro a esso, cioè del loro ruolo nell’industria che crea questi contenuti, ci sono due interrogativi che informano la nostra ricerca: quali sono esattamente i legami tra queste due sfere, quella contenutistico-artistica e quella industriale-produttiva? E, analogo quesito ma su più ampia scala, tra televisione e società sussiste un rapporto di mero rispecchiamento, o il piccolo schermo propone dei modelli più avanzati in termini di emancipazione ed empowerment della donna, o, ancora e al contrario, contribuisce al perpetrarsi di asimmetrie? È il piccolo schermo, per quanto verticale, uno dei tanti soffitti di vetro contro cui le donne tuttora si scontrano?
Oltre a queste domande, che ci guideranno nel tratteggiare alcuni snodi salienti della storia delle donne nella serialità televisiva e cartografarne la presenza oggi, altri interrogativi ci suggeriscono di destabilizzare il quadro, chiamando in causa l’opportunità di un criterio analitico di genere. Prima ancora di definire il rapporto tra donne e piccolo schermo e declinarlo sui fronti della rappresentazione narrativa e della produzione industriale, non sarebbe peregrino voler definire meglio i nostri oggetti essenziali di indagine: cosa vogliamo intendere per donne? Il nostro criterio vuole essere biologico, piuttosto che culturale? O fa riferimento ad altre vie di percezione e proiezione delle identità individuali? A cosa serve, più oltre, concentrarsi sulla presenza, sull’immagine, sul ruolo delle donne? Ammesso che volessimo da meri osservatori farci attivisti per promuovere una parità di genere, evidenziare una specificità della donna sarebbe un buon mezzo per raggiungere il fine?
La nostra risposta a quest’ultima domanda è negativa; il fine ultimo della nostra indagine è superare questa specificità, è far sì che non ci sia bisogno di “quote” metodologiche (e, francamente, nemmeno biologiche): che la storia delle donne in tv possa servire a futura memoria, per promuovere percorsi di consapevolezza contro la discriminazione di qualsivoglia componente sociale, nella speranza che il discorso di genere superi ogni impostazione dicotomica, per rendere conto piuttosto delle identità individuali e collettive nel loro carattere fluido, negli aspetti di complessità e molteplicità che ne fanno, nel mondo contemporaneo, fuzzy sets più che aree di netta inclusione ed esclusione, tantomeno di natura duale.

Va in onda il divario di genere
Non c’è contraddizione in questo: svolgere un discorso di genere, quand’anche in vista di un superamento dei generi, ha un senso molto pratico laddove esista una discriminazione de facto. Partiamo allora da qualche dato sul contesto di partenza. Prendiamo qualche numero dall’ultimo rapporto del Centre for the Study of Women in Television and Film, presso l’università di San Diego, che monitora la presenza femminile sugli schermi americani da vent’anni (Lauzen 2016; ma altre fonti, come il Women’s Media Centre, rilevano sostanzialmente le stesse tendenze generali. Si noti che questi studi generalmente considerano come corpus d’indagine serie televisive trasmesse e/o prodotte negli Stati Uniti; d’altronde l’export statunitense domina il mercato globale, con quote che alla fine del decennio 2000 erano al 75% delle serie drama trasmesse nel mondo, Bielby and Harrington: 39). Il 79% dei programmi televisivi trasmessi in prime time negli USA vede una prevalenza di personaggi maschili nel cast (il 5% mostra un equilibrio di genere, nel 16% prevalgono personaggi femminili). La presenza di donne protagoniste, comprimarie, e in generale non mere comparse (speaking characters) si attesta sempre attorno al 40% del totale, ma negli ultimi anni ha visto leggere diminuzioni (da notare inoltre che questi dati aggregano drama, comedy e reality, se scorporati mostrerebbero valori più alti nei reality). Quanto al più ampio spettro delle identità di genere, basti menzionare che i personaggi lesbici, gay, bisessuali, transgender e queer in prima serata non raggiungono il 5% del totale (secondo l’indagine Glaad 2017, che ha scandagliato le ultime stagioni di serie targate ABC, CBS, The CW, FOX, e NBC).

Oltre all’aspetto quantitativo, i caratteri qualitativi sono eloquenti: statisticamente più giovani dei compagni maschi, più spesso identificate con il loro status coniugale, più raramente con quello professionale, le donne sono ritratte di preferenza orientate verso obiettivi personali e familiari piuttosto che lavorativi e carrieristici, e sono dipinte come leader circa la metà delle volte rispetto ai colleghi (il 5% è in ruoli di leadership contro il 9% dei personaggi maschili).
Che ciò che si vede sullo schermo sia legato a doppio filo a ciò che accade dietro lo schermo è confermato dai dati sul genere nell’industria televisiva: i programmi che contano almeno una creatrice o produttrice esecutiva ospitano molto più spesso personaggi femminili (es. il 45% se c’è una donna tra i creatori, contro il 36% quando i creatori sono solo uomini) e molto più spesso in ruoli di primo piano (es. 41% se almeno un produttore esecutivo è donna contro il 31% se sono tutti maschi). Al momento solo il 27% di coloro che occupano posti chiave (creatori, direttori, scrittori, produttori e produttori esecutivi, editor e direttori della fotografia) è donna (era il 26% dieci anni fa: la crescita c’è, ma è molto, molto lenta). Ed è questa presenza femminile nei luoghi apicali dell’industria a trascinare il resto della filiera produttiva, ad esempio i programmi che contano almeno una creatrice o produttrice esecutiva vedono salire la percentuale di sceneggiatrici al 51%, contro il 16% che si registra quando ai vertici ci sono solo maschi.

Le prime in prima serata
Se ricordare qualche numero è necessario per non cadere nell’errore prospettico di considerare norma o media le punte più avanzate del discorso di genere nella serialità contemporanea, non è il caso però nemmeno di demoralizzarsi. Uno storico divario di genere esiste, ma, se guardiamo al medio-lungo periodo, certo si è ridotto molto. Uno studio del 2006 (Lotz) ha preso in esame una selezione sistematica di serie drama con protagoniste (o fondamentali comprimarie) femminili prodotte in lingua inglese, mostrando da metà degli anni Quaranta ai Duemila, un’evoluzione quantitativa lenta ma sistematica, fino a un vero e proprio piccolo boom a partire da metà anni Novanta. Da notare che la scelta di concentrarsi sul settore drama mira alla messa a fuoco degli spazi riservati a figure femminili importanti al di là di quelli registrabili nell’universo delle situation comedies, dove si trovano protagoniste precocemente e con particolare frequenza. Sitcom come I Love Lucy (1951-1957, 1957-1960) e That Girl (1966-1971) introducono donne ambiziose, forse proprio grazie alla rassicurante cornice comica, ed esempi successivi come The Mary Tyler Moore Show (1970-1977) e Maude (1972-1978) portano in prima serata un’idea di donna indipendente, emancipata, in grado di realizzarsi professionalmente con le sue sole forze, nonché tematiche apertamente legate ai coevi movimenti di liberazione.
Dalle origini del piccolo schermo a metà anni Settanta si possono registrare pochi o pochissimi titoli nell’ambito del drama e spesso di breve durata (una sola stagione). Negli anni Cinquanta si tratta di serie come Letter to Loretta (poi The Loretta Young Show, 1953-1961), presentata dall’omonima attrice passata alla tv dopo l’Academy Award del 1948 (secondo il formato antologico che regnava all’epoca in molte produzioni di primo piano, Twilight Zone tra tutte), o l’investigativa The Gallery of Mme. Lui-Tsong (1951), in cui Anna May Wong, già star nella Hollywood del muto, interpretava una detective, progenitrice delle tante investigatrici e poliziotte di oggi.
Narrazioni di genere giallo compaiono nei lustri seguenti, incluse ad esempio la spionistica The Avengers (di produzione britannica, 1966-1969), in cui le comprimarie femminili, seppur nei panni di assistenti del protagonista maschile, rappresentano donne dalla forte autonomia e personalità, o Police Woman (1974-1978), in cui Angie Dickinson interpreta una poliziotta del Los Angeles Police Department. E, ancora, verso gli anni Ottanta, i generi investigativi al femminile si riconfermano con serie come il poliziesco-procedurale Cagney & Lacey (1982-1988) o la intramontabile, fortunatissima Murder, She Wrote (1984-1996), in onda per 12 stagioni e una quantità di premi vinti da Angela Lansbury (a La signora in giallo è dedicato un articolo in questo Mappe, ndr). Ma a partire dagli anni Settanta anche i generi appartenenti alla galassia del fantastico si affermano proponendo donne e super-donne costantemente in primo piano, a partire dal filone avventuroso e super-eroistico di Wonder Woman (1976-1977, 1977-1979) e The Bionic Woman (1976-1977, 1977-1978), a loro modo rappresentative di una galassia mediatica in cui le connessioni si infittiscono, in direzione dei franchise moderni: la prima basata sull’omonimo fumetto e personaggio creato da William Moulton Marston e Harry G. Peter per i tipi della DC Comics (personaggio la cui longevità arriva sino ad oggi con la ripresa nella saga della Justice League per il grande schermo, e un titolo tutto per sé diretto da Patty Jenkins in uscita tra maggio e giugno 2017), l’altra spin-off di The Six Million Dollar Man, sempre basata su Cyborg di Martin Caidin (1972). Immagini di donne capaci, fisicamente potenti e tecnologicamente potenziate (anche se dotate di “coperture” o doppie identità più rassicuranti e socialmente integrate), nonne o antesignane delle eroine che le seguiranno fino ad anni recenti. Eroine per le quali strane calzamaglie o fantasiosi reggipetti dei costumi non sono cose da femminucce, nemmeno quando ci sia da menar le mani, da Xena: Warrior Princess (1995-2001) alla recente Supergirl (2015-), anche laddove si continui a capitalizzare sul precedente successo dei (o maggior credito iniziale concesso ai) colleghi maschi, per creare spin-off al femminile. Xena ottiene un titolo per sé dopo aver conquistato il favore del pubblico in Hercules: The Legendary Journeys; non ultimo grazie alla centralità di una coppia al femminile ricca di possibili sotto-testi omoerotici, diviene poi serie di culto, con relativo seguito di produzioni a cavallo di atri media (fumetti, giochi e così via), e soprattutto fanfiction e attenzioni critico-accademiche (cfr. Betz 2011; Collier et al. 2009).
Xena marca l’inizio di una fase cruciale, in cui le serie al femminile crescono, nell’ambito dei sempre fortunati generi investigativi, che si moltiplicano, dall’avvocatesco (Ally McBeal, 1997-2002) allo spionistico e d’azione (La Femme Nikita, 1997-2001; Alias, 2001-2006), dalla psicologia criminale (The Profiler, 1996-2000), al forense (Crossing Jordan, 2001-2007), ma anche, come vedremo a breve, nei sotto-generi della fantascienza, dell’horror e del gotico, nel drama e nella soap.

Lavoratrici, consumatrici, spettatrici
È significativo che i momenti di maggior crescita della serialità al femminile coincidano, negli Stati Uniti, con periodi in cui le donne acquisiscono una nuova centralità socio-economica, che ne amplia il ruolo nelle dinamiche di consumo e dunque l’importanza come target. La società di ricerche di mercato Nielsen aggiunge la categoria “working women” nelle sue rilevazioni demografiche nel 1976, non per coincidenza nel mezzo della decade che, come si è visto, porta sugli schermi nuove super-eroine e donne in carriera, a cavallo della seconda ondata femminista e di un momento di crescita accelerata della presenza femminile nel mondo del lavoro. Così gli spazi che si aprono a partire dagli anni Novanta si possono leggere anche alla luce dell’entrata di molte donne sul mercato lavorativo (e dunque in una sfera pubblica, professionale) a seguito della recessione economica che ha segnato il decennio precedente (cfr. United States Department of Labor – Women Department, Facts over Time).
La crescita delle donne sul piccolo schermo fa seguito anche a un insieme più ampio di mutamenti nel settore creativo e industriale a cavallo tra fine anni Ottanta e Novanta, una stagione caratterizzata da importanti novità tecnologiche e negli approcci narrativi. Tra questi ultimi la crescente ibridazione tra macro-generi narrativi porta una significativa commistione tra strategie tipiche di series e serials (es. nell’intreccio tra archi narrativi di puntata e di stagione, in sistemi di personaggi articolati e corali); elementi tipici del drama fanno la loro entrata nei generi del giallo e del fantastico e si diffonde un nuovo standard di approfondimento drammatico e psicologico dei personaggi. Personaggi (femminili e maschili) tormentati da un passato irrisolto e traumatico, portatori di una dolorosa complessità psicologica e relazionale, diventano un ingrediente fondamentale nelle serie di “alta gamma”, andando a costituire i precedenti e presupposti degli anti-eroi ed anti-eroine moralmente ambigui che popolano la più recente serialità televisiva che riscuote grande successo di pubblico e di critica (seconda o terza “età dell’oro” a seconda delle periodizzazioni).
Negli anni Novanta sembra però emergere anche una nuova specifica attenzione al pubblico femminile da parte dell’industria, favorita dalle innovazioni tecniche che permettono di segmentare l’offerta rivolgendosi a target specifici. Ne è sintomo il crescente successo del network via cavo Lifetime, nato nel 1984 e rivolto al pubblico femminile (motto: “Television for Women”), che stimola iniziative concorrenti in senso analogo (si pensi ai canali Romance Classics di AMC e Oxygen di NBC, lanciati rispettivamente nel 1997 e nel 2000, o al riposizionamento di HBO Signature alla fine degli anni Novanta), anche se non altrettanto longeve (Romance Classics ad esempio, dopo aver cambiato nome in WE: Women Entertainment, poi WE TV, dovrà ri-orientarsi in senso generalista nei secondi anni Duemila, cfr. Newman e Witsell, 2016). Se questo tipo di iniziative fa seguito alle nuove possibilità di narrowcasting offerte negli Stati Uniti soprattutto dalla distribuzione via cavo, l’importanza economica di un’audience connotata in senso di genere si scorge non solo nell’individuazione delle donne come vera e propria nicchia di mercato, ma come motivazione a sostegno della crescente presenza di personaggi femminili nella programmazione generalista, protagoniste assolute in alcune produzioni, e co-protagoniste essenziali all’interno di cast corali.
Figure di primo piano comparse negli ultimi decenni hanno sempre meglio riflesso la realtà fuori dallo schermo rappresentando un’esperienza di genere non priva di contraddizioni e compromessi, nel tentativo di coniugare femminilità e femminismo, o di superare la dicotomia tra realizzazione professionale e personale, espressioni della più ampia casistica di un post-femminismo arrivato in prima serata. Un esempio per tutti: la già menzionata Ally McBeal, la cui protagonista assurge nel 1998 a simbolo di una genealogia critica “tradizionale” superata, giustapposta sulla copertina del Time del 28 giugno 1998 nientemeno che a Susan B. Anthony, Betty Friedman e Gloria Steinem, alla domanda “Is Feminism Dead?” (Moseley and Read, 2002).
Poco dopo, tra 1998 e 2004, è Sex and the City a segnare la nuova fase nel campo della ricezione e riflessione critica, epitomizzando da una lato la raffigurazione di figure indipendenti, forti, intelligenti, mai prima dall’ora altrettanto spregiudicate nel parlare di sesso e relazioni, dall’altro lato la collocazione di tali figure – sempre più complessa e meno univoca – rispetto a identità di genere, vissuti dell’essere donna, e a una galassia filosofica femminista (di seconda e terza ondata, post-, liberale, e così via) irrimediabilmente frastagliati. Mentre nelle sedi dell’informazione e della riflessione accademica dibattiti si accendono sul significato e l’opportunità di costruire personaggi tanto emancipati per poi far loro passare il tempo parlando pressoché solo di sesso e dell’altro sesso, il pubblico, soprattutto femminile, ne decreta un successo senza indecisioni, inaspettato per gli stessi produttori (Akass and McCabe, 2008).

Genere e generi
Stanti i processi di ibridazione che sempre più caratterizzano l’alta gamma della serialità contemporanea, il genere (qui nel senso di genere narrativo) resta un dispositivo utile a modellare l’orizzonte d’attesa, fare appello ad audience circoscritte, e, in quanto tale, soggetto a fungere da sintomo del pubblico ideale che i creatori di un dato prodotto hanno in mente in fase di ideazione e produzione.
Alla luce di questo possiamo leggere il successo e il rinnovarsi delle contaminazioni tra drama e soap opera dopo Sex and the City, trasportate in contesto di periferia sub-urbana come Desperate Housewives (2004-2012, si veda l’articolo in questo Mappe, ndr) o aggiornate per le nuove generazioni in una New York sofisticata e hipster come Girls (2012-2017), in cui non mancano forti vene umoristiche. Un pressoché immancabile dosaggio di intrigo, mistero, suspense feuilletonistici fa di serie come Desperate Housewives moderne versioni dei romanzi di appendice, che corteggiano anche il pubblico dei giovani adulti, sia esso incline a riconoscersi nella piccola e media borghesia di una cittadina decentrata (Pretty Little Liars, 2010-) o a simpatizzare con l’élite economica di uno scintillante e parassitario Upper East Side (Gossip Girl, 2007-2012), piuttosto che con le difficoltà di un nuovo proletariato (Shameless, remake americano dell’originale britannica, 2011-) o, ancora, in un filone di gotico decisamente più rosa che nero (The Vampire Diaries, 2009-2017).
Una forte presenza femminile sta caratterizzando negli ultimi anni anche i generi investigativi e speculativi. Un’ondata di donne poliziotte, detective e avvocate si situa nel quadro della generale fortuna dei sotto-generi del mistero e dell’indagine. Molte donne partecipano alla comune e frenetica ricerca di un senso nel caos del reale, e alla complessa negoziazione tra organizzazione sociale e forme del potere politico, legislativo, giudiziario. Accanto e in seguito a produzioni già citate come Crossing Jordan, si pensi alle esperte forensi e medicali che indagano in Bones (2005-) e Body of Proof (2011-13), alle detective, ispettrici e capo-squadre di Cold Case (2003-2010), The Closer (2005-2012, si veda l’articolo in questo Mappe, ndr), Forbrydelsen (2007-2017) danese e relativo remake americano The Killing (2011-14), The Bridge (2013-2014), oltre alle numerose colleghe che rivestono ruoli importanti all’interno di cast collettivi (tra i molti esempi possibili: Law and Order: Special Victims Unit, 1999-; NCIS, 2003-; Criminal Minds, 2005-). Produzioni che coniugano sapientemente trame investigativo-procedurali, medical drama, aspetti ironici e comici, approfondimento di caratteri e relazioni; mentre più limitati sono per ora i tentativi di introdurre le donne nel mondo delle agenzie per la sicurezza nazionale e dell’antiterrorismo (Homeland, 2011-).
Avvocate di grido popolano Damages (2007-2012), The Good Wife (2009-2016), Scandal (2012-), How to Get Away with Murder (2014-) e quando fungono da comprimarie rischiano di adombrare i colleghi (Gina Torres in Suits, 2011-). Le discendenti di Ally McBeal, impegnate in percorsi di affermazione professionale o già alla direzione dei loro studi legali, spesso ritratte nel difficoltoso tentativo di non rinunciare a un privato sentimentale e familiare in favore del prestigio pubblico e lavorativo, giunte vicinissime ai vertici del potere, spesso solo per veder sciogliere le proprie ali di cera… Dopo il “principio di Puffetta”, come Katha Pollitt aveva definito in un noto pezzo del 1991 sul New York Times l’abitudine di introdurre un personaggio femminile, stereotipicamente connotato, come quota rosa all’interno di cast tutti maschili, il rischio è forse di veder fossilizzare, nel rapporto tra donne e potere sul piccolo schermo, una dinamica altrettanto deteriore: protagoniste sì, ma condannate a una vittoria di Pirro, in cui l’agognato successo pubblico viene solo a caro prezzo personale, facendoci dubitare che si tratti, in fondo, di una vera realizzazione (e sul rapporto del personaggi femminili con il potere torneremo a breve).
Nella galassia dei generi del fantastico si trovano alcune “donne miliari”, che riescono a evitare egregiamente questo rischio. Forse in virtù dell’abitudine della fantascienza a pensare fuori dagli schemi consolidati, oltre il presente, il noto, l’automatico, in serie chiaramente marcate in senso fantascientifico troviamo personaggi femminili in posizioni tradizionalmente monopolio maschile (ruoli di comando e/o d’azione) rappresentati nelle loro funzioni, senza che il loro essere donne pesi sulla realizzazione personale e professionale più di quanto non pesi l’essere uomini sui colleghi maschi. Pensiamo, dopo a una grande comprimaria come Dana Scully (X-Files, 1993-2002, 2016), alla Kathryn Janeway di Star Trek: Voyager (1995-2001), comandante dell’astronave USS Voyager, che segue le molte colleghe già responsabili delle comunicazioni, infermiere, attendenti, sulle astronavi delle precedenti generazioni del franchise. O pensiamo alla presidente Laura Roslin e alle pilote Kara “Starbuck” Thrace e Sharon “Boomer” Valerii in Battlestar Galactica (2004-2009), o ancora, per citare un esempio recente, ai percorsi di emancipazione, drammaticamente connotati in senso di genere quanto più ampiamente psicologici ed esistenziali, di Dolores Abernathy (si veda l’articolo in questo Mappe, ndr) e Maeve Millay in Westworld (2016-).
Un ri-uso spregiudicato e ironico dei repertori dell’horror, del gotico, del fantastico, ha accompagnato alcune delle protagoniste femminili più indipendenti degli ultimi decenni, anche tra le giovani. Accanto al fantastico mitologico e camp della già citata Xena, Buffy the Vampire Slayer (1997-2003) compare negli anni Novanta, precorrendo l’ondata vampiresca del decennio successivo. Con il suo misto di horror, teen drama, commedia, arti marziali, dà vita a una larga galassia di produzioni collegate a cavallo di vari media e a un ampio fandom, e influenza profondamente la riflessione accademico-critica e la televisione successive.
L’eredità viene ambiguamente raccolta, tra le altre, da due produzioni HBO rivolte a un pubblico adulto e sofisticato come True Blood (2008-2014) e Game of Thrones (2011-). Il dibattito che ha circondato il ruolo delle donne in quest’ultima, nelle sedi dell’informazione, della critica e del fandom, ha riproposto i corni di un annoso dilemma: a personaggi femminili capaci di perseguire una propria agenda – personale ma anche pubblica e politica – con eccezionale iniziativa, con piglio di capi militari, o con picareschi e coraggiosi percorsi di crescita, è corrisposta una sessualizzazione insistita e sbilanciata sul corpo femminile, che non sembra per altro aver affatto inficiato il favore del pubblico.

Donne al (tele)comando
Le donne sono arrivate in posizioni di potere: oggi ne possiamo trovare se non proprio ai vertici molto molto vicino. Sono diventate segretarie di stato in amministrazioni statunitensi (Madam Secretary, 2014-). Sono abili manipolatrici dei media, operatrici ai confini tra sistema legale ed esposizione pubblica, e dunque amanti della presidenza americana di fatto quanto metaforicamente (la già citata Scandal). Sono state “promosse” da segretarie a potenti lobbiste (Maggie Gyllenhaal, già protagonista di Secretary, 2002, recentemente in The Honourable Woman, 2014) e si sono emancipate dalla parte di buone mogli, tematizzando l’abbandono del ruolo di eterna spalla professionale e politica, per rivendicare le proprie capacità, i propri spazi di iniziativa e successo, e rischiando di, o finendo per, eclissare i consorti (House of Cards, 2013-; The Good Wife).

Vero è che nella più parte di queste narrazioni le difficoltà, i conflitti tra priorità che si creano tra dimensioni pubblica e privata (si proietti quest’ultima in funzioni di cura familiare o in combattute pulsioni sessuali) è quasi sempre in primo piano, come non accade per i colleghi maschi nelle stesse posizioni.
Si pensi al caso di Madam Secretary, creata per la CBS da Barbara Hall, già parte della squadra dietro a Homeland (e che conta come produttori esecutivi Lori McCreary e Morgan Freeman): la protagonista (interpretata da una Téa Leoni convincente nonostante l’età giovane per il ruolo) viene chiamata dal presidente americano (Keith Carradine), ex collega alla CIA, ad assumere l’incarico di segretario di stato americano dopo l’improvvisa scomparsa del titolare della carica in un sospetto incidente aereo. L’amministrazione è di area conservatrice, ma è significativo che l’orientamento politico non venga esplicitamente indicato per molte puntate dall’inizio della serie. La protagonista è caratterizzata dal suo passato da “dura” alla CIA e una gestione dell’ufficio disincantata, capace e spietatamente consapevole delle priorità che la real politik impone, e che nel caso della superpotenza americana sono proposte come sostanzialmente etiche perché, quando si tratta dei buoni, il fine può ben giustificare i mezzi.
Nonostante tutto ciò, la figura del marito (Tim Daly) ex aviatore militare e professore di teologia, si configura come correlativo oggettivo del background militarista e morale della moglie. Le pur divertenti battute sulla ricorrente funzione di “arm candy” dell’uomo, sintetizzano un ribaltamento dei ruoli tradizionali sempre a rischio di appuntarsi su aspetti epidermici, senza scalfire il nocciolo duro di un’identità da “buona madre di famiglia”. Un’identità che può anzi estendere il suo dominio, secondo un’equivalenza tra protezione della famiglia e della nazione, che si rispecchia a livello linguistico nella retorica statunitense post-11 settembre della homeland security, in cui la “terra” dell’appartenenza collettiva e la “casa” di quella privata si sovrappongono (Izzo 2016).
Serie come Scandal e The Good Wife, portano in scena personaggi in ruoli di leadership a ben vedere assai lontani dal riflettere un’accettazione sociale delle donne alla guida della società. Le protagoniste di queste serie sacrificano la dimensione personale a quella lavorativa, o, nel migliore dei casi, vivono preda di dubbi e sensi di colpa a causa della propria (in)capacità di soddisfare uno standard nei ruoli di genere asimmetrico ed eteronormato, che sempre si profila alle loro spalle (si tratti della capacità di avere una relazione sentimentale, dedicarsi alla famiglia, ai figli, al partner) configurando la loro dedizione professionale come scarto dalla norma, rinuncia, sacrificio da pagare a caro prezzo personale. Un sacrificio che queste donne hanno in comune con le molte colleghe protagoniste dell’ondata di gialli sviluppatasi a partire dagli anni Duemila, sia esso riconducibile, sulle due sponde dell’oceano, a un’idea di stato sociale in cui la sfera pubblica prevarica l’interesse privato, o al mito americano del successo economico raggiunto grazie alla capacità del singolo, declinato al femminile dopo che la crisi del 2008 ne ha intaccato il volto classico (maschile) (si vedano rispettivamente Robbins 2015 per i gialli nordici, e Izzo 2016 per il contesto statunitense).

Luci, ombre, riflessi
La rappresentazione della donna sul piccolo schermo sta complessivamente godendo di un notevole ampliamento e di una preziosa diversificazione che, dagli anni Novanta ad oggi, ha portato da una gamma di esperienze creative confinata entro limiti tipologici e quantitativi ristretti, ad una esposizione sempre più ampia e ad una casistica caratteriale e professionale sempre più variegata. Ancora oggi le donne restano però sotto-rappresentate a livello numerico, e troppo spesso la costruzione dei personaggi resta legata a un’interpretazione asimmetrica e deteriore dei ruoli di genere (anche laddove questa sussista per scarto, come riferimento in negativo a ciò che un personaggio non riesce a fare o vivere).
Il progressivo ripensamento dell’identità femminile e dei rapporti di genere può prendere tante forme quante sono le diverse autorialità creative dietro i prodotti che vediamo, ma in tutti i casi interseca i più ampi cambiamenti che interessano, in un dato momento, la famiglia, la società, le forme del potere. All’incrocio tra ritratto dell’io, modelli comportamentali, rapporti nella sfera del privato, e strategie di sopravvivenza dell’individualità a contatto con gli apparati dell’egemonia economica, politica, legislativa, la figura femminile si presta a essere sempre più spesso in primo piano sui piccoli schermi.
La presenza delle donne nella finzione catodica resta in ogni caso legata a doppio filo alla loro integrazione nell’industria televisiva e al loro “potere di contrattazione culturale” in seno alla società, alla loro appetibilità come target: quanto più lavoratrici, spettatrici e consumatrici, tanto più gratificate dalle loro immagini riflesse in quella complessa casa degli specchi che è la serialità televisiva oggi.


Letture
  • Kim Akass, Janet McCabe, “What Has HBO Ever Done For Women?”, in The Essential HBO Reader, ed. Gary Richard Edgerton, Jeffrey P. Jones, University Press of Kentucky, Lexington, 2008, 303-314.
  • Phyllis M. Betz, The Lesbian Fantastic: A Critical Study of Science Fiction, Fantasy, Paranormal and Gothic Writings, McFarland, Jefferson, 2011.
  • Denise D. Bielby, C. Lee Harrington, Global TV: Exporting Television and Culture in the World Market, New York University Press, New York and London, 2008.
  • Noelle R. Collier, Christine A. Lumadue, H. Ray Wooten, “Buffy the Vampire Slayer and Xena: Warrior Princess: Reception of the Texts by a Sample of Lesbian Fans and Web Site Users”, Journal of Homosexuality, 56, no. 5 (2009), 575-609. Doi: http://dx.doi.org/10.1080/00918360903005253.
  • Glaad, Where We Are on TV: Glaad’s Annual Report on LGBTQ Inclusion, 2016-17, edizione elettronica, 2017, in Glaad.
  • Donatella Izzo, “’Who Do You Want Answering the Phone?’ Donne, leadership e trauma nelle serie TV degli anni 2000”, in Between, VI, no. 11 (maggio 2016), Doi.
  • Martha M. Lauzen, Boxed in 2015-16: Women on Screen and behind the Scenes in Television, edizione elettronica, 2016, in Center for the Study of Women in Television & Film, San Diego State University, http://womenintvfilm.sdsu.edu.
  • Rachel Moseley, Jacinda Read, “Having It Ally: Popular Television (Post)Feminism”, in Feminist Media Studies, 2, no. 2 (2002), Doi.
  • Emily L. Newman, Emily Witsell, eds., The Lifetime Network: Essays on “Television for Women” in the 21st Century, McFarland, Jefferson, 2016.
  • Bruce Robbins, “The Detective Is Suspended: Nordic Noir and the Welfare State”, in Post45, 18 maggio 2015 .
  • United States Department of Labor – Women Department, Facts over Time.
  • Women’s Media Centre.

Visioni
  • Barbara Avedon, Barbara Corday, Cagney & Lacey, CBS, 1982-1988.
  • David Benioff, D. B. Weiss, Game of Thrones, HBO, 2011-.
  • Greg Berlanti, Ali Adler, Andrew Kreisberg, Supergirl, CBS, 2015-.
  • Hugo Blick, The Honourable Woman, BBC, 2014.
  • Rick Berman, Michael Piller, Jeri Taylor, Star Trek: Voyager, CBS, 1995-2001.
  • James L. Brooks, Allan Burns, The Mary Tyler Moore Show, CBS, 1970-1977.
  • Marc Cherry, Desperate Housewives, ABC, 2004-2012.
  • Douglas S. Cramer, Stanley Ralph Ross, Wonder Woman, ABC, 1976-1977; CBS, 1977-1979.
  • Lena Dunham, Girls, HBO, 2012-2017.
  • Peter S. Fischer, Richard Levinson, William Link, Murder, She Wrote, CBS, 1984-1996.
  • Howard Gordon, Alex Gansa, Homeland, Showtime, 2011-14, 2015-.
  • Barbara Hall, Madam Secretary, CBS, 2014-.
  • Kenneth Johnson, The Bionic Woman, ABC, 1976-1977; NBC, 1977-1978.
  • David E. Kelley, Ally McBeal, Fox, 1997-2002.
  • Robert King e Michelle King, The Good Wife, CBS, 2009-2016.
  • Ronald D. Moore, Battlestar Galactica, NBC Universal, 2004-2009.
  • Richard Morris et al., Letter to Loretta, poi The Loretta Young Show, NBC, 1953-1961.
  • Jonathan Nolan, Lisa Joy, Westworld, HBO, 2016-.
  • Shonda Rhimes, Scandal, ABC, 2012-.
  • Shonda Rhimes, How to Get Away with Murder, ABC, 2014-.
  • Josh Schwartz, Gossip Girl, The CW, 2007-2012.
  • Darren Star, Sex and the City, HBO, 1998-2004.
  • Robert Tapert, John Schulian, Xena: Warrior Princess, syndication, 1995-2001.
  • Joss Whedon, Buffy the Vampire Slayer, The WB, poi UPN, 1997-2003.
  • Beau Willimon, House of Cards, Netflix, 2013-.