La memoria del mostro

Juan Antonio Bayona
Sette minuti dopo la mezzanotte
Produzione: Apaches Entertainment, La Trini, Participant Media, River Road Entertainment
Distribuzione (Italia): 01Distribution

Juan Antonio Bayona
Sette minuti dopo la mezzanotte
Produzione: Apaches Entertainment, La Trini, Participant Media, River Road Entertainment
Distribuzione (Italia): 01Distribution


Umano troppo umano diventa, nel gergo del postcinema e della postserialità, sinonimo di mostruoso, in un rapporto di mutuo e rivelato scambio fra l’umanità e le sue pieghe oscure. Ancora una volta va ribadito il diktat pronunciato da Suor Jude in American Horror Story Asylum (2012): “tutti i mostri sono umani”, non soltanto in virtù della propria funzione allegorica rispetto ai fenomeni esogeni del mondo dell’uomo, ma anche per la capacità di rappresentarne sinteticamente la dimensione interiore. Secondo quanto teorizzato da Leslie Fiedler in Freaks (1978) non v’è infatti creatura mostruosa, naturale o artificiale, che non rechi con sé il portato simbolico dei conflitti sottesi all’intera storia umana: a cominciare da quello fondamentale che vede contrapporsi l’amore alla morte, il desiderio al respingimento, l’azione alla negazione (cfr. Fiedler, 2009). In questo modo è facilmente e rapidamente spiegato come mai le produzioni di senso intrecciatesi con quella stessa storia siano costellate di figure ibride e ripugnanti, nate nel segno dell’irregolarità, dell’anomalia, che per contro si fanno veicolo della normalità nel suo senso più fisiologico. 
L’essenza del mostro però, precisa Fiedler, (ri)sorge là dove inizia il rimosso, dove la pentola a pressione dell’essere chiude le proprie pulsioni fino a farle sfiatare in ossessioni e accessi stevensoniani, quando non in vere e proprie deformazioni del corpo per effetto di una mente (con)torta. Ciò consente di ricollegarsi subito e in maniera significativa a uno degli indizi lasciati lungo il percorso di Sette minuti dopo la mezzanotte, adattamento dell’omonimo romanzo di Patrick Ness e Siobhan Dowd (2013) realizzato dal regista Juan Antonio Bayona.

Metanarrativa teratologica
Conor e la madre, disegnatrice costretta a riposo da una gravissima malattia, siedono sul divano stretti l’uno all’altra. Dal proiettore sgorgano le immagini di un film in bianco e nero con la grande scimmia in cima all’Empire State Building e tanti piccoli elicotteri che le ronzano intorno. Il ragazzino domanda alla mamma come mai sono tutti così ostinati a colpire a morte la creatura e lei risponde che “alle persone non piace mai quel che non riescono a comprendere”. In questo modo la narrazione autodefinisce quasi immediatamente il proprio campo: A Monster Calls, per riprendere il titolo originale, è una storia di mostri portata al cinema che non può prescindere dal riferirsi al mostro cinematografico per eccellenza, quel King Kong (1933) di Merian Cooper ed Ernest Schoedsack giustamente eletto a icona di un’era e qui trasformato in legame diegetico, oltre che esterno, con la memoria delle cose. Questo anche perché la sua sagoma è destinata a ritornare nella vicenda del piccolo Conor onde assumere un significato ben preciso e catalizzarne molti altri.

Il fatto è che Conor, “troppo grande per essere un bambino e troppo giovane per essere un uomo”, ha già fatto conoscenza con un mostro. Abita con la mamma morente, non vede quasi mai suo padre, viene picchiato a scuola, detesta la nonna con la quale dovrà andare a convivere. E ogni sera, sette minuti dopo la mezzanotte, riceve una chiamata: l’albero millenario piantato dirimpetto alla sua casa si anima e lo cerca. Ha da raccontargli tre storie al fine di dischiudere un’importante verità: tre storie al servizio di una sola. Perciò ogni notte la terra trema e Conor si lascia catturare da questa nodosa e imponente versione dei cantori antichi per ascoltarne le fiabe nere; fiabe nelle quali il meccanismo della rappresentazione del lato oscuro dell’umano è apertamente scoperchiato e non vi è vissero felici e contenti che tenga. Il topos dell’inquietudine torna in auge spogliato delle sue smussature storiche e acuminato come solo la dolorosa verità delle cose sa spesso essere. Nei racconti dell’albero le atrocità compiute dai prìncipi superano quelle di cui si macchiano le streghe: il cattivo è meno cattivo del buono e la pietà e il rancore non sanno quale direzione prendere. Così le parole pronunciate dal mostro sul finire del film, “gli uomini sono animali strani”, si incastrano e ricuciono le parti del discorso alla perfezione per ribadire che la pratica del narrare nasce e si sviluppa con l’identità, come azione naturale e insieme come sfida dell’essere umano a dirsi, pensarsi, sbrogliarsi.

Di generazione in generazione
Al di sotto della superficie arcaica della morale fiabesca, quell’o mythos delòi ampiamente e variamente rivisitato nel corso dei secoli, viene celata e descritta un’altra e ben più pregnante funzione dell’atto narrativo: la ricomposizione del sé attraverso l’estemporanea identificazione con l’alterità. Quell’altro che, all’epoca dei già citati cantori, poteva corrispondere alla sorte, alla morte, al divino, all’idea di giustizia o di virtù, e in parte è rimasto a farlo, rapportandosi ad almeno una di queste dimensioni nonostante l’urgenza di immergersi nell’oceano di frammenti mutanti e contradditori dell’attualità del postumano. In questa cornice, dove l’adattamento di Bayona del romanzo di Ness e Dowd va per forza di cose a iscriversi, il sé e il suo alter collimano, come a suo tempo ben sintetizzò (e preconizzò) la letteratura gotica, dal Frankenstein di Mary Shelley (1818) a, soprattutto, Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr. Hyde (1886). Iperbole corporea per eccellenza, la figura del mostro torna dunque a riassumere i termini della transizione, della crisi, del passaggio epocale, per come vengono vissuti dall’individuo al centro o, riprendendo un recente intervento di Achille Pisanti (2017), al margine della metamorfosi del cosmo. Si fa interprete della de-composizione un attimo prima del suo ricomporsi razionale fra le maglie della narrazione. È il segno pulsante di ciò che è altro in quanto incompreso e che di conseguenza ha inevitabilmente a che fare con i diversi approcci metabolici dell’esistenza.

Nel caso di Sette minuti dopo la mezzanotte tutto questo va a tradursi nel seguente sistema di relazioni: la verità, vale a dire la storia a compimento di tutte le altre tre, appartiene al giovane Conor e a quel che non è riuscito a guardare e capire dentro di sé; lui che, ascoltando di sovrani crudeli e genitori snaturati, riesce gradualmente ad accostarsi all’idea di poter contenere il male, l’insensato, l’inaccettabile. A diventare un piccolo King Kong martoriato dalle armi della propria stessa mente, che tuttavia, invertendo l’ordine del mito, mantiene ancora il potere di difendersi e salvarsi.Eppure (in questo la costruzione a quattro mani di Ness e Bayona rivela il suo maggiore punto di forza) il sovrapporsi della sagoma di Conor a quella di Re Kong non ha nulla di casuale. Contribuisce a spiegarlo un intenso quanto silenzioso finale che, dopo l’utilizzo metanarrativo del cult cinematografico di Cooper e Schoedsack, fa un passo indietro e riaffida al libro, simbolo o comunque oggetto più immediatamente rappresentativo dei meccanismi di conservazione della memoria e della tradizione e, più in generale, del Tempo, il compito di ricomporre ogni nesso.
Così facendo Sette minuti dopo la mezzanotte delinea e omaggia per la terza e ultima volta l’universale pratica del narrare (e del narrarsi) mettendone letteralmente nero su bianco la capacità di trasferire l’esperienza, il suo senso e la cultura che ne scaturisce, da una generazione all’altra. Capacità che vive e si rinnova ancora in quelle sere nelle quali gli occhi dei più piccoli si chiudono al suono della voce delle storie, senza effettivamente rendersi del tutto conto della ricomposizione dell’eterno nell’attuale che le storie stesse s’impegnano ogni volta a realizzare ma, comunque sia, subendone l’incanto. Principalmente per queste ragioni è lecito interpretare la vicenda di Conor e del suo nemico/amico albero come una dedica accorata quanto consapevole alla facoltà ristrutturante dell’atto narrativo, al suo potere di creare e rinsaldare legami attraverso il dono o, per meglio dire, la condivisione della memoria dell’esperienza e dell’esperienza della memoria.

Letture
  • Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, Luca Sossella Editore, Roma, 2008.

  • Alberto Abruzzese, Valeria Giordano (a cura di) Lessico della comunicazione, Meltemi; Roma, 2003.

  • Leslie Fiedler, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, Il Saggiatore, Milano, 2009.

  • Patrick Ness, Siobhan Dowd, Sette minuti dopo la mezzanotte, Mondadori, Milano, 2013.

  • Mary Shelley, Frankenstein, Editoriale Corno, Milano, 1966.

  • Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, BUR, Milano, 2002.
Visioni