Immenso oceano di simboli,
una visione dell’universo

Joseph Campbell
Le distese interiori del cosmo
Traduzione di Andrea Di Gregorio

nottetempo, Roma, 2020
pp. 236, € 18,00

Joseph Campbell
Le distese interiori del cosmo
Traduzione di Andrea Di Gregorio

nottetempo, Roma, 2020
pp. 236, € 18,00


Nella tradizione indiana Vedanta si parla dell’akasha, una sostanza eterea originaria che permea tutto il cosmo. L’akasha è il primo elemento del mondo materiale, lo spazio atmosferico e il cielo che dà forma al mondo. Ecco, per Joseph Campbell il mito è l’akasha dell’umanità, la conditio sine qua non dell’esistenza psicofisica umana. Indagare i miti per studiarne i simboli e le metafore religiose significa comprendere come una società e l’individuo interpretano il mondo che li circonda, in che modo i simboli di un popolo mediano la sua relazione con il mistero trascendente al di là dei fenomeni, come una società organizza se stessa e prepara i suoi membri ad attraversare le diverse fasi della vita. Che si tratti di viaggiare tra le architetture interiori dell’anima o nelle infinite distese dell’universo, Le distese interiori del cosmo, quest’ultima opera che Campbell scrisse poco prima della morte (“i capitoli […] provengono dalle lezioni che ho tenuto a San Francisco tra il 1981 e il 1984” premette Campbell), si lascia ispirare attorno la foto Earthrise fotografata da Apollo 8, auspicando una nuova mitologia globale che unisca tutti i popoli della Terra. Già Carl Gustav Jung aveva avvertito nelle sue interviste che l’epoca moderna segnata dall’espansione spaziale e dal crollo dei vecchi miti andava compensata da un’attenta indagine della psiche collettiva per far nascere nuove cosmogonie di senso (cfr. Jung, 1995). Per lo psicanalista in assenza di un mito, una società è destinata al collasso.

Tutta l’opera di Campbell è votata a questa ricerca, chiamando in causa tanto gli archetipi quanto le idee elementari di Adolf Bastian e le ierofanie di Mircea Eliade, per il quale “una ierofania realizzata in un certo momento storico è strutturalmente equivalente alla ierofania di mille anni anteriore o posteriore” (Eliade, 2005), alla ricerca di quei valori universali da cui nascono le figure mitologiche di ogni civiltà. Da un lato per Campbell gli dèi, i demoni e gli spiriti delle leggende sono tanto personificazioni dei processi psicofisici corporei quanto manifestazioni degli elementi naturali. In questo il simbolo è influenzato dai processi organici e risponde alle modifiche ambientali e all’esigenza umana di coesistere con la geografia del paesaggio, stabilisce l’ideale con cui ogni cultura si identifica nel suo rapporto con la natura.
Dall’altro il mito raggruppa le narrazioni che permettono di armonizzare la relazione tra la coscienza e l’inconscio, tra la dimensione storica e l’eternità. Campbell ritrova nel mito la possibilità di una prospettiva estatica che lanci l’individuo fuori dalla sua sfera e lo instradi su un cammino per coltivare una maggior consapevolezza di sé, oltre i confini dell’ego. In India per esempio Ananda K. Coomaraswamy ha evidenziato che le opere d’arte raffiguranti scene locali o oggetti comuni, vengono definite mondane perché sono considerate esteticamente irrilevanti, mentre quelle che riprendono le divinità esposte nei templi hanno la funzione di un itinerario interiore che conduce al Sé universale (cfr. Coomaraswamy, 2017).

“È per questo che le figurazioni mitiche sono metaforiche (mentre i sogni generalmente non lo sono) in due sensi contemporaneamente: in quanto portatrici di connotazioni psicologiche e allo stesso tempo metafisiche. Attraverso questa doppia messa a fuoco, le caratteristiche psicologicamente interessanti di ogni ordine sociale locale, di ogni ambiente o di ogni ipotetica storia possono venire trasformate attraverso il mito in trasparenze rivelatrici di trascendenza”.

Il senso della metafora agisce come capacità ermeneutica di saper navigare i diversi significati della realtà interiore tanto quanto quella esterna. Campbell sottolinea in tutto il libro l’importanza di distinguere tra un’interpretazione letterale del simbolo e una ripresa metaforica degli stessi motivi religiosi. Un leitmotiv della sua opera è il confronto tra esperienze religiose e testi sacri, dalle visioni dello sciamano Alce Nero alla predicazione di Zarathustra, passando per la Bibbia, i vangeli gnostici, il corpus vedico e i testi shintoisti, lasciando dialogare assieme tanto le parole di maestri della levatura di Sri Ramakrishna quanto i versi di figure del calibro di James Joyce, suo caro amico.
Le espressioni del Regno di Dio e del nirvana che hanno segnato rispettivamente le tradizioni del Cristo e del Buddha, due delle figure maggiormente prese a riferimento da Campbell, diventano così metafore per indicare non già un luogo ma una condizione psicologica condivisa di partecipazione e apertura consapevole al sacro. Se il linguaggio mitologico va quindi esplorato di volta in volta nelle sue connotazioni regionali ed etniche, l’occhio del ricercatore si sofferma sui processi transpersonali che si nascondono dietro l’immagine.
Campbell sottolinea qui a più riprese che la soglia è il piano referenziale del mito, e le forme simboliche rivelano allo studioso la condizione sempiterna di metassi che contraddistingue la genesi degli archetipi. L’immagine è il ponte che conduce al divino ed educa a una visione non dualistica della vita, sempre a cavallo tra il profano e il mistico (cfr. Gupta, 2009). Con la sua ultima opera, Campbell opera una summa del suo pensiero, un compendio prezioso per comprendere una delle esigenze più grandi del nostro secolo.

Letture
  • Carl Gustav Jung, Jung parla, Adelphi, Milano, 1995.
  • Mircea Eliade, Lo Sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 2005.
  • Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, Adelphi, Milano, 2017.
  • Mahendranath Gupta, Il vangelo di Sri Ramakrishna, Vidyananda, Assisi, 2009.