La musica, il suo contesto
e le parole per scriverne

Ian Penman
Mi porta a casa, questa curva strada
Traduzione di Luca Fusari

Edizioni di Atlantide, Roma, 2020
pp. 208, € 24,00

Ian Penman
Mi porta a casa, questa curva strada
Traduzione di Luca Fusari

Edizioni di Atlantide, Roma, 2020
pp. 208, € 24,00


Questo è un libro che chiunque ami la musica dovrebbe leggere e custodire con cura. Ed è uno di quei testi che sarebbe bene utilizzare come manuale di scrittura, e non solo in ambito musicale. Perché Ian Penman, giornalista inglese per riviste come The Wire, NME, The Face, Uncut, collaboratore del Guardian e della London Review of Books, tratta la materia con cura, competenza e sensibilità poetica, dando spessore filosofico e sbirciate ironiche agli artisti e a ciò che gira intorno ad essi.
Mi porta a casa, questa curva strada (da un distico di W. H. Auden, dove il termine in inglese track ha il doppio significato di traccia incisa su un disco e sentiero) è una raccolta di scritti di Penman che va da John Fahey a Charlie Parker, da Frank Sinatra a Donald Fagen, dai Mod a Elvis Presley, a Prince, a James Brown. Ma non si tratta di semplici articoli che ripercorrono le vicende, musicali e no, dei protagonisti, bensì di veri e propri quadri letterari dove la musica e le vicende personali si intrecciano alla storia e al costume, con richiami filosofici e poetici, a tratteggiare visioni multiformi e sguardi critici.
Penman fa parte di quella scuola di giornalisti, perlopiù inglesi e americani, che riesce a inquadrare gli artisti e le musiche sotto punti di vista anomali, per nulla scontati, e sempre collegati al loro contesto, storico culturale e sociale, scrivendo con eleganza e vivacità. Ma uno dei pregi di Penman, così come per esempio di Richard Williams o del più famoso Simon Reynolds, è quello di stare in perfetto equilibrio fra dissertazione letteraria e analisi musicologica. Il saper andare a fondo della musica senza dover per forza utilizzare partiture, trascrizioni, diagrammi o quant’altro e, allo stesso tempo, utilizzando un linguaggio che non è la caricatura di Lester Bangs. Nel parlare di John Fahey, Penman scrive:

“La chitarra rock dei primordi era spesso e volentieri incentrata su pacchiane sfilze di note inanellate da mani sinistre piro-atletiche: e quanto spesso riuscivano a rendere magniloquente e piena di fronzoli una canzone. Fahey emerse – per poi reimmergersi – da una tradizione completamente diversa. Nella tecnica del fingerpicking perfezionata dai chitarristi del Delta blues negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, l’enfasi si sposta sulla mano destra: il pollice martella il ritmo sulle tre corde più gravi (Mi, La, Re, in ordine decrescente di spessore), mentre le altre quattro dita pizzicano la melodia sulle tre corde più acute (a seguire: Sol, Si, Mi). L’instancabile pollice fa il lavoro di un’intera sezione ritmica, mentre le dita eseguono scivolamenti e sortite più imprevedibili. Ogni corda ha una potenziale storia: brulla o frondosa, mesta o resistente. Ai primi ascolti pare di sentire due chitarristi che suonano insieme in giudiziosa armonia uno strumento modesto reso, con la massima naturalezza, sinfonico”.

In questi ultimi anni in Italia si è discusso e parlato parecchio dello scrivere di musica, complice ovviamente la rete e quell’irrefrenabile voglia di raccontare e raccontarsi che sembra aver assalito un paese come il nostro, dove gli indici di lettura sono tra i più bassi d’Europa. Ma anche per una serie di ottimi libri che hanno arricchito il panorama editoriale, offrendo innumerevoli spunti, letture critiche ed excursus storici. Da questo punto di vista la Minimum Fax ha pubblicato, lo scorso anno, Scrivere di musica, il libro di Rossano Lo Mele, direttore responsabile della rivista rock Rumore, che rappresenta una buona guida per chi decidesse di intraprendere la carriera del critico (“un aiuto concreto per danzare con le parole, per scrivere bene di musica”), ma anche perché getta uno sguardo su come è cambiata la scrittura e la critica nel tempo e sulle nuove opportunità, ma anche rischi, offerte da Internet e dai social network. Nondimeno la questione continua a rimanere quella ricerca di equilibrio nel trattare un’arte come la musica, non semplice perché immateriale, collettiva (non sempre), prodotto di mercato ed espressione artistica, e soprattutto veicolo e agente di storia e storie, elemento vivo e pulsante delle nostre società. E non può quindi essere certo un caso che sempre più spesso autori provenienti da altre discipline si cimentino in questo campo.

Alcuni testi di riferimento
Valga per tutti il bel libro La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, scritto da Ferdinando Fasce, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Genova, che unisce la passione di una vita, i Beatles per l’appunto, a una rigorosa analisi storica, inserendo il gruppo inglese all’interno del suo tempo, mostrandone le difficoltà, i successi e le contraddizioni alla luce del contesto socioculturale della Gran Bretagna e dell’Occidente in generale. Oppure quel viaggio nell’immaginario occidentale, nella cultura di massa e nella controcultura, da Walt Disney ai Pink Floyd, che è Wonderland, scritto da Alberto Mario Banti, anche lui professore ordinario di Storia contemporanea e docente di Storia culturale, ma all’Università di Pisa. Sono esempi significativi di un modo sempre più interconnesso e multidisciplinare di trattare l’arte musicale, rifuggendo da analisi tecniche a volte utili ma molto spesso noiose, oppure aridi elenchi nozionistici e fredde recensioni, o ancora enfasi retoriche che a volte nascondono incompetenza. Mi porta a casa, questa curva strada è invece un libro ispirato, complesso e semplice allo stesso tempo, colmo di riferimenti e che quindi pone gli argomenti trattati all’interno di una visione complessiva, dando le coordinate per comprendere e collocare nel giusto contesto gli artisti e le loro musiche.
Poche e ficcanti frasi consentono a Ian Penman di delineare con esattezza il valore o il colore di un brano, di un artista, di un disco, di entrare con precisione nell’intima essenza della materia e di tratteggiarla con inaudita chiarezza. Dai vocalizzi di James Brown con la “funzione di percussioni disordinate”, agli “arzigogoli sonori impossibili intessuti nell’aria quotidiana” di Charlie Parker, dalla “malinconia ipnotica ma mai deprimente, pensosa ma mai superficiale” di John Fahey, al volto di Elvis Presley, “di una bellezza proteiforme aperta alle più svariate interpretazioni e ad appetiti di ogni intensità”, Penman sorvola sulle storie con occhi acuti per poi affondare colpi precisi che trafiggono la natura dei personaggi e delle loro musiche.
Il libro si lascia leggere con piacere e con curiosità, e fornisce chiavi di lettura insolite anche su vicende e musicisti che pensavamo di conoscere a fondo. Mirabili sono le pagine dedicate a Charlie Parker, così come arguta è la panoramica della carriera di Sinatra, o la ricostruzione storica del fenomeno Mod, nel quale l’autore trova anche tempi e modi di pennellare efficaci parole su Kind Of Blue di Miles Davis, che certo non avrebbero sfigurato in The Blue Moment. Come Kind Of Blue ha cambiato la musica, il bellissimo libro di Richard Williams pubblicato in Italia nel 2011, un affascinante viaggio dentro e intorno i silenzi e le note del capolavoro di Davis. Annota Penman:

“In questo momento-YouTube ci viene detto che abbiamo la possibilità illimitata di dare una sbirciatina a tutto quello che c’è stato: l’abbiamo sotto il naso, ma forse il prezzo da pagare è l’assenza completa di un chiaroscuro critico”.

Letture
  • Rossano Lo Mele, Scrivere di musica. Una guida pratica e intima, minimum fax, Roma, 2020.
  • Ferdinando Fasce, La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, Einaudi, Torino, 2018.
  • Alberto Maria Banti, Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Laterza, Bari-Roma, 2019.
  • Richard Williams, The Blue Moment. Come Kind of Blue ha cambiato la musica, il Saggiatore, Milano, 2011.