La forma e l’essenza
dei futuri di Hao Jingfang

Hao Jingfang
Pechino pieghevole
Traduzione di Silvia Pozzi

Add Editore, Torino, 2020
pp. 352, € 18,00

Hao Jingfang
Pechino pieghevole
Traduzione di Silvia Pozzi

Add Editore, Torino, 2020
pp. 352, € 18,00


Immaginate una città con ottanta milioni di abitanti, in un mondo in cui l’automazione industriale e l’efficientamento dell’agricoltura hanno reso superflua la manodopera umana. Dove mettere tutta questa gente e tenere sotto controllo le conseguenze sociali della disoccupazione? Nel folgorante racconto di Hao Jingfang che presta il titolo alla prima raccolta delle sue opere brevi viene prospettata una soluzione inedita:

“Pechino3 si suddivideva in tre spazi. Dalle sei del mattino alle sei del mattino seguente c’era lo Spazio Uno, con i suoi cinque milioni di abitanti. Poi veniva il momento del riposo e la terra ruotava. Sull’altro lato convivevano lo Spazio Due e lo Spazio Tre. Nello Spazio Due c’erano venticinque milioni di persone, e il loro orario partiva alle sei del mattino del secondo giorno e terminava alle dieci di sera. I cinquanta milioni dello Spazio Tre avevano a loro disposizione solo otto ore, il lasso di tempo tra le ventidue e le sei del giorno seguente. Poi ricompariva lo Spazio Uno”.

Lo Stato, mai nominato, interviene così per modificare periodicamente lo spazio abitabile della città. “Quella mattina, se avesse potuto assistere da lontano a tutto ciò, avrebbe visto la città aprirsi e ripiegarsi su sé stessa”. Un’attenzione, quella dell’autrice cinese classe 1984, di certo debitrice dei classici della New Wave degli anni Sessanta, incentrati sui timori di un futuro sovraffollato e insostenibile, da James G. Ballard a John Brunner e Harry Harrison, ma arricchita da una carica visionaria che non trascura le più recenti evoluzioni del genere: l’estetica del cyberpunk e le suggestioni urbanistiche di Dark City (1988) di Alex Proyas ed Elysium (2013) di Neill Blomkamp.

“Alle prime luci dell’alba, la città si piegava e spariva dentro la terra. I palazzi si inchinavano come umili servitori, si abbassavano con deferenza, toccandosi i piedi con la testa, per chiudersi su se stessi. Poi si spezzavano e si piegavano ancora in due per infilare capo e braccia negli spazi vuoti. I poliedri compatti che si venivano a formare ruotavano fino a comporre un gigantesco e perfetto cubo di Rubik pronto a sprofondare in un lungo sonno. A quel punto la terra ruotava. I singoli lotti giravano attorno al proprio asse di centottanta gradi, rivelando gli edifici sull’altro lato che si aprivano ergendosi nel cielo grigio azzurro come animali che escono dal letargo”.

Nel mondo di Lao Dao, “il tempo era stato accuratamente diviso con una pianificazione ottimizzata perché i cinque milioni dello Spazio Uno godessero appieno di ventiquattro ore e gli altri settantacinque milioni si spartissero le successive ventiquattro”. Le classi sociali non sono più confinate solo nello spazio, ma vengono artificialmente delimitate anche nel tempo. La ghettizzazione diventa quindi un affare anche di ore, non solo di strade e quartieri. Per lui, abitante dello Spazio Tre, impiegato come milioni di suoi concittadini nella filiera dello smaltimento e del recupero dei rifiuti, si prospetta un’imprevista opportunità quando decide di infrangere le regole e recapitare il messaggio di un misterioso committente dello Spazio Due a un’abitante dello Spazio Uno. Ma, al di là della ricompensa monetaria, il viaggio gli permetterà di capire qualcosa di più sulle motivazioni sottese all’origine della sua Pechino pieghevole.

Il senso di Hao Jingfang per la fantascienza

“La soluzione ideale è ridurre all’osso il tempo a disposizione di una parte della popolazione e inventarsi qualcosa per tenerla impegnata. Capisci? Derubarla della notte”.

Tradotto da Ken Liu, il racconto si è aggiudicato il Premio Hugo nel 2016 (l’anno dopo l’exploit di Liu Cixin con Il problema dei tre corpi), venendo subito proposto ai lettori italiani dalla rivista Robot sul numero 79 nel 2017. Il biglietto da visita perfetto che funge anche da ideale porta d’ingresso nel mondo letterario dell’autrice, distillato in questo volume che esce, tradotto direttamente dal cinese a opera di Silvia Pozzi, per i tipi Add Editore. Hao Jingfang è sicuramente una delle figure di spicco di questa ondata di narratori cinesi a cui la fantascienza occidentale guarda con interesse crescente. E una volta letti i suoi racconti non si fatica a comprenderne la ragione: la sua scrittura coniuga brillantemente critica sociale (motivo per cui le sue pubblicazioni hanno incontrato diverse difficoltà in patria – cfr. Sosio, 2020), e consapevolezza artistica, la padronanza dei temi di punta del genere con una sensibilità che sfocia in alcuni passaggi particolarmente lirici, sia per il richiamo a elementi facilmente associabili alla spiritualità orientale (in particolare il buddhismo, ma anche la dottrina morale e filosofica confuciana) che per l’inclinazione malinconica dei suoi personaggi.

Dalla campagna Hotel dell’agenzia FP7. Art director: Supparat Thepparat.

Non tutti gli undici racconti di Pechino pieghevole sono allo stesso livello, com’è inevitabile, e forse la cosa di cui si sente maggiormente la mancanza in un’edizione per il resto pregevole è un apparato bibliografico minimo, che consenta al lettore di inquadrare ciascun titolo nella carriera di Hao. La raccolta passa da storie più avventurose, a cui non è comunque estraneo un messaggio morale (L’ultimo eroe, Tra vita e morte) quando non proprio una satira esplicita delle contraddizioni di una società in rapido sviluppo come quella cinese, affetta da corruzione, immobilismo sociale, avidità e perdita di memoria storica (Palazzo Epang), a opere più ambiziose e ispirate. Tra queste ultime possiamo annoverare l’incursione spaziale di Cerere in volo, un’epica robinsoniana in miniatura, Le stanze della solitudine sugli effetti psicologici dei social (un quadro inquietante che richiama alcuni episodi di Black Mirror, ma che entra anche in risonanza con alcuni racconti di Linda De Santi, in particolare Negli occhi di chi comanda, compreso nell’ultimo Millemondi Urania) e Il teatro dell’universo, che racconta il tentativo disperato di Helene, una donna che scopriamo essere in qualche modo associata alla resistenza terrestre, in guerra contro il giogo di imperscrutabili oppressori extraterrestri.
Il riscatto passa per il recupero di riti dei cui si è ormai persa la memoria:

“Gli umani sono diventati animali civili solo quando si sono organizzati in società stanziali articolate, con una suddivisione del lavoro. Ma come avvenne tutto ciò? Una volta si pensava che fosse conseguenza della scoperta dell’agricoltura, poi si è capito che la stanzialità è comparsa con un millennio di anticipo rispetto alle tecniche di coltivazione. Gli esseri umani prima si sono aggregati in comunità e solo in un secondo tempo hanno cominciato a coltivare i campi. Cosa li ha spinti allora a rinunciare alla loro aggressività e a unirsi tra loro? Le feste di per sé non hanno un significato particolare, sono semplici punti di riferimento temporali. Però spingono una comunità a celebrare gli stessi rituali in contemporanea, a recitare le stesse preghiere, a sospendere le normali occupazioni quotidiane per sentirsi parte di un tutt’uno. La consapevolezza di questo senso di appartenenza è all’origine della forza di coesione dell’umanità”.

Con la comparsa dei primi “osservatori” le persone cominciano ad abbandonare i vecchi riti, intraprendendo un percorso di disumanizzazione: il distanziamento sociale che ne consegue conduce inevitabilmente al reciproco disinteresse, alla perdita di senso della comunità, a cui sopperisce solo in parte la tecnologia della condivisione cerebrale, che consente agli umani di riparare in un mondo di pura illusione (interessanti, a questo proposito, gli echi e le affinità che possiamo cogliere con il racconto di Valeria Barbera Cogito Ergo Sum, anche questo recentemente pubblicato nel Millemondi di Urania Distòpia).

Percorsi nel futuro
La tensione tra inner space e outer space, tra la dimensione interiore di ciascuno di noi e il macrocosmo in cui ci muoviamo e a cui molti personaggi mostrano di aspirare, emerge lampante in questo racconto con la contrapposizione tra i diversi livelli evolutivi raggiunti dalla civiltà umana e da quella degli “osservatori”, giacché “qualsiasi civiltà che voglia evolvere, deve compiere un doppio percorso, uno verso l’esterno, l’altro interno. Evolvere esteriormente significa avere la capacità di penetrare l’universo, interiormente invece coincide con la conoscenza della propria rete neurale”. Ma ritorna anche più avanti, in uno dei racconti più affilati, ma anche toccanti, dell’antologia: La clinica di montagna.
Han Zhi è un ricercatore che si ritrova suo malgrado intrappolato in una routine quotidiana asfissiante, dominata dalle esigenze della sua famiglia (una moglie appena diventata mamma e le attenzioni richieste dalla loro bambina) e dalle aspettative della società (le ambizioni del suocero, quelle dei suoi colleghi d’università):

“Il nuovo impiego, il matrimonio, ben presto una figlia. Le cose importanti della vita erano arrivate tutte insieme e lui si arrabattava lavorando giorno e notte, sopraffatto da un carico maggiore di quello che era in grado di sopportare. E intorno aveva solo gente capace di mettergli fretta. Non faceva in tempo a finire una cosa, che subito ne arrivava un’altra. […] Ogni tanto, quando si svegliava nel cuore della notte e vedeva la bambina nel lettino, aveva la strana impressione di non essere a casa propria”.

Un pomeriggio, deciso ad allontanarsi da tutto, si avventura da solo in un parco di montagna, finendo presto per perdere la strada. Durante il difficile ritorno in città, Han Zhi ripercorre a ritroso la sua vita, dalle olimpiadi di fisica e matematica sostenute da studente fino alle attenzioni interessate di cui è stato oggetto fin dall’infanzia, per arrivare a concludere che tutta la sua vita è stata in qualche modo condizionata dall’esterno. Deve così prendere atto che tutto quello che ha fatto non è stato il frutto di una scelta compiuta in libertà, ma è stato dettato dalle ingerenze di qualcun altro.

“Uscire dallo studio nel cuore della notte con la testa che gli girava, dopo avere tirato quindici o addirittura venti ore, gli procurava un senso di serenità. Avvertiva il bisogno di dire a se stesso che non si era risparmiato. In un certo senso comprendeva perché nel passato i religiosi più ferventi si autoinfliggessero le mortificazioni: era un modo per sopperire a un’angoscia insopportabile. Colmare l’abisso della paura con il reiterarsi dello sfinimento”.

Nella clinica di montagna in cui finisce per imbattersi sulla strada di casa, cercherà una cura al suo malessere.

Un universo pieno di note
I racconti di Hao parlano anche attraverso le assenze. Richiama inevitabilmente l’attenzione il dato che nei racconti scritti da una donna si incontrino così poche protagoniste femminili: in tutto il volume sono solo tre, ma è proprio una di loro a spiccare e rimanere impressa nella memoria del lettore. A Jiu fa la sua prima apparizione tra le pagine di quello che a nostro avviso è il culmine del volume, la novelette L’arpa tra cielo e terra. È la giovane ex compagna del protagonista Chen Jun, con cui si ricongiunge brevemente per portare a termine un contrattacco ai danni delle forze di occupazione extraterrestre, che hanno installato le loro basi sulla faccia nascosta della Luna. Il racconto offre all’autrice l’occasione per rivolgere una critica nemmeno troppo velata all’uso strumentale che dell’arte e della cultura spesso intende fare il potere, in Cina come altrove. I metalieni, la cui descrizione fisica richiama i Cylon di Battlestar Galactica, si dimostrano infatti insolitamente interessati all’arte terrestre: risparmiano le città storiche, che diventano rifugio per gli esodati dalle campagne; rispettano ogni forma di creatività, dalla musica alla scienza; e reclutano scienziati e artisti tra le loro file.

Hao Jingfang.

Le linee della resistenza si assottigliano man mano che le speranze di vittoria si esauriscono, ma Chen Jun, il maestro Lin e il dottor Qi Yue ordiscono un piano per rivoltare la natura contro di loro. È un piano folle, che però permette a Chen Jun di ritrovare A Jiu che anni prima, poco dopo il loro matrimonio, si è trasferita a Londra per perfezionare i suoi studi musicali. In un epilogo tragico, che richiama ancora una volta nelle invenzioni di ingegneria planetaria e negli scenari maestosi gli insegnamenti di Kim Stanley Robinson, A Jiu si prenderà la scena per reclamare l’indipendenza dell’arte da ogni controllo esterno.
Le sue motivazioni diventano più chiare nel successivo Al centro della Prosperità, di cui è protagonista assoluta e che va a comporre con il precedente un dittico di singolare efficacia. Attraverso la sua storia, Hao Jingfang sembra rivendicare la necessaria libertà per ogni forma di creatività, non ultima la scrittura, oggetto – soprattutto se rivolta al futuro – di un’attenzione sempre più stretta nel suo paese (Davies, 2020).

Letture
  • James G. Ballard, Tutti i racconti vol. 1 (1956-1962), Fanucci, Roma, 2011.
  • Valeria Barbera, Cogito Ergo Sum, in Franco Forte (a cura di), Distòpia, Mondadori, Milano, 2020.
  • John Brunner, Tutti a Zanzibar, Mondadori, Milano, 2008.
  • Liu Cixin, Il problema dei tre corpi, Mondadori, Milano, 2017.
  • Linda De Santi, Negli occhi di chi comanda, in Franco Forte (a cura di), Distòpia, Mondadori, Milano, 2020.
  • Rebecca Davies, China Issues Guidelines on Developing a Sci-Fi Film Sector, Variety, 17 agosto 2020.
  • Harry Harrison, Largo! Largo!, Mondadori, Milano, 2007.
  • Kim Stanley Robinson, I marziani, Fanucci, Roma, 2020.
  • Silvio Sosio, La Pechino pieghevole di Hao Jingfang, fantascienza.com, 8 luglio 2020.
Visioni
  • Neill Blomkamp, Elysium, Universal, 2013 (home video).
  • Charlie Brooker, Black Mirror, Endemol, 2011-in produzione (Netflix).
  • Ron Moore, David Eick, Battlestar Galactica, NBC Universal Television Studio, 2004-2009 (Amazon Prime).
  • Alex Proyas, Dark City, Warner Home Video, 2012 (home video).