Gli affluenti del fiume
che bagna Santa María

Juan Carlos Onetti
Triste come lei
Traduzione di Angelo Morino
Sur, Roma, 2017
pp. 349, € 16,00

Juan Carlos Onetti
Triste come lei
Traduzione di Angelo Morino
Sur, Roma, 2017
pp. 349, € 16,00


Dobbiamo a Roger Caillois una paradossale denuncia dei crimini imputabili al mestiere di scrivere, quando in un’intervista ebbe a dichiarare: “Detesto gli specchi che moltiplicano l’immagine, detesto la procreazione e i romanzieri che aggiungono creature a un mondo già troppo popolato. E si constata che la scrittura è il veicolo privilegiato di questa moltiplicazione dei mondi” (Caillois, 1980). Sentenza iperbolica, se pensiamo che tra le invenzioni di Caillois c’è quella di Jorge Luis Borges, come lo stesso argentino sostenne anch’egli in un’intervista. Non deve meravigliare, dunque che, a sua volta, in una sua invenzione, Borges emise un’analoga sentenza, benché più circoscritta: “Gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini” (Borges, 2016). In questo gioco che è proprio dello specchio, ovvero della letteratura, appare l’immagine di uno degli scrittori detestabili, abominevoli per eccellenza: Juan Carlos Onetti.
È a lui che dobbiamo le cronache di quella piccola umanità quotidianamente sconfitta che abita l’immaginaria città di Santa María, ciclo a cui sono riconducibili anche buona parte dei suoi racconti.

Un florilegio arrivò in Italia nel 1981, quando Einaudi pubblicò l’antologia Triste come lei nella traduzione di Angelo Morino, e in questa versione ritorna nell’edizione Sur. Storie che risvelano l’invisibile quanto invincibile coerenza della scrittura onettiana. Sì, perché c’è un medesimo procedimento nell’immaginare un’altra vita, che origina nuove vite, che a loro volta ne generano altre, le moltiplicano: come fa Juan María Brausen, il protagonista assoluto de La vita breve (1950), la genesi del ciclo. Oppure altre possibili vite per sé stessi, o quantomeno dei suoi frammenti: come fa Baldo, il protagonista del racconto Il possibile Baldo, in una sera che muore veloce in compagnia di una donna incontrata per caso. Il possibile Baldo è un racconto del 1936, quando il grande progetto del ciclo di Santa María non ha ancora visto la luce, ma il suo seme è già vitale, perché le vite possibili che il protagonista si fabbrica a uso e consumo della sua occasionale compagna anticipano il sorgere delle esistenze che abiteranno la futura città immaginaria. Non solo, ma lo stesso Brausen, prima di edificarla, abbozza un’altra vita, breve seppur di maggior durata e consistenza di quelle a cui accenna appena Baldo: quella del suo doppio Arce. La losca storia con la prostituta dell’appartamento affianco al suo sarà poi risucchiata nel vortice della creazione/edificazione della città e dei suoi abitanti, rimanendo allo stadio di prova generale, di interludio, prima di sparire tra le strade di Santa María.

Antecedenti, premonizioni ed eccezioni
Anche altri personaggi di Onetti, tra quelli non residenti a Santa María, sono dei piccoli fabbricanti di universi, dei Brausen in sedicesimo. Lo è Bob (il racconto è Benvenuto, Bob, 1945), prima che passasse a farsi chiamare Roberto, l’architetto che voleva costruire una città infinita “di accecante bellezza, per cinque milioni di abitanti, lungo la sponda del fiume” (come Santa María); ma anche la donna che vuole portare a teatro il suo sogno e così ne immagina la scenografia: “Sulla scena ci sono case e marciapiedi, ma tutto confuso, come se si trattasse di una città e avessero ammucchiata tutta quella roba per dare un’impressione di grande città” (Un sogno realizzato, 1941). Una descrizione che ha tutta l’aria di uno schizzo confuso che lo stesso Onetti si appunta in vista dell’edificazione qualche anno dopo di Santa María, anticipando come procederà Brausen quando inizierà a disegnare la città. In totale sono otto i racconti di questa raccolta che non rientrano nel ciclo santamariano: di questi, uno soltanto è successivo al suo apparire, alla pubblicazione de La vita breve. Si tratta di Il volto della disgrazia (1960), storia che potrebbe sottotitolarsi La morte e la fanciulla, come il celebre quartetto di Franz Schubert. Protagonisti un uomo e il suo senso di colpa per non aver saputo evitare il suicidio del fratello, un peso che lo opprime e lo schiaccia. Quasi epifanico gli apparirà l’amore, nelle vesti di una quindicenne. Il tragico epilogo è preceduto da una sorta di sospensione narrativa che ricorda la celebre pagina bianca di Le voyeur (1955) di Alain Robbe-Grillet: spazio vuoto, abbacinante come la morte, anche in quel caso di un’adolescente. Sempre per un gioco di specchi, anni dopo Onetti scriverà il breve romanzo dal titolo La muerte y la niña (1973) mai tradotto in italiano, dove si opererà anche un’ulteriore passaggio di stato di Brausen: nato personaggio, diventato fondatore, qui sarà definitivamente deificato.

La città dei destini incrociati
Nelle storie restanti, ogni singola vicenda avviene a Santa María, dove la convenzionale successione del tempo non esiste, soppiantata tirannicamente da molti presenti, da un presente plurale, in cui si avvicendano stanche esistenze tra disfatte e fallimenti (quasi impossibile trovare storie sull’estinzione dell’amore più inesorabilmente veritiere di Triste come lei, 1963). Più ombre che persone, esseri fatti a immagine e somiglianza del dio creatore Brausen abitano Santa María, dove inventano, mentono, narrano vicende, anche se “i fatti nudi e crudi non significano niente. L’importante è quello che contengono o quello che comportano; e poi constatare cosa c’è dietro una cosa e dietro ancora sino al fondo definitivo che non raggiungeremo mai”, si precisa in Matías il telegrafista (1970). Più che altro i vari testimoni (che con abile trucco passano ripetutamente dall’io all’egli e al noi) ai fatti vi alludono e, in un’alternanza che smarrisce, lasciano che parli il silenzio, il regno dell’interpretazione assoluta, nei medesimi anni in cui Cage, con elegante sincronicità, fece ascoltare l’assenza di suoni nello scandaloso 4’33” (1952).
Nelle storie onettiane si è sempre equidistanti da un centro che non c’è, che è assente: appare generoso Onetti con i suoi cantastorie, gli concede sempre l’illusione di presenziare agli avvenimenti, vicini quanto basta per essere almeno in grado di riferire, di riportare, di scrutare nel cuore del mistero della loro e dell’altrui esistenza. A tratti, come lampi, baluginano attimi di consapevolezza, un vano sapere di non esser altro che prole di un dio ormai dimentico di loro, che si limita a osservarli dall’alto del monumento che la città gli ha eretto e che addirittura riceve omaggi: come quello floreale da parte di van Oppen e il principe Orsini appena giunti in città, deponendo “una coroncina, tra lazzi di bimbi e qualche sassata, ai piedi del monumento a Brausen”. Il racconto è Jacob e l’altro (1961) e la strana coppia di forestieri è composta da un gigante tedesco (von Jacob), di mestiere lottatore, e il suo manager (Orsini), che organizza gli incontri. A Santa María, i due giungono per un incontro che appare perso in partenza e la cronaca del combattimento prende il via dalla sua conclusione, affidata come spesso accade al dottore Grey, e viene ricostruita a mo’ di flashback. Vite miserabili che s’intrecciano come i corpi dei due combattenti sul ring: questo è il palcoscenico chiamato Santa María, il negativo dell’Eden, dove tutto sorge già macchiato dalla colpa e dal peccato.

Il demiurgo Onetti-Brausen tira sempre le fila dietro le quinte di questo teatro. È onnisciente: non a caso anticipa nascita e morte di Santa María in un racconto precedente di un anno l’uscita de La vita breve, un probabile capitolo espunto dal romanzo ed esiliato a vita propria. Protagonista è il dottor Díaz Grey, il testimone privilegiato delle miserie santamariane, confinato ai margini della città in compagnia di una donna, amante del collega Quinteros, e di un demente piromane, lo stesso che anni dopo nel romanzo Lasciamo che parli il vento (1979) darà fuoco e distruggerà la creazione del Dio Brausen. Tutto già scritto, premeditato, perché “la prima parte memorabile della storia annunciava quanto,  con varianti diverse, era poi successo […] anche il rogo finale” (La casa nella sabbia, 1949). A Lasciamo che parli il vento si ricollega direttamente, quasi un capitolo lasciato libero di esistere a sé stante, anche un altro racconto qui incluso, Giusto il trentuno (1964), dove ad andare in scena sono il commissario Medina, una donna di nome Freida e le sordide amanti di lei. Medina diventerà il protagonista principale del romanzo che chiude tra le fiamme la saga di Santa María, Medina che appare qui nell’ultimo dei racconti antologizzati, Il cane avrà il suo giorno (1974), dove si ritrova a indagare sul facoltoso Petrus, vecchio proprietario del cantiere dell’omonimo romanzo e che Larsen, detto Raccattacadaveri, proverà (fallendo) a far risorgere, così come il bordello creato e chiuso nel romanzo Raccattacadaveri. Al margine de Il cantiere, comprimario tra gli altri, appare anche Medina… la vita è ripetizione, l’inferno è ripetizione, la ripetizione è racconto.

Letture
  • Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi, Milano, 2016.
  • Roger Caillois, Intervista a Roger Caillois, di Héctor Bianciotti e Jean-Paul Enthoven, in Il fiume Alfeo, Sellerio, Palermo, 1980.