Da un tempo imprecisato, Giovanna Rivero tiene una sorta di taccuino chiamato “mi diario de Frankenstein”. Ce lo confidano le note biografiche presenti sul suo sito. Lei è nata nel 1972 a Santa Cruz de la Sierra nella parte orientale della Bolivia, quella non andina ma tropicale. In quel decennio la parola utopia pulsava come un sole spudorato, precisano le medesime note. Oggi Giovanna Rivero vive negli Stati Uniti e di mestiere scrive storie ai confini delle realtà.
Un florilegio in lingua italiana, Ricomporre amorevoli scheletri, è arrivato grazie a un editore, Gran Vía, che ha già in catalogo altre voci boliviane contemporanee, come Liliana Colanzi e altri (Edmundo Paz Soldán, Rodrigo Hasbún, Wilmer Urrelo Zárate, per esempio) antologizzati nel volume Calles. Tredici racconti dalla Bolivia, dove ha fatto capolino per la prima volta anche la stessa Rivero. Quindici racconti la cui traduzione è frutto del lavoro di altrettanti allievi al laboratorio “Tradurre la narrativa breve”, organizzato dall’editore e diretto da Matteo Lefèvre, al quale si devono anche la selezione dei racconti e la revisione delle traduzioni.
Autrice di diverse raccolte di racconti, Rivero si rivela una lettura irrinunciabile, forte di una scrittura abissale, a tratti vertiginosa, luccicante come un bisturi, una prosa nella quale si precipita in caduta libera tra finzioni e visioni dove risplendono tutte le sfumature dell’oscurità. Prosa impreziosita da ibridazioni calibrate tra vocaboli aymara (la lingua nativa della popolazione di un’estesa regione dell’altopiano andino che comprende parte della Bolivia, il sud del Perù e il nord del Cile), espressioni gergali, altre lingue, localismi, una lingua un po’ giungla, ricca di omissioni, di non detto, di pause che donano un’elegante musicalità. Una parola/corpo che insegue (im)possibili ricomposizioni, come accennato anche nel titolo endecasillabo scelto per questa antologia italiana, prelevato da un passaggio del racconto I due nomi di Saulo:
“non ha la minima idea di quanto cazzo sia difficile raccogliere tutte quelle schegge e incollarle con la saliva, ricomporre un amorevole scheletro che possa sostenere questa cosa che chiamiamo vita”.
Scrittura che si incide nel corpo, come esplicitato dalla macchina celibe all’opera ne La colonia penale di Franz Kafka; scrittura che dal corpo si genera o meglio dai suoi pezzi, perché tali paiono le storie di Giovanna Rivero, un manuale di anatomia immaginaria, che rimessi assieme danno vita a un corpo narrativo assai simile a quello della creatura di Frankenstein e allora si intuisce il perché di quel taccuino. L’anatomia di Giovanna Rivero cataloga gambe amputate (L’Uomo della Gamba), acne (eccesso di corpo e mente) e anche un pezzo d’orecchio morsicato nel citato I due nomi di Saulo, oppure un dentino (Yucu, disincantata variante del tema vampiro), liquido seminale, feti, masse tumorali, eccessi frutto di mutazioni (quattro braccia, due vagine); oppure c’è il corpo di Coronado (Pesce, tartaruga, avvoltoio), prima il solo “occhio tiepido, umido e molle come un uovo” mangiato dagli avvoltoi chiamati “grifoni”, poi tutto il resto, pasto ferale del suo compagno di naufragio, Amador, costretto all’antropofagia per poter sopravvivere. Infine ci sono interi corpi fatti a pezzi, quello di Fabio destinato a essere dilaniato dagli squali (Dentro), quello di tale Greg (Viaggio a Broadway) ridotto
“a pezzetti nella zona industriale di Tepito. Quando Maga mi descrisse con eccesso di dettagli la consistenza alla Frankenstein che aveva assunto la massa corporea di quel Greg, giurai di rinunciare alla nostalgia per il pâté che la mia nonnina preparava con tanta cura, mettendo anima, vita e cuore sul tasto on del frullatore National, l’unica marca della quale nonna si dava”.
Corpo come dispositivo narrativo, dunque. I racconti di Giovanna Rivero sezionano e riassemblano generi letterari opportunamente ibridati, favole nere, atmosfere gotiche, il realismo anche macabro della carne in putrefazione, scenari fantascientifici, ambientazioni mistiche e futuristiche, territori ideali per fantasmi, zombi, vampiri, cannibali, semidei andini e astronauti scollati dalla realtà di ballardiana memoria. Delirio e follia (Margarita dell’omonimo racconto segnata dai tanti elettroshock, il fratello folle della protagonista ne I due nomi di Saulo) si susseguono in queste storie, avvolgendo il lettore in un’atmosfera oscura e affascinante e che paiono riverberare una riflessione dell’anatomopatologo Francisco González-Crussí:
“Il corpo non è una macchina. A differenza di quella, possiede una capacità immaginifica che costantemente lo soffonde al pari di un inestinguibile alone, cosicché il lato fantastico rispunta ostinatamente fuori a dispetto di ogni sforzo per sopprimerlo”
(González-Crussí, 2014).
Il mondo di Giovanna Rivero si estende tra il passato mitologico (delle favole, del meraviglioso della cultura precolombiana, senza cedere a facili esotismi) e il futuro (distopico e ucronico) della fantascienza. Due racconti qui inclusi, Passò come uno spirito e Ritorno, si inoltrano in un futuro antico, operando una raffinata variante latinoamericana dell’afrofuturismo. Cronache frammentate di un impero andino che punta alla conquista del cosmo, sullo sfondo di un rituale intriso di panteismo e abitato da mutanti all’ombra dell’inquietante Evo, mostro putrescente, ologramma e spirito reincarnato in egual misura.
Non è tutto. In questi racconti ci sono infanzie perdute, maternità recise o inseguite (la protagonista de L’Uomo della Gamba si inietta disperatamente ormoni, cercando di salvare il suo matrimonio), molti personaggi e voci infantili che guardano il mondo con crudele maturità come la protagonista di Cagne e soldatini:
“Nel mio caso, era terribile avere nove anni ed era sempre più difficile continuare a fingere, continuare a mentire a tutti sulla mia fragile bontà”.
Ci sono ragazze dall’immaginazione vivace e soprattutto c’è ovunque un disperato bisogno d’amore, perché tra gli organi non poteva mancare il cuore. Sororale, materno, filiale, di coppia, l’amore, cupo, tragico, doloroso, attraversa ogni narrazione come se queste storie fossero attraversate da vasi comunicanti. Il cuore è il fantasma che abita queste storie, le agita senza il soccorso di facili sentimentalismi, un cuore ridotto quasi sempre in frantumi e come scrisse John Donne “codesti brandelli di cuore / san sentire / sognare / adorare” (in González-Crussí, cit.).
- Autori vari, Tredici racconti dalla Bolivia, Gran Vía, Narni, 2018.
- Francisco González-Crussí, Organi vitali, Adelphi, Milano, 2014.