Immortalità diabolica:
l’inossidabile mito faustiano

Paolo Scarpi (a cura di)
Faust. Dalla leggenda al mito
Marsilio, Venezia, 2021

pp. 568, € 18,00

Paolo Scarpi (a cura di)
Faust. Dalla leggenda al mito
Marsilio, Venezia, 2021

pp. 568, € 18,00


L’impotenza ad afferrare il senso del proprio relegamento genera quel sentimento crepuscolare di nostalgia per la luce che si estingue. È il sentimento dell’Occidente, con il suo eroe, il Dottor Faust. Il senso di essere sopraffatto dalla non-luce, dalla tenebra del mondo separato, allorché non ci si rende conto che un’esperienza del genere è possibile solo mediante un organo di luce, cioè il pensare, era quanto asseriva Pio Filippani-Ronconi, un maestro delle discipline orientalistiche (cfr. Filippani-Ronconi, 2014); sulla stessa frequenza erano anche le riflessioni di Gilles Quispel, magister gnosticus e amico di Carl Jung, che parlava di Faust come simbolo dell’uomo occidentale (cfr. Quispel, 1975). Non a caso, è cronaca di tutti i giorni, verifichiamo quanto vera sia tale affermazione. Paolo Scarpi ha riprovato ad antologizzare tale anomalia. Una silloge di testi sulle origini e lo sviluppo del mito faustiano.
La conoscenza è come la passione, si alimenta di rotture e distruzioni, perché nasce da un’assenza, anela a colmare un vuoto, produce illusioni brevi, ma intense. Per questo uomini e donne la cercano di continuo. Senza di essa la vita appare piatta, senza senso. La donna ultima è la donna impossibile: la donna del nostro desiderio, ma anche della nostra nostalgia; nostalgia di uno stato unico, irripetibile, confusionale; come quando eravamo bambini nelle braccia della mamma.

Anche in musica il mito faustiano è stato rielaborato a più riprese, dall’oratorio profano di Robert Schumann, Szenen aus Goethes Faust, a La damnation de Faust di Hector Berlioz per coro e orchestra e in campo operistico, il Faust di Louis Spohr e quello più celebre di Charles Gounod. Le immagini a corredo di questo articolo sono tratte proprio da una recente edizione (2017) dell’opera di Gounod messa in scena dal Teatro d’opera di San Pietroburgo diretto da Maxim Valkov con la regia di Yuri Alexandrov.

Tale è ciò che motiva l’agire del Dottor Faust, e Christopher Marlowe (1564-1593) con la sua Tragica storia del dottor Faust, pubblicata undici anni dopo la morte dell’autore e più di dodici anni dalla prima rappresentazione teatrale, ne è il primo grande divulgatore. Il mito creatosi sul dottor Faust, personaggio storico, umanista e mago, medico e alchimista, avventuriero e philosophus philosophorum, nato, pare, a Knittlingen nel Wurttenberg verso il 1480, ha una anagrafe letteraria nel Das Faustbuch, cioè la Historia von D. Johann Fausten pubblicata a Francoforte nel 1587 dallo stampatore Johann Spies. Marlowe vi si riferisce come a una fonte, e dal Faustbuch, attraverso la sua opera, derivano l’ispirazione e le suggestioni di Goethe. La fonte principale di Marlowe, The History of the Damnable Life, and Deserved Death of Doctor John Faustus, pubblicata nel 1592, precisa le intenzioni del mago dannato nel circuire la bellissima Elena, da lui recentemente evocata:

Rendimi immortale con un bacio, Elena. Mi sugge l’anima quel bacio e vola via: guardala! Vieni Elena, restituiscimi l’anima. Qui vivrò, perché il cielo è in queste labbra…
(William Rose).

Dietro questo celebrato momento di estasi erotica si celano le probabili origini del mito di Faust: l’Elena evocata da Faust rammenta un’altra Elena inseguita da un Mago di nome Simone, il Padre di tutte le eresie, gnostiche precisa la tradizione (cfr. Rudolph, 2000). Nato in Samaria, Simone ebbe un’esistenza movimentata e colma d’avventure, dove la realtà si confonde con la fantasia. Gli Atti degli Apostoli sono decisi nel condannare Simone come un mago: egli avrebbe tentato di corrompere l’apostolo Pietro offrendo del denaro, per poter ottenere in cambio la facoltà di imporre le mani e compiere guarigioni. Cacciato dalla cerchia dei fedelissimi di Gesù, si diede alla macchia, cercando posti dove insegnare una dottrina in cui vi sono già numerose idee gnostiche. Simone non era solo, gli eresiologici dicono che si faceva accompagnare da una donna, una prostituta bellissima chiamata Elena, che aveva trovato e liberato da un bordello di Tiro e di cui aveva fatto la sua musa.
Secondo Simon Mago, Elena/Ennoia, entità divina e Madre del tutto, creò gli Angeli o Arconti di questo mondo; essi ordinarono il cosmo, nel quale Ennoia trasmigrò da un involucro femminile all’altro sino a manifestarsi in Elena. Ella riassume dunque in sé una lunga stirpe di donne, a cominciare da Elena di Troia, simbolo dell’anima prigioniera nella materia.  La rappresentazione di Elena quale prostituta è intesa a mostrare sino a quale abissalità il principio divino è caduto dopo essere stato coinvolto nella creazione.

Le fonti eresiologiche, ovviamente parziali, non tracciano un ritratto molto simpatico del personaggio e delle sue imprese: l’uso libero del sesso, chiamato amore perfetto e santo dei santi, e la pratica di riti magici e incantesimi, fa di Simone l’archetipo del mago, e se a ciò aggiungiamo che giunto a Roma si facesse chiamare Faustus, il Fortunato, abbiamo tutti gli elementi per pensare a lui come una delle fonti della leggenda di Faust (cfr. Albrile, 2018). Sicuramente pochi dei lettori di Marlowe e di Goethe hanno avuto sentore che il loro eroe era il maestro di una cerchia gnostica e che la bella Elena evocata dalle sue arti era stata un tempo il Pensiero (Ennoia) di Dio, caduto e risorto, per mezzo del quale l’umanità doveva essere salvata.
Parlando di Faust e del tempo in cui si è andato canonizzando il suo mito, non si può non far riferimento al mondo della magia e ai suoi legami con gli ambienti delle prime università, sostanzialmente rette e frequentate da religiosi. Senza Mefistofele – oppure senza la sua versione femminile di cui parla Paolo Scarpi nell’introduzione all’antologia ‒ non ci sarebbe il Faust, e forse manco l’epica moderna: un intero genere letterario diviene possibile poiché Goethe ha trovato il personaggio capace di sorreggerne la costruzione. Eppure, quel personaggio non era stato affatto creato per svolgere quella funzione. Le modalità in cui Mefistofele si manifesta, sono quelle usuali dell’esorcismo e della evocazione demonica; il rito di Faust è un classico rituale negromantico.

Joris-Karl Huysmans nel suo celebre Là-bas (1891) mostrava la continuità nel tempo di una tradizione, quella del patto diabolico e di Faust, che diparte dalle vicende di san Teofilo, noto anche come san Teofilo il Penitente (ca. 538), un arcidiacono di Adana in Cilicia (attuale Turchia) che, eletto vescovo, per umiltà rifiutò il prestigioso incarico. Logicamente un altro venne scelto al suo posto, e quando il nuovo vescovo assunse il potere, subito e ingiustamente privò Teofilo della sua posizione nella gerarchia ecclesiastica. Pentitosi della propria, finta, umiltà e avvicinato un mago e negromante ebreo, stipulò un patto col demonio per riavere la carica di vescovo. Il patto venne messo per iscritto e firmato di suo pugno. Ben presto l’errore gli apparve in tutta la sua nefandezza e cominciò a implorare la Vergine Maria affinché accorresse in suo soccorso digiunando per quaranta giorni.
Pentito e perdonato, Teofilo morì tre giorni dopo aver ricevuto la santa comunione nella chiesa della Madonna, e dopo aver distribuito tutti i suoi averi ai poveri, felice di essersi liberato dal giogo del patto diabolico. Presunto testimone oculare dei fatti fu un certo Eutichiano, che mise per iscritto il tutto in una sorta di feuilleton dell’epoca, in seguito tradotta dall’originale greco in latino da Paolo Diacono verso l’anno 876. Fondamentale nella trasmissione della Storia di san Teofilo il Penitente è un agiografo bizantino, Simeone Metafraste, autore di un Menologio, un calendario liturgico (in J. P. Migne, Patrologia Graeca, Parigi 1856 segg., vol. CXIV) in cui la Storia venne ripresa e ampliata; attraverso il Menologio, la narrazione passò nelle innumerevoli raccolte medievali di exempla, ripetuta in versi e in prosa nelle varie lingue e nelle forme plastiche e pittoriche dell’arte. La troviamo così inclusa da Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum maius e da Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, e quindi ripresa e trattata prima in un poemetto mediolatino dalla monaca Rosvita (Hrotsvith von Gandersheim, ca. 935-973), la Lapsus et conversio Theophili vicedomini, ed elaborata da Rutebeuf in un dramma liturgico scritto in antico francese e messo in scena nel settembre del 1263 (o del 1264), Le miracle de Théophìle: il pio Teofilo, colmo di rancore per il torto subito, si reca dal mago ebreo Salatino e con il suo aiuto conclude un patto col maligno (qui chiamato Cahu). Dopo aver recuperato ricchezze e onori, e compiuto ogni sorta di malvagità, il nostro si pente aiutato dalla Madonna. Ovviamente tutto va per il meglio e la morte sigillerà la ritornata fede (cfr. D’Agostino, 2016).

Questa storia, con varianti nella trascrizione, è presente alle origini di molte letterature, da Les Miracles de Nostre-Dame, centoni poetici che decantano i miracoli della Madonna composti dall’abate Gautier de Coincy (1177-1236), ai Milagros de Nuestra Señora (cap. 25, 748-911) del chierico castigliano Gonzalo de Berceo (ca.1197-1264), al Militarius di Godefridus Thenensis, alle Cántigas de Santa María, canzoni monofoniche del XIII sec. in onore della Vergine Maria e dei suoi miracoli raccolte in un codice musicale per il Re castigliano Alfonso X detto el Sabio (1221-1284). Dante stesso sembra offrire una allusione a questa tradizione nella “lagrimetta” di Bonconte da Montefeltro (Purg. 5, 85-129); pentitosi dei propri peccati poco prima della morte e pronunciato il nome della Vergine Maria, l’anima di Bonconte viene subito contesa da un angelo e da un diavolo: il diavolo cede, ma per vendetta scatena una terribile tempesta che ingrossa il corso dei fiumi, per cui le acque ne trascinano via il corpo disperdendolo.
Attraverso la poetica di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) la storia di Teofilo si unisce a quella di san Cipriano nel dramma in tre atti El màgico prodigioso, composto per le feste del Corpus Christi a Yepes di Toledo nel 1637 e ripubblicato in seconda redazione a Madrid nel 1663. La narrazione si configura sulla vicenda di Cipriano e della lotta con il demonio che gli vuole carpire l’anima. Un’opera che entusiasmò Goethe e Schlegel e tutta la pletora dei romantici, che quei miti e quelle leggende medievali circa la vita futura e le relazioni dell’uomo con l’Aldilà riscoprirono, spogliandoli della pia credulità propria del tempo medievale, accogliendoli come fonte simbolica di ispirazione letteraria. L’aspetto teologico declinerà in una umanizzazione del sovrannaturale e in una riscrittura fantastica d’ogni realtà religiosa, nasceranno così i romanzi neri: Il diavolo zoppo di Alain-René Lesage (1707), Il diavolo innamorato di Jacques Cazotte (1772), Scelta dalle carte del diavolo di Jean Paul (1787), Il Monaco di Matthew Gregory Lewis (1796), Melmoth l’errante di Charles Robert Maturin (1820), Le memorie del diavolo di Frédéric Soulié (1838). Non stiamo a dilungarci sulle origini mitiche della letteratura cosiddetta gotica, ma l’innesto della leggenda medievale nell’universo letterario merita una particolare considerazione. Si tratta del contratto o patto col diavolo, che furoreggia nel El esclavo del demonio (1612) del drammaturgo e poeta ispanico Antonio Mira de Amescua (1577-1644), un canovaccio teatrale dimenticato a favore del Faust di Marlowe.

Vita, gesta e viaggio all’inferno di J. Faust è ancora il titolo di un romanzo di Friedrich Maximilian von Klinger (1752-1831), che lo diede alle stampe nel 1791. Con diverse modulazioni e motivi il mito di Faust venne rielaborato da Alexander Puškin, dal drammaturgo e commediografo Christian Dietrich Grabbe (1801-1836) nel suo Don Giovanni e Faust (1829) e dal poeta austriaco Nicolaus Lenau (1802-1850) in una personale riscrittura pubblicata nel 1836. Sono alcuni dei numerosi autori ispirati dal mito del mago e del patto diabolico; sporadicamente s’intravedono gli elementi ermetici e gnostici che ne hanno segnato le origini: il filosofo mago è ora il simbolo della tracotanza dell’uomo contemporaneo ribelle verso un Dio ormai lontano.
Thomas Mann nel 1947 pubblica il suo Doctor Faustus, la vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn, narrata dall’amico Serenus Zeitblom, un romanzo basato in gran parte sulla biografia di Nietzsche e sull’evento Nietzsche nella cultura europea più in generale. Adrian Leverkühn è un giovane tedesco di famiglia agiata, il quale, terminati gli studi superiori, si iscrive alla facoltà di teologia. Serenus Zeitblom, alter-ego di Thomas Mann, narra l’intera vicenda in prima persona e accompagna tacitamente tutte le vicende dell’amico. Entrambi i giovani hanno ricevuto una validissima educazione musicale da parte di un geniale insegnante di musica: costui convince Adrian ad abbandonare gli studi teologici per dedicarsi interamente a quest’arte.
Adrian inizia così un lungo e travagliatissimo percorso di compositore, giungendo a toccare vertici mai raggiunti da nessuno, soprattutto innovando e modernizzando l’espressione musicale. Col passare degli anni, comporre diventa per lui sempre più difficile: ogni opera prodotta coincide con un periodo più o meno lungo di malattia e di depressione. Nel frattempo il musicista è sempre più solo, colpito negli affetti più cari: un nipotino, un caro amico, la donna che per la prima volta risveglia in lui l’amore, muoiono o scompaiono dalla sua vita, come se una maledizione gli impedisse di portare a compimento tutto ciò che ha di più caro. Dopo aver scritto la sua opera più importante e innovativa, Adrian raccoglie attorno a sé tutti coloro che in qualche modo gli sono stati vicini, e in un discorso particolarmente difficile, che suscita le reazioni più disparate, confessa di aver stipulato un patto col diavolo, dal quale avrebbe ottenuto la sua arte. Esausto, stramazza poi a terra. Da quel momento la sua esistenza avrà una tragica e definitiva svolta: trascorrerà gli ultimi anni che gli restano in preda alla follia.

Una delle ultime, impensabili, rielaborazioni del mito di Faust sta nel romanzo d’esordio di Chuck Palahniuk, un geniale scrittore statunitense, Fight Club (1996), dal quale è stato tratto anche un omonimo film. Il protagonista della vicenda, mai identificato con un nome proprio, in cerca di un significato alla propria vita, trova un maestro in Tyler Durden, sorta di Mefistofele contemporaneo, un nichilista che predica e auspica la dissoluzione della civiltà. Con tale scopo nasce il Fight Club, un assembramento di emarginati e reietti il cui intendimento è combattere con ogni mezzo violento la società e le sue istituzioni. Il protagonista si vede però sfuggire la situazione di mano, prigioniero di un sistema spietato che lo vede come attore principale: il signor Tyler non esiste, è egli stesso a recitarne la parte nei momenti d’insonnia. Quando verrà a conoscenza della terribile verità cercherà di opporsi e porre rimedio alla temibile ondata di violenza che il suo doppio ha scatenato.
Il tema del doppio, unito alla ricerca di un rinnovato ciclo di esistenza, è stato uno dei prediletti nella ricerca di Mircea Eliade, il grande storico delle religioni a cui si deve la riscoperta del sacro nel mondo contemporaneo. Tali fascinazioni si ritrovano in una delle sue opere più famose, Un’altra giovinezza, la cui trama fa riferimento alle tradizioni culturali e religiose sia dell’Oriente che dell’Occidente, ai poteri dello yoga, come a quelli dell’alchimia. Un romanzo scritto alla fine del 1976, ma pubblicato postumo solo nel 1988, nella traduzione inglese di M. L. Ricketts (Youth Without Youth, in italiano nel 2007), che sembra rappresentare il testamento letterario di una vita. Modellato implicitamente sulle conclusioni del secondo Faust goethiano, dove il sogno giovanile, relativo al potenziamento della specie umana, ritorna ad essere un sogno, il romanzo è diventato un film diretto da Francis Ford Coppola. Il ricordo di una vita trascritta e perduta può generare soltanto il sapere di una nostalgia o di una sospensione immaginativa.
A chiusura di questa rassegna andrebbe anche segnalata l’opera letteraria di uno dei geniali capiscuola della beat generation, William Burroughs (1914-1997), che ha come soggetto centrale il controllo, persecuzione occulta messa in atto da diverse entità e con mezzi specifici per soggiogare l’umanità. Anche nella vicenda di Faust le finalità espresse dal mito sono il controllo della mente e dell’agire umani.

Seguendo i moduli dell’immaginario postmoderno, i mezzi che Burroughs individua per portare a termine tale compito sono la droga, il sesso e la parola, pienamente rappresentati dalla cosiddetta trilogia Nova: La macchina morbida (The Soft Machine, 1961), Il biglietto che esplose (The Ticket That Exploded, 1962) e Nova Express (1964). Il protagonista della trilogia è William Lee (in realtà ipostasi di Burroughs), la cui missione è quella di liberare dal controllo il pianeta, ed eliminare la dipendenza e l’assuefazione, cioè qualsiasi cosa che renda schiavi: il sesso, la droga, la pubblicità. Per aprire gli occhi ai suoi lettori, lo scrittore prima evidenzia le tecniche dei controllori – i Mefistofele dei miti faustiani – poi propone una serie di strumenti di ribellione. Il controllo dell’individuo è limitazione, dipendenza e assuefazione; è l’esercizio di qualsiasi cosa che renda schiavi in situazioni da ripetersi all’infinito, grazie a tutte le forme possibili dell’assoggettamento, in primis la tossicomania, poi la sessualità e infine il linguaggio dei media.
La sessualità che Burroughs descrive è affine a quella ricercata da Faust nel suo patto nefando: una serie di coiti infiniti, occasionali e senza alcuna partecipazione emozionale. È una pratica meccanica alla quale i protagonisti della trilogia vengono sottoposti, siano nella giungla messicana, siano sul pianeta Venere. Per Burroughs la parola è una malattia. Nella finzione narrativa, tale virus durante la preistoria ha colpito la gola delle scimmie e poi è arrivato ai nostri giorni attraverso la filosofia aristotelica, intesa come procedimento di pensiero. Per sopprimere il potere ipnotico delle parole occorre spezzare le frasi: l’idea venne all’amico poeta Brion Gysin, che escogitò il metodo del cut-up, cioè la tecnica del tagliare e incollare testi eterogenei.
Questi ritagli, accidentalmente accoppiati uno all’altro, formavano un testo con un significato completamente nuovo. Il cut-up è l’equivalente di quello che registra il nostro cervello mentre si legge qualcosa, una contemporaneità di eventi e frasi che rende evidenti significati criptati e sconosciuti nei testi originari. Il cut-up non è solo un metodo sperimentale di scrittura ma è uno strumento che Burroughs scopre per eliminare il dualismo, e quindi il complotto contro l’umanità, l’inganno tessuto da Mefistofele.

Letture
  • Ezio Albrile, Il mito gnostico di Faust, in Il labirinto di Ermete. Dilemmi gnostici sulla libertà e la salvezza, Edizioni Ester, Bussoleno (Torino), 2018.
  • Dante Alighieri, La Divina Commedia, Einaudi, Torino, 2021.
  • Mircea Eliade, Un’altra giovinezza, Rizzoli, Milano, 2007.
  • William Burroughs, La macchina morbida, Adelphi, Milano, 2003.
  • William Burroughs, Il biglietto che esplose, Adelphi, Milano, 2009.
  • William Burroughs, Nova express, Adelphi, Milano, 2008.
  • Alfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis, Milano-Udine, 2016.
  • Pio Filippani-Ronconi, Regalità iranica e gnosi ismaelita, a cura di Angelo Iacovella, Irradiazioni, Roma, 2014.
  • Johann Wolfgang Goethe, Faust, Mondadori, Milano, 2007.
  • Joris-Karl Huysmans, L’abisso, Lindau, Torino, 2017.
  • Thomas Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, Mondadori, Milano, 2011.
  • Christopher Marlowe, Il dottor Faust, Mondadori, Milano, 2004.
  • Chuck Palahniuk, Fight club, Mondadori, Milano, 2016.
  • Gilles Quispel, Faust. Symbol of Western Man, in Gnostic Studies, II, Nederlands historisch archaeologisch Institut, Leiden-Istanbul, 1975.
  • Kurt Rudolph, La gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, a cura di Claudio Gianotto, Paideia, Brescia, 2000.
Visioni
  • David Fincher, Fight Club, Medusa Home Video, 2000.
  • Francis Ford Coppola, Un’altra giovinezza, BIM, 2008.