Brevi cenni d’orologi(ca):
dall’adagio al prestissimo

La misura del tempo in altri tempi:
La Dea Temperanza carica l’orologio
da Epître d’Othea
di Cristina da Pizzano
(Biblioteca Bodleiana – Università di Oxford).

La misura del tempo in altri tempi:
La Dea Temperanza carica l’orologio
da Epître d’Othea
di Cristina da Pizzano
(Biblioteca Bodleiana – Università di Oxford).


Nel suo saggio su Le metropoli e la vita dello spirito (1903), Georg Simmel sottolineava come il diffondersi degli orologi da tasca corrispondesse alla necessità, tutta moderna e urbana, di coordinare le attività di un gran numero di persone e di essere veloci e puntuali. Pur nella sua brevità, è un passo importantissimo: in primis perché dà una dimostrazione dell’importanza dei dettagli della vita quotidiana nell’analisi sociale, politica ed economica; in secondo luogo perché, nello specifico, sottolinea come l’orologio sia uno degli oggetti più esemplificativi della modernità, data l’importanza che in essa riveste il rapporto con il tempo, ossia la misurazione del cambiamento, vera essenza della modernità stessa. Alla luce di ciò, può essere utile ripercorrere le principali tappe evolutive dell’orologio per trovare corrispondenze tra le sue caratteristiche e quelle delle diverse epoche storiche.
I primi orologi meccanici risalgono al Medioevo. Come la meridiana, essi fornivano una rappresentazione circolare del tempo, evidentemente ispirata alle traiettorie astrali e ai ritmi della natura, fondamentali per le società prettamente agricole e feudali. Quelli che venivano prodotti, però, erano orologi monumentali: a causa dei limiti tecnici nel miniaturizzare gli ingranaggi, ma anche a causa di una più simbolica venerabilità di un oggetto in grado di misurare lo scorrere del tempo, gli orologi medievali potevano trovare spazio solo su torri e campanili, divenendo punti di riferimento per l’intera comunità con le loro altezze e con i rintocchi delle loro campane. Un solo orologio, dunque, fisso, acustico e posto in alto, per servire un’intera città i cui ritmi erano così lenti da rendere sufficiente questo sistema, almeno fino al XVIII secolo.
La diffusione degli orologi da tasca, come descritto da Simmel, avviene invece nel corso dell’Ottocento, di pari passo con l’avvento della società industriale. L’urbanizzazione e la frenesia della nascente società di massa imponevano che la misurazione del tempo non potesse più essere contemplativa: chi doveva fare qualcosa velocemente, non poteva più permettersi né di andare a guardare la torre della città, che magari si trovava a chilometri di distanza, né di aspettare il suono delle campane.

Il dispositivo allora si moltiplicava, perdendo la sua portata sociale per acquisirne una individuale, si silenziava e, soprattutto, diventava portatile, mantenendo tuttavia una rappresentazione circolare del tempo. L’orologio da tasca, inoltre, diventava uno status symbol, un oggetto in grado di attribuire prestigio al proprietario proprio perché ne ostentava la necessità di controllare il tempo, gli impegni e, in definitiva, il denaro.
Le esigenze, non di meno belliche, della società novecentesca fecero sì che la portabilità del dispositivo divenisse indossabilità.
L’orologio da polso, infatti, nasceva proprio dalla necessità di soldati e aviatori, e successivamente di operai e dirigenti, di dover controllare l’ora anche se impegnati in altre attività. Dopo nemmeno un secolo, la frenesia dei rapporti sociali era tale da non avere nemmeno più il tempo di mettere la mano in tasca per prendere l’orologio.
Inoltre, la continua esposizione dell’orologio derivante dalla sua indossabilità ne rafforzava la portata e il valore simbolico, in accordo al principio spettacolare dell’apparenza che proprio a partire dal dopoguerra andava ad affermarsi massimamente con una costellazione di consumi vistosi. Si tratta, tutto sommato, di un’intensificazione della tendenza precedente, sia rispetto alla necessità di controllare l’orario sempre più spesso, sia rispetto al valore simbolico che ciò comporta per il proprio status. È invece a partire dagli anni Settanta che si verifica, con la nascita dell’orologio digitale, una rivoluzione decisiva: la rappresentazione del tempo non è più circolare e continua, ma lineare e discreta o, meglio, pseudociclica. Il tempo pseudociclico, di cui Guy Debord fornisce un’eccellente illustrazione nel suo La società dello spettacolo (1967), non è né propriamente ciclico come quello derivante dai ritmi della campagna e delle stagioni né puramente lineare, in senso storico, ovvero consapevole e in grado di tendersi al futuro basandosi sul passato.
Il tempo pseudociclico è il tempo per eccellenza della modernità: un eterno presente, che si ripete ogni giorno nei tempi del lavoro e del consumo. Una volta affermatasi la concezione pseudociclica del tempo per via della sua digitalizzazione, ciò a cui si assiste è la disseminazione delle sue rappresentazioni. Ci si può render conto di ciò semplicemente guardandosi intorno e contando gli orologi di cui si dispone. Sono dappertutto: sullo smartphone, sul pc, sul telefono fisso, sulla tv, in auto, generalmente ovunque ci sia uno schermo oppure una fonte audio, come la radio.
L’effetto più rilevante di questa fase riguarda proprio il relativo declino dell’orologio da polso, inteso come dispositivo monofunzionale, a favore di orologi integrati in dispositivi multifunzionali come quelli sopraelencati.

La conseguenza paradossale di tale disseminazione è che essa, per aumentare l’accesso alla misurazione del tempo e dunque la produttività, comporta il rischio di far perdere tempo e diventare improduttivi. È quello che succede quando si prende il cellulare per vedere l’ora, ma si finisce per controllare le notifiche e le chat. Queste merci diventate orologi hanno dunque il compito di dire che ore sono per scandire il loro consumo, piuttosto che quello di misurare il tempo.
Nelle caratteristiche di questa nuova modalità di fruizione disseminata dell’orario si rintracciano alcuni tratti essenziali della nostra società: il consumo ritmico di certe merci, la rilevanza del proprio network affettivo e professionale come risorsa, l’ipertrofia comunicativa di chi non ha nulla da dire, l’indaffaratezza e la precarietà di chi è costretto a fare tanto pur non avendo nulla da fare.
L’ultima frontiera evolutiva dell’orologio a cui dedicare brevemente attenzione riguarda lo smartwatch. Questo dispositivo sembra voler riportare l’orologio da polso ai suoi antichi fasti restituendogli il valore di status symbol intaccato dall’avvento di cellulari e altri dispositivi.
La sua ratio è quella di rendere nuovamente fruibile l’ora in maniera diretta attraverso un dispositivo indossabile. Ma, di nuovo, a ostacolare questo obiettivo è la presenza delle nuove funzioni integrate, che sono poi le stesse di un comune smartphone. Di conseguenza, a farsi portatile e indossabile non è più, come nella metropoli simmeliana, la puntualità e la produttività di chi deve fare tanto e velocemente bensì la spasmodica angoscia di chi deve consumare, distrarsi e, paradossalmente, perder tempo più rapidamente.

Letture
  • Carlo Maria Cipolla, Le macchine del tempo. L’orologio e la società 1300-1700, Bologna, Il Mulino, 1981- 1996.
  • Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2013.
  • Paolo Jedlowski, Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana tra esperienza e routine, Il Mulino, Bologna, 2005.
  • Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999.
  • Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 2011.
  • Immanuel Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste, 2006.