Bianciardi, una trilogia
della rabbia o della vita?


Luciano Bianciardi
(Grosseto, 14 dicembre 1922 –
Milano, 14 novembre 1971)


Luciano Bianciardi
(Grosseto, 14 dicembre 1922 –
Milano, 14 novembre 1971)


In occasione del centenario della nascita di Luciano Bianciardi (1922-1971), arriva una “trilogia della rabbia” che è anche una “trilogia della vita”. Perché questi romanzi (Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra), riuniti in un volume unico, sotto il titolo apputo di Trilogia della rabbia, raccontano anche tre fasi della sua esistenza: ne Il lavoro culturale, le esperienze e le ambizioni di un intellettuale, ex promessa del calcio (abbandonato a malincuore per infortunio), alla ricerca di un ruolo costruttivo nella provincia natia, Grosseto, ribattezzata Kansas City; ne L’integrazione, il trasferimento a Milano per unirsi alla nuova casa editrice appena fondata da Giangiacomo Feltrinelli; e ne La vita agra, il più “cattivo” dei tre romanzi, la dura vita quotidiana a Milano, tra affitti da pagare, lavoro che c’è e non c’è, bohème, traduzioni, incazzature e invettive. Dei tre romanzi, solo il primo, Il lavoro culturale (1957) uscì per Feltrinelli. Gli altri due, L’integrazione (1960) e La vita agra furono pubblicati rispettivamente da Bompiani e Rizzoli nel 1960 e nel 1962. La vita agra, in particolare, rientra in quel genere di narrativa che possiamo definire autobiografico-confessionale: un genere che trova in Henry Miller uno dei maestri del XX secolo, e i suoi due Tropici (Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno) sono anche una delle prime e più note traduzioni di Bianciardi, ancora valida e ripubblicata.

La vita agra non è quindi semplicemente un romanzo: è sfogo di un’anima esaurita dalle “tafanature” dell’esistenza, è pamphlet contro la società dei consumi in pieno boom economico, è diario di un’incazzatura verso una città, Milano, che è “una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro” come scrive lo stesso Bianciardi in una lettera a Mario Terrosi del 4 febbraio 1961. E d’altronde una delle possibili definizioni ce la dà proprio l’autore in La vita agra:

“Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano”.

Se nei primi due romanzi dominano l’ironia e l’umorismo, La vita agra è il vero romanzo della rabbia: una rabbia che lievita in seguita alla strage di Ribolla, un borgo vicino a Grosseto, il 4 maggio 1954, causata da un’esplosione di grisù che uccide 43 minatori. Per descrivere le condizioni e i problemi di questi lavoratori, Bianciardi aveva scritto con Carlo Cassola il libro-inchiesta I minatori della Maremma che uscirà due anni dopo il grave incidente di Ribolla. Inutile dire che Bianciardi è profeta anche in questo: le morti sul lavoro sono infatti diventate di perenne attualità. E sempre a conferma delle virtù quasi divinatorie dello scrittore grossetano ecco un altro brano dal romanzo che sembra aderire perfettamente ai nostri giorni, a testimonianza di come l’Italia è rimasta tale e quale, non è cambiata di un millimetro dal dopoguerra in poi:

“La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fa re agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene”.

Il protagonista de La vita agra va a Milano con l’obiettivo di far saltare il famoso “Torracchione”, allusione alla sede della Montecatini, proprietaria delle miniere a Ribolla, allora in largo Donegani a Milano. Ma il romanzo prende poi un’altra piega: il Torracchione rimane sullo sfondo, e sulla scena si animano i protagonisti, Luciano e Anna, alle prese coi soliti problemi del quotidiano: unire il pranzo con la cena, pagare le bollette, l’affitto, la ricerca spasmodica di lavoro per far quadrare bilanci. Oltretutto, Luciano non deve solo pensare ad Anna, che si rivelerà un’ottima assistente nei lavori di traduzione, ma anche all’altra donna, Mara, lasciata a Grosseto:

“Riuscivamo a fare anche quindici, anche venti cartelle al giorno. Due a Mara, una al padrone di casa, una per luce-gas-telefono-pane e latte, un’altra per le rate dei mobili e dei vestiti, due per il companatico e le sigarette. […] Sono perciò venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci fra luce gas e telefono, e d’inverno anche di più […] venti di rate fra mobili vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per il companatico e gli imprevisti”.

Questa la nervatura narrativa; poi c’è la carne o la polpa, rappresentata dalle considerazioni dell’autore sulla vita metropolitana, sulla Milano dei “baccelloni” e degli ectoplasmi, delle segretarie efficienti ma piatte e tiepide come un piatto scotto, su una città che vive di consumo alienante e alienato, di cui il Bottegone (allusione al primo supermarket moderno) assurge a simbolo. Indubbiamente La vita agra è il romanzo non solo più famoso della trilogia della rabbia (o della vita), ma forse il più riuscito o il migliore, come lo stesso Bianciardi ebbe a dire. E questo anche se chi lo legge per la prima volta può rimanere un po’ frastornato dalle pagine iniziali, nelle quali l’autore si dilunga su questioni storico-etimologiche legate all’origine del termine Braida, antico vocabolo per indicare l’attuale quartiere milanese di Brera. Ma questi sono dettagli e semmai confermano l’atipicità di un romanzo-che-è-più-di-un-romanzo e fuoriesce da ogni classificazione.

La vita agra è oggi più vivo e attuale che mai. Sembra scritto in presa diretta, in uno stile spontaneo e jazzistico sconosciuto alla media dei narratori italiani odierni. La vita agra può essere anche letta come un manifesto dei motivi che spingeranno, qualche anno dopo, la contestazione giovanile. C’è la rabbia, anarchico-socialista, contro il potere disumano dell’industria, l’alienazione, cui è ridotta la folla della metropoli (“non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro…gli ultracorpi, gli ectoplasmi”), la nausea del traffico, la pena per il mondo aziendale, il rifiuto del successo e dell’ambiguo meccanismo della selezione, la contestazione del consumismo (“uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone”) e dei valori della civiltà di massa fino a spingersi sulle spiagge-cast-away di un’utopia felicemente regressiva, di un “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio” dove

“il lavoro si sarà ridotto quasi a zero, vivendo dei frutti spontanei della terra e di pochissima coltivazione. Saremo tutti vegetariani […] Il problema del tempo libero non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero”

[…]

“Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogno nuovi e anzi rinunziare a quelli che ha. La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci”.

E poi troviamo la satira del mondo editoriale, della cultura mercificata. E delusione per la politica dove al rapporto umano è subentrata l’astrazione delle formule di rito. C’è insomma una contestazione globale al sistema e all’uomo integrato al sistema. Ben prima del Sessantotto.

Il “tornado dei Tropici”
Ritorniamo un attimo a Henry Miller perché il rapporto conflittuale/contestatario tra Bianciardi e Milano, o meglio l’Italia del (falso) boom non è molto diverso da quello che Miller nutriva verso gli Stati Uniti (basta rileggere Incubo ad aria condizionata). In un’intervista alla rivista Settimo Giorno (ottobre 1963), Bianciardi precisa che La vita agra fu scritto subito dopo il lavoro di traduzione dei due Tropici:

“Ora, chi esce da un simile tornado stilistico e psicologico non può non risentirne: almeno un raffreddore te lo prendi. Però questo non vuol dire imitare. Ci si dimentica che il protagonista de La vita agra fa di professione il traduttore e che la sua storia è la storia di un uomo ‘tafanato’ dalle cose, dagli eventi e dalle parole. Le influenze, in questo senso, sono moltissime, tanto quanto i libri che il mio personaggio ha tradotti”
(Bianciardi in Serino 2015).

A proposito di influenze milleriane, vale la pena citare alcuni brani da La vita agra che suoneranno molto familiari, come sound, a chi conosce e ama Henry Miller:

“Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza. […] Vi darò la narrativa integrale -ma la definizione, attenti, è provvisoria- dove il narratore è coinvolto nel suo narrare […] Proverò l’impasto linguistico […] Ma anche vi darò il romanzo tradizionale, con tre morti per forza, due gemelli identici e monocoriali e un’agnizione. Il romanzo neocapitalista, neoromantico o neocattolico, a scelta. […] Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera -bianchi e neri- della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”.

Quando ‘volta’ in italiano i due Tropici, Bianciardi era già uscito da Feltrinelli, alla fine del 1957, licenziato per scarsa produttività, perché – per usare un gergo da protocollo – non si adattava alle ristrettezze burocratiche tipiche di un’azienda. Ne La vita agra ne dà una spiegazione più ironica:

“E mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro”.

Vite di redazione
Non che i due romanzi precedenti manchino di pagine epocali. Anzi. Il lavoro culturale pubblicato nel 1957 rievoca l’esperienza giovanile dell’autore nei circoli culturali, i dibattiti in biblioteca, l’organizzazione dei cineclub; è un romanzo di formazione di un giovane intellettuale di provincia con tutte le speranze di chi viveva fra dopoguerra e imminente boom economico. Il secondo, L’integrazione, scritta durante una “vacanza traduttoria” nel 1959, in una decina di giorni, narra con taglio più ironico, quasi umoristico, il lavoro in una casa editrice, non citata espressamente: è però la Feltrinelli, fondata dal ‘Giaguaro’ (così viene soprannominato il boss, Giangiacomo Feltrinelli) alias Zampanò, che aveva già esordito sul mercato editoriale con due mega-successi, il Dottor Zivago (1957) di Boris Pasternak e il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958). Nulla di questo trapela dal romanzo di Bianciardi, le cui pagine migliori descrivono una vita di redazione che sembra più un ufficio fantozziano che un luogo dove si produce cultura. C’è un intero capitolo, il sesto, dedicato al problema delle traduzioni:

“I traduttori, tutti quanti, parevano specializzati in rime. Forse lo facevano apposta, per farci arrabbiare: l’azione della delegazione, l’invito del partito, il bagno nello stagno, Vera era sincera, l’amore del dottore, il gatto di quel matto, il priore di Camaiore, il dente del presidente, orari ed onorari, gelosa e smorfiosa. E poi c’erano le quasi rime, forse peggiori delle rime vere e proprie: in vista della visita, c’è stato un convito, l’acqua e la risacca, l’impegno del compagno. Oppure i frequenti raddoppiamenti: tutta la folla in sommossa, metti quel tappo sul letto, reggi la molla sul sasso, fuggi la rissa Claretta, così via. Non dico poi dei brutti scontri consonantici, sul tipo di tre tremende tribù, dodici dotti dottrinari, aveva avuto l’avvocato, tutto quel tritrì, dodò, vuvuvù”.

Per tutto il capitolo (il sesto) si discute anche su quale tipo di virgolette usare nei discorsi diretti e nelle citazioni all’interno di questi, o se bisogna mettere il punto fermo dopo la virgoletta o alla fine del periodo prima della virgoletta. Un’attività cervellotica, come la mania di classificare gli argomenti e le categorie con schede di vario colore. Insomma, una visione tutt’altro che romantica e avventurosa dell’editoria. Per non parlare dei refusi. Che spesso producono, ancora oggi, parole nuove e non di rado comiche. Ecco un altro brano esilarante:

“Dall’altra stanza veniva la risata di Ardizzone.
«Cosa c’è?»
«Sentite, sentite,» rispondeva lui correndo nella nostra stanza col foglio in mano: «Un mazzo di firoi». E dietro di lui veniva la Marisa, ridendo:
«I firoi, comprate anche a me un mazzo di firoi, per il mio compleanno»”.

Non sfugga la simmetria tra il 6° capitolo de L’integrazione e il 6° de Il lavoro culturale, dove si legge una gustosa parodia del linguaggio intellettuale:

“Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare. Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere”.

Questa vena ironico-didascalica è un tratto distintivo della prosa bianciardiana e la ritroviamo in scritti anche posteriori come gli articoli su come si diventa un intellettuale, raccolti da Neri Pozza nel volume  Non leggete i libri, fateveli raccontare. La trilogia nel suo insieme scandisce un passaggio dall’entusiasmo al disincanto, dalla consapevolezza che l’intellettuale ha anche una missione educativa e politica all’integrazione in un sistema editoriale, che si muove in un contesto socio-economico contraddittorio: tanti libri, ma pochi e sempre meno lettori. Questo tema già compare ben delineato nel Lavoro culturale (1957) dove leggiamo:

“Nell’antichità era il lettore che cerca il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore. In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono. Ogni anno diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, risulterà che abbiamo in Italia un numero altissimo degli scrittori, fra editi e inediti: circa un milione o anche di più. Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti”.

Come scrive giustamente Francesco Piccolo nella prefazione alla Trilogia della rabbia:

“sono tre libri atipici, liberi, disordinati, aperti; sfuggono a definizioni che molti si affaticano a cercare. E questo è il pregio più grande della trilogia: sembrano diari saggistici, romanzi dannati, saggi personali. Sembrano libri improvvisati, che non erano scritti per essere pubblicati; e allo stesso tempo hanno un andamento sicuro e sapiente, un controllo totale del caos che inscenano”
(Piccolo in Bianciardi 2022a).

Sensazioni non diverse si ricavano dalla lettura di molti romanzi di Henry Miller, o meglio Enrico Molinari come lo aveva ribattezzato Luciano Bianciardi. Libri colti e spontanei, vitali e amari, ricchi di spunti come le improvvisazioni nel jazz. Libri che, se scritti oggi, non troverebbero posto negli scaffali delle librerie.

Letture
  • Luciano Bianciardi, Trilogia della rabbia (Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra), prefazione di Francesco Piccolo, Feltrinelli, Milano, 2022a.
  • Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare, introduzione di Pino Corrias, Neri Pozza, Vicenza, 2022b.
  • Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, Milano, 2022.
  • Gaia Manzini, A Milano con Luciano Bianciardi, Giulio Perrone editore, Roma, 2021.
  • Gian Paolo Serino (a cura di), Luciano Bianciardi, il precario esistenziale, Edizioni Clichy, Firenze, 2015.
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