Trasfigurazioni cangianti:
le poesie di Allen Ginsberg

Allen Ginsberg,
Poesie, 1947-1995
a cura di Leopoldo Carra

traduzione di Luca Fontana
Il Saggiatore, Milano, 2019
pp.992, € 60,00

Allen Ginsberg,
Poesie, 1947-1995
a cura di Leopoldo Carra

traduzione di Luca Fontana
Il Saggiatore, Milano, 2019
pp.992, € 60,00


“Quando era più giovane, e io ero più giovane, conoscevo Allen Ginsberg, un giovane poeta che viveva a Paterson, New Jersey, dove, figlio di un ben noto poeta, era nato e cresciuto. Era fisicamente gracile di costituzione e mentalmente molto turbato dalla vita che lo aveva circondato in quei primi anni dopo la prima guerra mondiale quali gli si erano rivelati nella città di New York e dintorni. Era sempre sul punto di «andarsene»: dove, non pareva importargli molto. Mi turbava, non avrei mai pensato che sarebbe vissuto abbastanza da crescere e scrivere un libro di poesie”.
(in Ginsberg, 1992).

Così William Carlos Williams, il grande poeta americano della generazione di Thomas S. Eliot e di Ezra Pound (nato nel 1883, era cinque anni più vecchio del primo, e più o meno coetaneo del secondo), presenta un Ginsberg trentenne, quasi esordiente, nella prefazione (Urlo per Carl Solomon) a Urlo, pubblicato a San Francisco da Lawrence Ferlinghetti nel 1956, un anno dopo la sua prima lettura pubblica. Stranamente, questa breve presentazione non è riportata da Ginsberg nella monumentale antologia (Selected Poems, 1947-1995) che Il Saggiatore propone per la prima volta in Italia, con una nuova traduzione di Luca Fontana: l’opera, di quasi mille pagine, testimonia che il Bardo di Paterson, a dispetto di quanto temeva  William Carlos Williams, è andato ben oltre quel libro incandescente e visionario che è Howl, pubblicando tredici libri, da Specchio Vuoto: Porte dell’Ira (1947-1952) a Cosmopolitan Greetings (1986-1992) e ai New Poems (1992-1995) passando per raccolte fondamentali come The Fall of America (1965-1971), e Plutonian Ode (1977-1980).

A parte la recente pubblicazione delle poesie inedite (2017), sempre per i tipi del Saggiatore, Allen Ginsberg (Newark 1926- New York 1997) era noto in Italia soprattutto per Juke box all’idrogeno, a cura di Fernanda Pivano, uscito in prima edizione nel 1965, che raccoglie Urlo e altre poesie (1956) e Kaddish e altre poesie (1958-1960), i due libri più iconici nella produzione poetica di Ginsberg. Per Guanda erano usciti anche Primi Blues (1978), a cura di Carlo A. Corsi, e Diario Indiano, resoconto del lungo soggiorno a Calcutta e Benares insieme al compagno Peter Orlovsky, tra il 1962 e il 1963. Un’altra antologia, Mantra del Re di Maggio (con tutti i testi di due raccolte degli anni Sessanta: Reality Sandwiches e Planet News) era uscita da Mondadori, con curatela della Pivano, nel 1973, seguita da un’edizione (1981), nello Specchio mondadoriano, della Caduta dell’America, edito in lingua originale nel 1973.
Ha quindi buone ragioni il curatore, Leopoldo Carra, a sottolineare il carattere unico ed esclusivo di questa antologia ginsberghiana:

“È assai probabile che questa antologia resti a tutt’oggi l’unico libro in italiano a documentare, di Ginsberg, anche l’instancabile ricerca sulla parola, sull’elasticità del verso, sulla cantabilità della poesia. Dallo sperimentalismo di «Rizzami la margherita» (1949), divertimento in po’ dadaista, composto a sei mani con Kerouac e Cassady, alla libertà tipografica della «Caduta dell’America» (dove gli spazi bianchi interni al verso e la variabilità dei rientri riproducono l’andamento del respiro), fino all’asciuttezza degli haiku scritti negli anni Ottanta e Novanta («184 sillabe al Rocky Mountain Dharma Center», «Frasi Americane»), il poeta assimila e sviluppa negli anni la lezione dei suoi maestri: le anafore dell’inglese Christopher Smart, autore settecentesco di Jubilate Agno, le rime di Blake, il verso lungo di Blake e di Whitman, l’oggettivismo di William Carlos Williams, Charles Reznikoff, e Carl Rakosi”.

Le ragioni della selezione
È Ginsberg stesso che ha curato la scelta delle poesie (Selected poems 1947-1995), rappresentativa di quasi mezzo secolo di scrittura. Si auspicava di venir letto e considerato senza essere automaticamente associato alla Beat Generation, il più famoso movimento della controcultura americana nel Dopoguerra. Come precisa lo stesso Allen Ginsberg nell’introduzione (Apologia di una scelta), “alcuni scritti inseriti sono esemplari di uno stile o tema come «Paterson» (1949) e «Sul retro del reale» (1954), Poemi maggiori, dal lirico «Urlo» (1956) al narrativo «Kaddish» (1957), hanno il proprio carisma e non c’è bisogno di spiegarne l’inclusione”. I Selected Poems nascono anche dalle hit list stilate dagli amici scrittori (fra i quali Neil Cassady e Jack Kerouac) che fecero lunghi elenchi di poesie tratte dalle varie raccolte di Ginsberg, da First Blues a Collected Poems (1947-1980), da White Shroud a Cosmopolitan Greetings.

Versi per la musica
In questa nuova antologia si trova interamente dispiegata la varietà tematica e tonale della poesia ginsberghiana, con i suoi (aperti) riferimenti politici, devozionali, sessuali, familiari, in un continuo (e di primo acchito stordente) ottovolante tra confessione autobiografica, protesta, cronaca, polemica, rabbia: dalla poesia realistica dove Ginsberg adotta il megafono del bardo contemporaneo per influenzare la coscienza americana verso un risveglio democratico e umanitario, fino alla riscoperta del pensiero orientale attraverso i temi meditativi del Dharma, con la trasformazione della passione in umorismo.

Un altro pregio di questa edizione è la possibilità di misurare l’estrema varietà/versatilità stilistica e formale di Ginsberg, che si esprime tanto nelle colate incandescenti dei versi lunghi e quasi narrativi di Urlo e Kaddish, quanto nelle poesie spesso brevi come haiku, e nelle danzanti strofe a rima baciata, perfettamente rese dal traduttore. Ed è qui ampiamente documentata anche la passione per la musica che lo portò a comporre numerose poesie-canzoni con tanto di partiture. Se Jack Kerouac e Neal Cassady amavano il bebop e Charlie Parker, Ginsberg prediligeva la tradizione del blues antico (Leadbelly, Ma Rainey):

“Oltre ai primi blues nati dalla collaborazione con Bob Dylan, questa vena espressiva del poeta (che non dimenticò mai di essere un musicista dilettante, malgrado cantasse e suonasse l’armonium) si estende nel tempo fino ad «Aria del Campidoglio», eseguita con i Clash nel 1981 in un locale di Times Square, alla «Ballata degli scheletri» (1995) musicata insieme a Paul McCartney e Philip Glass”.

Lo spiccato carattere confessionale della poesia di Ginsberg non conosce filtri quando si toccano i temi del sesso e dell’amore, della politica, dell’invettiva contro l’establishment. L’abbondanza torrenziale della sua scrittura volutamente “impura” (e questo aggettivo va preso nel suo significato letterario, non moralistico) e antiarcadica mescola diverse tradizioni letterarie, dai sermoni alle visioni di William Blake, dal confessionalismo panteistico di Walt Whitman al surrealismo allucinatorio, dal verso lungo e citazionistico di Pound alla poesia narrativa. Molti dei testi che si possono leggere in questa raccolta (compresi i più noti e iconici, come i sopra citati Urlo e Kaddish) sembrano scorrere felicemente lutulenti (copiosi orgasmi di versi, di parole, di immagini realistiche e surreali insieme) sull’onda di un’oralità visionario-oracolare che deve più all’improvvisazione jazzistica che alla composizione classica. Per esempio, il poemetto pacifista Wichita Vortex Sutra fu composto nel 1966 interamente al magnetofono durante un viaggio in pullman nel Midwest e la spaziatura dei versi cerca di riprodurre il ritmo e il respiro con cui le frasi vengono pronunciate. Wichita, cittadina del Kansas evoca ricordi bellici (negli stabilimenti della Boeing di Wichita vennero costruiti metà dei superbombardieri strategici B29) e agli inizi del Novecento Carrie Nation sostenne il movimento proibizionista; il Sutra allude alle scritture canoniche del Buddismo.
La resilienza (stilistica e metrica) della poesia di Ginsberg, lo abbiamo visto, è un aspetto ben evidenziato anche dalla traduzione di Luca Fontana che segue fedelmente sia l’accumulo di precipitazioni verbopassionali nel gran torrente dei poemi ginsberghiani, sia il giro danzante di rime baciate delle ballate e dei blues.

Con Walt Whitman al supermercato
Fra i grandi ispiratori di Ginsberg svettano Whitman e Blake. Blake gli ispirò addirittura una visione che ebbe nel 1948 ad Harlem. Whitman è protagonista di una delle più belle poesie di Ginsberg (che a sua volta rimanda all’ode di Garcia Lorca), A supermarket in California che, insieme ad America, appartiene alla stessa raccolta di Urlo e Kaddish (Howl before & After: San Francisco Bay Area 1955-56). Non si può non riportarla per intero:

“Che pensieri ho di te stasera, Walt Whitman, camminavo per strade laterali sotto gli alberi col mal di testa un po’ a disagio e guardando la luna piena.
Nella mia stanchezza affamata, per far spesa di immagini sono entrato nel supermarket frutta al neon, sognando le tue elencazioni!
Che pesche e che penombre! Intere famiglie che fan spesa di notte!
Reparti pieni di mariti! Mogli tra gli avocado, bebè tra i pomodori! – e tu, García Lorca, che ci facevi laggiù tra i cocomeri?

Ti ho visto, Walt Whitman, tu senza figli, vecchio solitario grufolone, tastare i pezzi di carne nel frigo e buttar l’occhio sui commessi di drogheria.
Ti ho sentito che facevi domande a ciascuno: Chi ha ucciso le braciole di maiale? Quanto costano le banane? Sei il mio angelo?
Ho girato tra pile splendenti di scatolette seguendoti, e seguito nella mia immaginazione dal detective della ditta.
Camminavamo giù per corridoi aperti insieme nella nostra solitaria fantasticheria gustando carciofi, possedendo ogni squisitezza e senza mai passare dal cassiere.

Dove stiamo andando, Walt Whitman? Tra un’ora qui chiudono. Da che parte punta la tua barba stasera?
(Tocco il tuo libro e sogno la nostra odissea nel supermarket e mi sento assurdo.)
Cammineremo tutta notte per strade deserte? Gli alberi sommano ombra a ombra, luci spente nelle case, tutti e due saremo soli.
Andremo a passeggio sognando l’America d’amore perduto passando accanto a macchine blu parcheggiate, no a casa al nostro cottage silenzioso?

Ah, caro padre, barbagrigia, vecchio solitario insegnante di coraggio, che America avevi tu quando Caronte smise di spingere col palo il suo traghetto e tu sceso su una riva fumante sei rimasto a guardare la barca sparire sulle acque nere del Lete?”.

Se Ginsberg avesse continuato a scrivere poesie come questa sarebbe rimasto ugualmente su alti livelli, forse anche più elevati in termini di immediatezza e leggibilità. In questa poesia non troviamo le ansiogene accumulazioni iterative e surreali di Urlo, ma un’atmosfera più rilassata, ironica, normale, pur nella cornice narrativa quasi onirica. Certo, Urlo è ancora lo stemma distintivo della poesia ginsberghiana:  recitato per la prima volta in lettura pubblica alla Six Gallery di San Francisco, nell’ottobre 1955, e pubblicato l’anno dopo dall’editore-librario Lawrence Ferlinghetti, Urlo gioca volutamente sul contrasto tra la forma iterativo-accumulativa dei sermoni recitati nelle processioni religiose, e l’affastellarsi di visioni di derelitta umanità metropolitana che fanno di Ginsberg un allievo di Blake spiegato al popolo della controcultura e degli outcast. L’attacco (“Ho visto le migliori menti della mia generazione”) è più di un incipit narrativo: suona come dichiarazione intellettuale che stabilisce subito un altro contrasto, di natura questa volta socio-intellettuale: i protagonisti di quelle esistenze deragliate/perseguitate sono– e qui non c’è ironia, ma tragedia – “the best minds of my generation”.
La struttura del poema si incardina sull’iterazione di quel pronome relativo (ho visto…che) vero e proprio caricatore di successive mitragliate verbali. Urlo è dedicato a Carl Solomon, che Ginsberg conobbe nell’ospedale psichiatrico di Rockwell. In Urlo nota a piè di pagina, che segue le tre parti di Urlo, l’aggettivo “Holy” ripetuto quindici volte all’inizio della poesia, fornisce la nota dominante di una serie di anafore che imitano ancora più scopertamente certe litanie della messa cattolica. Ma non c’è irrisione o sarcasmo; piuttosto una sorta di giocoso panteismo laico:

“Santo Peter, santo Allen, santo Solomon, santo Lucien, santo Kerouac, santo Huncke, santo Burroughs, santo Cassady […] Santa mia madre in manicomio […] santo il rantolo del sassofono! Santa l’apocalisse bop! Santi gli hipsters di jazzbands marijuana pipe di pace peyote e tamburi! […] Sante le solitudini dei grattacieli e delle strade!”.

In Kaddish la poesia dilaga nella narrazione autobiografia, con tema centrale la malattia mentale e la morte della madre, della quale sono descritte con ritmo spezzato, a singulti, le paranoie e il decadimento fisico. La madre, di origine russa, portava spesso il piccolo Allen alle riunioni locali del partito comunista, ed essere comunisti allora, in pieno maccarthismo, era come essere atei o catari ai tempi di Bonifacio VIII.
Concludiamo con una nostra personale selezione: a parte Urlo e Kaddish, letture obbligatorie, perché fortemente emblematiche del modo di scrivere e pensare poeticamente di Ginsberg, suggeriamo la citata A supermarket in California, America, Sulla tomba di Apollinaire, Wichita Vortex Sutra, Plutonian Ode, Ruhr-Gebiet, Cervellodigallina, Hom Bom, After Lalon. E infine, come esercizio di composizione poetica, si parta da una forte dichiarazione sensitiva e percettiva (“Ho visto, ho sentito, ho sognato…”) e si liberino (metaforicamente, s’intende) le porte dalle serrature, “togliete anche le porte dai cardini” (dalla caption dell’Urlo) per esprimere a sventagliate di immagini-mitraglia quello che davvero si è visto e pensato del mondo…

Letture
  • Allen Ginsberg, Non finché vivo, Poesie inedite 1942-1996, il Saggiatore, Milano, 2017.
  • Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, a cura di Fernanda Pivano, Guanda, Parma, 1992.