Esplorando in profondità
l’anima a stelle e strisce

Alessandro Carrera
Anatomia degli Stati Uniti.
Diario di un amore difficile
Luca Sossella Editore

Fano (PU), 2021
pp. 162, € 14,00

Alessandro Carrera
Anatomia degli Stati Uniti.
Diario di un amore difficile
Luca Sossella Editore

Fano (PU), 2021
pp. 162, € 14,00


L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 resterà nella Storia, a conclusione di un ventennio di crisi della democrazia non solo statunitense ma diciamo, tout court, occidentale, inaugurato dall’11 settembre 2001 con l’attentato al World Trade Center (senza dimenticare i contemporanei attacchi al Pentagono e a Washington). La parabola, insomma, sarebbe quella di un terrorismo americano che da esterno si evolve in una minaccia sempre maggiore a matrice tutta interna. Il tentativo, maldestro quanto si vuole, ma fomentato se non orchestrato dall’ex Presidente sonoramente sconfitto alle elezioni del 2020, ha posto una pietra tombale non solo sulla fine del presunto sogno americano (altro che Make America Great Again…, qui siamo dalle parti di un incubo dal quale è difficile risvegliarsi), ma anche la pretesa di qualsivoglia eccezionalità.
Tentativi di colpi di Stato in America Latina, solo per citare un vicino degli Stati Uniti, ne avvengono un giorno sì e l’altro pure. Che gli Stati Uniti non fossero più la nazione guida dell’Occidente, se mai lo sono stati, ce l’aveva detto chiaro e tondo Aaron Sorkin già nel 2012 per bocca del suo straordinario personaggio Will McAvoy (Jeff Daniels), anchorman della fittizia TV via cavo ACN nella straordinaria, e forse sottovalutata, The Newsroom per HBO. Incalzato da un intervistatore durante uno show e irritatosi alla domanda di una giovane studentessa nel pubblico, McAvoy in poche battute racconta perché l’America non è affatto il più grande paese del mondo, come molti americani vorrebbero credere. Varrebbe la pena riascoltare il discorso del giornalista che nella fiction è un repubblicano vecchio stampo (ovvero pre-era Goldwater, per cui si veda di seguito).

“Non c’è assolutamente nessuna prova a sostegno dell’affermazione che siamo il più grande paese al mondo. Siamo settimi in alfabetizzazione. Ventisettesimi in matematica. Ventiduesimi in scienze. Quarantanovesimi nell’aspettativa di vita. Centosettantanovesimi in mortalità infantile. Terzi nel reddito familiare medio. Al numero quattro nella forza lavoro e al numero quattro nelle esportazioni. Siamo al primo posto al mondo solo in tre categorie: numero di cittadini incarcerati pro capite, numero di adulti che credono che gli angeli siano reali, e spese per la difesa, dove spendiamo di più dei più vicini ventisei Paesi combinati, venticinque dei quali sono alleati.”
(The Newsroom, stagione , episodio pilota, 2012).

C’è però un altro elemento assai importante ai fini del discorso che stiamo argomentando ed è la slatentizzazione del suprematismo bianco, la vera minaccia terroristica a stragrande maggioranza maschile e di uomini bianchi che mette a serio rischio la tenuta democratica non solo degli Stati Uniti ma di gran parte d’Europa. Se le questioni riguardanti la “razza” sono “il conflitto insanabile”, il trauma originario con il quale dovrebbe cercare di confrontarsi l’America, fa bene Alessandro Carrera a dedicare uno degli interventi del suo Anatomia degli Stati Uniti alla paura dei giovani afroamericani che ogni giorno vengono uccisi dalla polizia e in particolare ai casi divenuti loro malgrado simbolici di George Floyd e Breonna Taylor. Ma ci sono altre due miniserie targate ancora HBO che andrebbero messe in risonanza con il testo di cui stiamo scrivendo. La prima è Watchmen (2019), creata da Damon Lindelof (sì, il co-creatore e sceneggiatore principale di Lost), sorta di sequel non ufficiale del fumetto capolavoro degli anni Ottanta di Alan Moore e Dave Gibbons.

Se la premessa è già di per sé interessante, con un Paese dove le tensioni razziali sono sempre più alte, per la presenza strisciante di misteriosi gruppi terroristi sostenitori del suprematismo bianco e nello specifico anche a causa delle politiche volte a garantire risarcimenti economici agli afroamericani e agli altri gruppi che in passato sono stati vittima di discriminazioni, è nel primo episodio che si vede la potenza della serie, a partire dalla rappresentazione straordinaria del massacro di Tulsa del 1921, che offre un ponte diegetico con la narrazione del qui-e-ora della serie. È una triste e violenta pagina di storia poco nota tanto in Italia quanto negli USA. Eppure il massacro di Tulsa, in Oklahoma, del 1921 è uno degli episodi razzisti (terroristici?) ai danni degli afroamericani più impressionanti del Novecento. Una folla composta da bianchi attaccò le persone e le proprietà della comunità afroamericana nel quartiere di Greenwood, uccidendo centinaia di persone e dando fuoco a più di mille abitazioni. Merito di Lindelof per avergli ridato centralità per la comprensione storica dell’America contemporanea e piccolo esempio dell’enorme lavoro da fare nel sistema scolastico statunitense. (Per fare un parallelo, quanto del mito degli “italiani brava gente” e degli orrori del colonialismo nostrano dovrebbe essere smontato dalle nostre scuole e università, e ancora pesiste invece nel nostro immaginario collettivo?)
L’altra miniserie di cui è utile accennare qualcosa si intitola Exterminate All the Brutes (2021).

Non siamo più qui nel territorio della fiction, ma l’opera di Raoul Peck, filmmaker nero di origine haitiana che ha studiato e vissuto in Europa e America e già autore nel 2016 del fondamentale I Am Not Your Negro, sulla vita e gli scritti di James Baldwin, è squisitamente documentaristica anche se drammatizzata in maniera molto efficace. La miniserie centra la sua analisi sui rapporti di connessione tra colonizzazione e genocidio, a partire dai viaggi di Cristoforo Colombo e la narrazione mitopoietica con la quale molti se non tutti noi siamo cresciuti. L’obiettivo è capire storicamente le ragioni dell’odio e l’insorgenza recente del nazionalismo e suprematismo bianco attraverso una comprensione a 360 gradi dei tre concetti, che per Peck, sulla cui voce narrante il documentario è costruito, “riassumono l’intera storia umana: civilizzazione, colonizzazione, sterminio”. Questa, continua Peck, è difatti “l’origine dell’ideologia del suprematismo bianco”. Da non perdere.
Non è esattamente di questo o solo di questo che parla l’utile libro di Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures in una importante università americana in Texas. Carrera vive negli Stati Uniti da più trent’anni e ha di recente tradotto le canzoni e le prose di Bob Dylan per Feltrinelli. Ma l’autore si dispiacerà di questa lunga premessa per cercare un punto d’ingresso nel suo saggio. Il libro, a voler essere precisi, è il terzo che Carrera dedica all’America (e all’Italia), e si articola in due parti e un’appendice: nella prima, Carrera raccoglie interventi scritti dal luglio 2020 al gennaio 2021; nella seconda, che funge da prequel, gli articoli coprono un periodo che va dal 2016 al 2020; infine l’appendice è un vecchio articolo datato 17 gennaio 2009, sull’imminente insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. Ma riprendiamo dall’inizio.

In La marcia su Washington, il capitolo del libro dedicato all’assalto al Campidoglio e scritto dall’autore in presa diretta il 7 gennaio 2021, difatti, Carrera ricorda una delle genealogie che hanno reso possibile la resistibile ascesa di Donald Trump. Va ricordato che l’intero sistema dei mezzi di comunicazione non capì il potenziale politico devastante di Trump, la cui candidatura già alle primarie del partito Repubblicano venne assai sottovalutata. Basti vedere come si espresse ai tempi il geniale Jon Stewart, tra i migliori commentatori, se pur satirici, per più di quindici anni della politica statunitense per il Daily Show, che si fece beffe dell’annuncio alla candidatura non comprendendo che Trump ce l’aveva davvero una chance. Il resto, come si dice, è cronaca.
Genealogie dicevamo. Uno degli avvocati personali e fixer di Trump prima della forse sciagurata (solo la storia potrà dirlo con certezza, ma le premesse vanno in quella direzione) collaborazione con Rudy Giuliani, fu Roy Cohn, in precedenza consulente capo del senatore Joseph McCarthy, ovvero nelle parole di Carrera, tra gli architetti “dell’anticomunismo paranoico degli anni cinquanta”. Le genealogie sono importanti per capire che per quanto Trump sia stato forse il Presidente più autoritario della storia americana (cfr. Ben-Ghiat, 2020), e quindi questo è stato il suo specifico, anche Trump proviene da una storia e la sua storia è legata a una precisa strategia, la cosiddetta Southern strategy.

“La svolta neoconfederata degli Stati del sud risale alla campagna elettorale di Barry Goldwater del 1964, in cui non mancavano personaggi che dicevano di preferire la «sana» Spagna del generale Franco ai «decadenti» Stati Uniti. La «strategia meridionale» è stata poi perfezionata da Richard Nixon, ma la vera svolta anarcoide è iniziata con l’ingresso in politica degli Evangelici conservatori, databile agli anni settanta, e ha avuto una spinta straordinaria durante la presidenza Reagan”.

Ecco, la disamina offerta da Carrera per comprendere “l’erosione delle istituzioni democratiche” (per cui, oltre a rileggere il VII libro della Repubblica di Platone, si rimanda a Snyder, 2017) passa anche attraverso un aspetto che la maggior parte dei commentatori politici nel nostro paese non ha compreso, e cioè che “l’esperienza americana ha un fondamento religioso il cui evento capitale è la conversione”, come ben ci racconta God in America, 2010, una serie in sei episodi sul ruolo storico e l’importanza sempre maggiore che la religione ha rivestito nella formazione del discorso pubblico negli USA. Ci si può convertire a Gesù, a Scientology o a Trump con lo stesso “fervore” e la stessa “intensità”, grazie ad “una sociopatia diffusa che è sempre stata parte dell’anima americana”. Ricordate il “numero di adulti che credono che gli angeli siano reali” del discorso di McAvoy? Siamo esattamente da quelle parti.


Gli Stati Uniti, continua Carrera, hanno sempre avuto tre anime, tre DNA: “il puritano”, “il libertario”, “l’illuminista”. Questi tre idealtipi “si contendono da sempre il possesso dello spirito americano”. Il saggio di Carrera spazia dunque dall’analisi antropologica, storica e piscopatologica all’analisi più squisitamente politologica, spiegando bene, per esempio, come i margini di voto negli Stati Uniti siano sempre molto risicati: il collegio elettorale distorce in maniera sempre più marcata il voto popolare, per non parlare poi del gerrymandering, il contorto meccanismo che consente di manipolare la geografia dei distretti elettorali con l’esplicito fine di favorire i propri candidati. E ancora, aggiunge chi scrive, quello che forse è il peccato capitale della politica americana: un bipartitismo che rende tutto o bianco o nero non facilitando quelle sfumature che sono l’anima della politica. O la politica è mediazione o è pericolosa deriva nel più bieco populismo.

Per concludere, in tutto il libro di Carrera si respira aria di pulsione di morte. Una pulsione, o anche passione, per la morte che caratterizza, secondo Carrera, una delle anime sotterranee degli Stati Uniti (e il modo in cui una buona metà del paese non ha affrontato e continua a non affrontare l’emergenza pandemica lo testimonia in maniera lampante). Leggendo le pagine di Carrera in questi giorni drammatici di fallimento della missione (certo, altri termini sarebbero più appropriati, ma il discorso ci porterebbe in altre direzioni) americana in Afghanistan non si può non pensare a un altro trauma della storia del secondo Novecento statunitense ovvero la guerra del Vietnam e a una delle ultime scene de Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978) di Michael Cimino in cui, ancora una volta, s’illustra la “sociopatia diffusa” di una nazione di reduci mai tornati dal fronte. Mike (Robert De Niro) cerca di convincere l’amico Nick (Christopher Walken) a tornare a casa, ma per Nick non c’è più ritorno possibile.
Seduti al tavolo di una roulette russa a Saigon, Nick si fa saltare il cervello davanti all’amico, pur riconoscendolo in un ultimo sussulto. Nick e Mike sono i due volti degli Stati Uniti spaccati in due che si rispecchiano l’uno nell’altro, tra irrealizzabile rispetto ascetico per la vita e la natura (la metafora della caccia al cervo) e la roulette russa come perverso strumento di morte e gioco al massacro. Che un possibile sequel al libro di Carrera sia da intitolare Autopsia degli Stati non più unibili?

Letture
  • Ruth Ben-Ghiat, Strongmen: Mussolini to the Present, W. W. Norton & Company, New York, 2020.
  • Timothy Snyder, On Tyranny: Twenty Lessons from the Twentieth Century, Penguin Random House, New York, 2017.
Visioni
  • David Belton, God in America, Starz, 2010.
  • Michael Cimino, Il cacciatore, Eagle, 2019 (home video).
  • Damon Lindelof, Watchmen, DC Entertainment, Warner Bros. Television, HBO, 2019.
  • Raoul Peck, Exterminate All the Brutes, HBO Original, 2021.
  • Aaron Sorkin, The Newsroom, ACN, HBO, 2012-2014.