Uno scribacchino ingegnoso:
Philip José Farmer

Illustrazione di Shannon Robicheaux per il numero 7 della pubblicazione Farmerphile.
Sotto un’immagine dal blog Bourez.net. L’immagine in home page è un’illustrazione di Charles Berlin.

Illustrazione di Shannon Robicheaux per il numero 7 della pubblicazione Farmerphile.
Sotto un’immagine dal blog Bourez.net. L’immagine in home page è un’illustrazione di Charles Berlin.


“Caro Philip José Farmer […] Approfitto di queste righe per esprimerle la mia ammirazione. Non leggo le sue pagine, le divoro”. A scrivere questa sincera e infinita ammirazione per lo scrittore dell’Indiana è Jan Schrella, ovvero Roberto Bolaño. Lo fa in Lo spirito della fantascienza (Bolaño, 2018), dove trova modo di rivolgersi a tutti i santi e i luminari della moderna sci-fi. In particolare scrive direttamente al pirotecnico riscrittore di tutte le storie del mondo rivolgendogli un accorato quanto scriteriato appello alla fantasia.
Bolaño coglie l’essenza della scrittura farmeriana e la riassume in due righe: sono storie che si divorano, si fagocitano, come lo stesso Farmer fece con la letteratura di genere (e non solo) che amava e riscriveva incessantemente.
Leslie Fiedler lo definì uno scribacchino ingegnoso in un articolo uscito sul Los Angeles Time del 23 aprile 1972. Farmer stesso citò il brano in un’intervista a cura di Paul Walker comparsa sul numero 54 di Luna Monthly del settembre 1974 (in Farmer, 1978) e tutto sommato la definizione non gli dispiacque, ricordando che altrettanto si disse al tempo di Robert Louis Stevenson e Fëdor Dostoevskij. Bolaño non c’è più, ci ha lasciati il 14 luglio del 2003 precedendo di sei anni il ben più anziano Farmer, che se ne andò il 25 febbraio 2009 alla ammirevole età di novantadue anni. Quasi un secolo di cui circa sessanta trascorsi nell’inventare storie, nel ripensare il mito come centro di gravità dell’immaginario pop.

Philip José Farmer (Terre Haute, Indiana, 26 gennaio 1918 – Peoria, Illinois, 25 febbraio 2009).

Un’opera immaginifica da ripercorrere
Oggi Farmer non rientra tra gli autori più citati e studiati, soprattutto citati, in particolare in Italia, dove quasi per intero è fuori catalogo e gli inediti continuano a restare tali da decenni (ne mantiene viva l’attenzione su Facebook il gruppo Philip J. Farmer Italia), eppure a ben vedere la sua opera alloggia proprio nei racconti mitici del XXI, quasi metabolizzata, al punto che se ne perdono le tracce dirette, rendendo superfluo evidenziare legami e rimandi. Come non scorgere le sue intuizioni, il suo coraggio e il suo senso dell’azzardo in Lost (una variazione ben temperata sul tema principale del Riverworld, la resurrezione), Il trono di spade (la volontà di potenza dei suoi eroi in versione assembleare) e nel multiverso Marvel (le relazioni interconnesse tra gli eroi dell’immaginario), il matrimonio tra sesso e fantascienza (emancipazione dei costumi)?

Se c’è un senso in cui la fantascienza può dirsi morta, Farmer ci aiuta a coglierlo perché forse nessuno come lui, tra i maggiori autori storici del secondo Novecento del genere, si è volatilizzato, mimetizzandosi con la stessa aria che il nostro immaginario respira. Ma chi era Farmer? Un incontro ravvicinato con la fantascienza. Leggere Farmer non è altro e non è poco, poiché speculazione e intrattenimento, qui perfettamente saldati, regalano effetti vertiginosi. Provare con il ciclo Riverworld per credere:

“Sebbene alcuni nomi della serie del Mondo del fiume siano immaginari, i personaggi erano o sono reali. Magari non venite menzionati ma ci siete anche voi”
(Il grande disegno, Farmer, 2012).

È andata proprio così, Farmer ha reso tutti noi personaggi di una sua storia. Noi, tutti, circa trentasei miliardi di personaggi, di cui necessariamente non si potrà dire granché e probabilmente anche meno, nulla, salvo procedere all’infinito intrecciando storie con storie, proponendo con regolarità elementi fissi e variabili. La coazione a ripetere insita nella serialità, la sua intima dialettica che contrappone il nuovo e il sempre uguale, trova in questo ciclo farmeriamo la sua più compiuta manifestazione e, al tempo stesso, ne svela il gioco, anzi tutti i giochi pertinenti al narrare.

Il vero campione eterno è il lettore
Alle sorgenti di questa narrazione – fluviale in tutti i sensi – c’è quindi un’idea che non poteva non essere destinata a fallire, uno scenario ciclopico attraversato da trame tendenti all’infinito: per questo l’orizzonte è quello di un glorioso fallimento, un assalto al cielo che, oltre a coinvolgere l’autore stesso, promuove a partecipante ogni lettore, anche se unicamente come comparsa o figura posta sullo sfondo.
Nessuno ha mai osato tanto, non si registra niente del genere in letteratura. Dante azzardò una bozza di questo ambizioso progetto, ma si limitò a prendere in considerazione un numero più ristretto di persone, dovendo considerare l’umanità vissuta in un arco temporale più ristretto.

Il Mondo del Fiume illustrato da Avi Katz.

A rigor di logica ogni scrittore si avventura su questa strada e nelle sue creazioni fa rientrare ipoteticamente un certo numero di esseri umani reali. Ognuno di noi, in fondo, è un potenziale personaggio dentro una storia che qualcun altro potrebbe scrivere. Fin qui, siamo nell’orizzonte ordinario della letteratura e non ce ne allontaniamo di molto se allarghiamo la cerchia dei potenziali personaggi a un buon numero di terrestri nostri simili. Quando però tutti, ma proprio tutti gli umani sono presupposti in una storia, beh, allora siamo di fronte ad una vera esagerazione, ovvero lo stile di Farmer, l’autore di questa storia sconfinata, il Ciclo del fiume, saga in cinque romanzi principali (più una serie di racconti affluenti, secondo la definizione che ne diede lo stesso Farmer), realizzata nell’arco di circa quarant’anni.
I romanzi nell’ordine sono: Il fiume della vita (To Your Scattered Bodies Go, 1971), Alle sorgenti del fiume (The Fabulous Riverboat, 1971), Il grande disegno (The Dark Design, 1977), Il labirinto magico (The Magic Labyrinth, 1980), Gli dei del fiume (The Gods of Riverworld, 1983). In breve, lo scenario di partenza è questo: l’umanità intera vissuta nel periodo compreso tra il 99.000 a.C. e il 1983 (in un primo tempo da più parti nella storia viene ipotizzato un diverso arco temporale), si risveglia in un tempo imprecisato, in un punto ignoto dell’universo, su un pianeta gigantesco attraversato da un fiume lungo (si stima) circa trentadue milioni di chilometri, circondato da alte pareti scoscese che impediscono di allontanarsi e obbligano alla percorrenza del corso d’acqua per gli spostamenti. In totale sono circa trentasei miliardi di persone, resuscitate dai misteriosi Etici, una superciviltà, avanzatissima scientificamente e parimenti progredita sul piano tecnologico. Dalla resurrezione sono esclusi tutti i minori di cinque anni. Nel conto è compreso Farmer, che vezzosamente si cela dietro il nome di Peter Jairus Frigate (si notino le iniziali), ma basta sentirlo parlare per conoscere la sua vera identità:

“Le serie erano la sua specialità, nei sogni e nella narrativa. Una volta, durante la sua carriera di scrittore, aveva avviato ventuno serie. Ne aveva completate dieci. Le altre stavano ancora attendendo, incompiute, quando il grande redattore dei cieli le aveva arbitrariamente censurate tutte. Così in vita, così in morte. Non riusciva mai – mai? be’, quasi mai – a terminare qualcosa. Il grande incompiuto” (ibidem).

Di Frigate ce ne sono addirittura due, uno “autentico” e l’altro un impostore, in realtà uno degli artefici del Mondo del Fiume, Loga, il dissidente dal progetto concepito dall’élite super tecnologica, razza iperevoluta i cui membri emblematicamente si indicheranno lungo tutta la storia come Etici. Iperbolicamente Frigate/Farmer confessa anche il limite della sua coscienza di scrittore: “Non chiedermi di definire la fantascienza – aveva risposto Frigate. – Nessuno è mai riuscito a darne una definizione del tutto soddisfacente” (ibidem). Troviamo anche un accenno di lista degli autori che formarono l’artista Frigate/Farmer da giovane: Frank Baum, Hans Andersen, Andrew Lang, Jack London, A. Conan Doyle, Edgar Rice Burroughs, Rudyard Kipling e H. Rider Haggard e di alcuni testi decisivi nella sua formazione: Il viaggio del pellegrino, Tom Sawyer e Huckleberry Finn, L’isola del tesoro, Le mille e una notte, e I viaggi di Gulliver.  Frigate non è il principale personaggio di questa commedia (post)umana, ruolo che spetta a Sir Richard Burton, Burton “esploratore inglese, linguista, scrittore, poeta, spadaccino e antropologo” (Gli dei del fiume), un classico farmertipo, insomma, di quelli che assommano il fine intellettuale e l’avventuroso eroe senza scrupoli quando serve. È con suoi occhi che osserviamo la scena della resurrezione, il giorno del risveglio:

“Burton si alzò in piedi. Anche altri si stavano alzando. Molti avevano il volto inerte, oppure con un’espressione di assoluta meraviglia. Alcuni sembravano atterriti. I loro occhi erano spalancati, e roteavano; il loro petto si alzava e abbassava rapidamente; il loro respiro era sibilante. Alcuni tremavano come se fosse passato su di loro un vento gelido, malgrado l’aria fosse piacevolmente calda.
Ma la cosa più strana, la cosa davvero sovrumana e terrorizzante, era il silenzio pressoché assoluto. Nessuno diceva una parola […]
Di colpo una donna si mise a gemere. Cadde ginocchioni, gettò all’indietro la testa e le spalle, e cominciò a mugolare. Al tempo stesso, da un punto molto distante lungo la riva del fiume, qualcun altro mugolò. Fu come se quei due pianti fossero stati dei segnali. O come se fossero stati la chiave per la voce umana, e le avessero così reso la libertà. Gli uomini e le donne e i bambini presero a gridare, o a singhiozzare, o a graffiarsi il volto con le unghie, o a picchiarsi il petto, o a cadere in ginocchio alzando le mani in preghiera, o a gettarsi bocconi cercando, a mo’ di struzzi, di seppellire il volto nell’erba per non essere visti, o a rotolarsi avanti e indietro, abbaiando come cani o ululando come lupi”
(Il fiume della vita, Farmer, 2012).

Burton è nudo e calvo, come tutti. Il suo corpo non è quello del sessantanovenne morto nel 1890, ma quello che possedeva all’età di venticinque anni. Come per gli altri, anche “intorno al suo polso c’era un sottile bracciale trasparente, collegato a una striscia dello stesso materiale e lunga quindici centimetri. L’altra estremità di questa era assicurata ad un semicerchio di metallo, che costituiva l’impugnatura di un cilindro di metallo grigiastro, chiuso con un coperchio” (ibidem).
Tutti si ritrovano con il corpo riportato al tempo del massimo splendore. Ci sono bambini, anch’essi calvi, nessuno di età inferiore ai cinque anni. Burton si era già risvegliato (in una sorta di prologo) in una camera gigantesca di pre-resurrezione contenente miliardi di corpi che galleggiano nell’aria come il suo.
Chi è l’autore di tutto ciò e perché lo ha fatto? Quali fini si è posto? Determinismo, libero arbitrio, concezioni dell’universo e dell’uomo si danno il cambio nel corso del racconto. La quest troverà risposta, ne troverà diverse, lungo la strada, anzi lungo il corso del fiume, e una folla di personaggi entrerà in gioco.

Olimpo metaletterario e arena ludica
Tra le stelle di prima grandezza ingaggiate nell’avventurosa speculazione ci sono Samuel Clemens, meglio noto con lo pseudonimo di Mark Twain, Alice Pleasance Liddel Hargreaves, che ispirò a Lewis Carroll le storie di Alice in Wonderland, Jack London, Tom Mix, Ulisse, Wolfgang Amadeus Mozart, Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, Aphra Behn, la prima donna a fare di mestiere la scrittrice sostenendosi con i proventi delle sue opere, il poeta cinese Li Po, anche lui famoso spadaccino, il padre del ragtime di S.Louis, al secolo Tom Turpin e così via, ai quali si accompagnano anche un discreto numero di personaggi storici ambigui, inquietanti, crudeli; c’è Giovanni d’Inghilterra, il Senzaterra, fratello di Riccardo I d’Inghilterra, il Cuor di Leone, ma anche Hermann Göring, il fondatore della Luftwaffe, qui pentito e “sacerdote” della Chiesa della Seconda Possibilità, un cocktail mix di new age e religioni storiche, e il re vichingo Erik il sanguinario, per citare i personaggi più di rilievo nella finzione farmeriana. Una capatina la fa anche Gesù, ma a lui Farmer dedicherà un romanzo a parte (non del ciclo), inquietante quanto basta: Cristo marziano (Jesus on Mars, 1979).

Copertina del ciclo Makers of Universe disegnata da Doug Beekman.

Farmer vi riversa tutto il suo sapere, lascia ovunque segnali, spie, avvisi della enciclopedica documentazione sottostante la narrazione. Un gusto flaubertiano, in una vicenda dove i condomini balzachiani e i gironi danteschi si danno appuntamento nell’altrove. A volte basta un cenno, come avviene in Alle sorgenti del fiume, quando Sam Clemens (ovvero Mark Twain) impreca contro Giovanni Senza Terra, un pessimo alleato a suo modo di vedere per l’impresa che ha in mente, ovvero di risalire il Fiume fino alle sue sorgenti. Nello sbottare, precisa che a un simile alleato così velenoso, avrebbe preferito un mascalzone come il re del Belgio (ai suoi tempi): Leopoldo. Ebbene, Twain è l’autore del Soliloquio di re Leopoldo, breve e poco noto testo dove si sbeffeggia magistralmente il predone del Congo.
In un equilibrio impossibile, Farmer terrà viva la tensione, il mistero e soprattutto l’avventura, riuscendo al tempo stesso a passare in rassegna tutti i grandi temi e le figure chiave della fantascienza: androidi, alieni, robot, viaggi nello spazio e nel tempo, apocalissi, fantasie scientifiche, utopie e antiutopie, universi paralleli, superuomini e soprattutto il grande sogno infuso in tutte le storie e a tutti gli eroi: la ricerca dell’immortalità.
Nel Mondo del fiume si può tornare a morire resuscitando immediatamente in un altro punto del pianeta. La corrente vitale che attraversa tutte le principali storie farmeriane è, infatti, l’idea di immortalità, un’autentica ossessione, e scrivere cicli di lunga durata dona all’idea stessa di lunga durata una consistenza materica, quantomeno cartacea.

Scrivere, o più precisamente riscrivere. Già, ci sono scrittori di fantascienza che fanno coppia fissa con un concetto: Isaac Asimov è tutt’uno con le sue leggi della robotica, William Gibson con il virtuale, Philip K. Dick con i simulacri, James Ballard con l’inner space, Samuel Delany con la linguistica. Philip Jose Farmer è la riscrittura, dunque la fantascienza stessa e, a ben vedere, la letteratura tutta. Può essere eccessivo, è vero, ma in che altro modo ragionare intorno ad uno scrittore spesso privo del senso delle proporzioni, che ha sempre voluto strafare, esagerare, facendosi beffe di tutto e di tutti, dei generi, delle regole, delle norme, dei tabù. Un autore smisurato, che ha rapito tutti gli eroi di cui è stato fan e accanito lettore per arruolarli nelle sue storie, o meglio riprendendo/riscrivendo quelle storie innumerevoli altre volte. Farmer opera una rivoluzione copernicana ponendo il lettore al centro della creazione. Alla stregua di Jorge Luis Borges, ma operando sulla letteratura di genere, sulle figure dell’immaginario di massa prodotte dal romanzo popolare ottocentesco e le sue diramazioni nel Novecento non solo nella pagina scritta, ma nel fumetto e nel cinema. Nelle sue storie si rifondano e si rinvigoriscono le fondamenta dei nuovi miti di massa facendo ricorso (apparentemente) indiscriminato a saperi eterogenei, dall’antropologia alla psicoanalisi.
Quella di Farmer è una visione pantagruelica della letteratura: da un lato ingurgita storie in porzioni gigantesche e dall’altro ne cucina di altrettanto colossali, variando le ricette originali, aggiungendo qui un po’ d’avventura in più, lì qualche spruzzatina di psicoanalisi, là qualche farcitura dotta, o aromi sessuali alieni, piuttosto che condimenti esotici. Farmer è un riscrittore.

Illustrazione di Victor Gadino per The Adventure of the Peerless Peer.

“Voglio riscrivere tutte quelle vecchie storie che amavo tanto nella mia fanciullezza e anche in gioventù”, dichiarò nella medesima intervista rilasciata a Walker. Farmer amava citare i suoi amori, un’autentica passione, si è sempre divertito a pasticciare con le sue letture creando scenari adatti a contenerle tutte, inventando situazioni che consentissero ai suoi personaggi ideali di incontrarsi, connettendo piani differenti di finzioni, intrecciando epoche, culture e figure provenienti dagli ambienti più disparati, con retroterra storico-culturali anche diametralmente opposti.

Il postmoderno? Tra Babele e la giungla
Farmer ha citato di tutto nei sessant’anni che ha dedicato al mestiere di scrittore, svelando la natura intima della letteratura di massa senza tradirla; letteratura di serie A, B, fino a quella di serie Z da cui nascono alcune sue storie di fanta-porno-horror. In questo modo, Farmer ha costruito la sua personale carta dell’impero, con la stessa consapevolezza borgesiana che tutto ormai è stato detto e che non resta altro da fare che trovare godibili combinazioni nella Biblioteca di Babele. Da scrittore ha a sua volta trovato lettori che lo riscrivono, tornando sui cicli principali, dal Riverworld al Wold Newton.
L’operare di Farmer è un agire divino, costruisce mondi dal nulla e li disfa con altrettanta disinvoltura, è un fabbricante d’universi come poi finirà per intitolare un altro suo celebre ciclo. Giusto un accenno, per ricapitolarlo. Il ciclo dei Fabbricanti d’universi è un wargame (e dov’è finita nel quotidiano una bella fetta di sf? Nel videoludico) giocato dai Signori degli universi, esseri quasi immortali.

Nei loro universi, tramite speciali trattamenti, sono fermi all’età di 25 anni, possono però morire di morte violenta. La loro età varia dai 10.000 al mezzo milione di anni. Dopo così tanto tempo l’unico piacere che dà la vita è quello di rischiarla combattendo altri Signori per sottrarne i domini. I loro cosmi privati, costruiti in base ai gusti personali di ciascuno, sono una sorta di dimensioni parallele artificiali, che comunicano in determinati punti tra loro, attraverso porte che si “schiudono” solo per mezzo di particolari chiavi: i corni. Perdere i corni è un guaio, si è votati all’isolamento, non è possibile, infatti, costruirne. La loro nozione del tempo è andata perduta col passare del tempo insieme a quasi tutta la scienza dei Signori. Gli universi sono artificiali, la stessa Terra è artificiale, un universo creato da un Signore. Nel quinto romanzo della serie, Il mondo di Lavalite, la metafora del colpo di scena, dell’aleatorietà del codice della scrittura, almeno di quella fantascientifica e della stessa opera farmeriana, prende definitivamente forma.

“Non siamo creatori più di quanto lo siano i narratori o i pittori. Anche loro fanno mondi, ma non riescono mai a fare di più di ciò che sanno. Possono scrivere o dipingere mondi basati su elementi noti, messi insieme in un ordine diverso, in un modo che li fa apparire come creatori”. (Farmer, 1979).

L’universo tascabile di Lavalite ha un aspetto mutevole, strutture geologiche che cambiano incessantemente. Le montagne si innalzano dalle pianure, o sprofondano creando burroni nell’arco di una nottata. Nascono oceani estesissimi in pochi giorni e ricoprono depressioni sorte dal nulla in poche ore. Sense of Wonder, Farmer ha sempre operato all’interno dei territori della fantascienza facendo leva sulla voracità del genere (il blob è la sua natura) che ben si addiceva al suo pantagruelico appetito di lettore. Fantascienza che in Farmer non ricopre il mondo, non invade gli altri generi, ma è ricoperta dal reale, invasa dagli altri generi. Se negli altri autori citati il genere si svuota e implode, in Farmer si riempie ed esplode.

Processi convergenti che conducono la fantascienza all’estinzione in quanto genere di per sé, un po’ come è accaduto al jazz, l’altra creatura in origine squisitamente made in USA. A giocare con i Signori c’è anche Farmer che qui mette in scena la più genuina proiezione di come egli avrebbe voluto essere: Kickaha, ovvero Paul Janus Finnegan (ancora le iniziali aiutano), superuomo dedito solo all’attività ludica per eccellenza, il gioco per il gioco dell’avventura spericolata.
Il nume dietro Fabbricanti d’universi è l’amatissimo Edgar Rice Burroughs, creatore del primo immortale della fantascienza, John Carter eroe di un ciclo marziano, e autore di Tarzan, il personaggio prediletto da Farmer e con il quale si è spesso trastullato, anzi da vero giocatore ha finito per trasformare Lord Greystocke in un’ossessione. Lo ha posto al centro di uno strambo esperimento, realizzato da un milionario invaghito dei romanzi di Edgar Rice Burroughs, che fa rapire un neonato, lo spedisce in una valle sperduta dell’Africa, affidandolo a due nani che si spacciano per scimmie, cercando di riprodurre al naturale la vicenda di Tarzan. Lui, Ras Tyger, Lord Tyger, arriverà a scoprire la verità, dopo essersela spassata con tutte le femmine del villaggio di una tribù indigena confinante con il suo territorio, e il milionario che giocava a essere Dio finirà per subire la vendetta della creatura che si ribella (sì, c’è anche un’eco di Frankenstein).

Il romanzo si intitola Lord Tyger, (1970) e parte a razzo con un incipit memorabile: “Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio” (Farmer, 1992a). Il morbo di Tarzan ha scatenato in Farmer ancora altro, molto di più. In L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, 1972) un certo John Gribarsdun, si reca indietro nel tempo, a bordo di una navicella temporale chiamata H.G. Wells I. Si reca nel 14.000 a.C. insieme a tre compagni di viaggio, che ritorneranno indietro mentre lui decide di non abbandonare l’era magdeliana. Il gioco con il tempo (c’è sempre un gioco in gioco…), risulterà necessario a Gribarsdun per svelare la sua vera identità, quella di un immortale, reso tale da una pozione magica messa a punto da uno stregone africano quando il Nostro si trovava lì a fine Ottocento; sì, proprio nel Continente Nero, un immortale che nel corso del tempo si ritrova all’origine di tutti gli avvenimenti importanti, testimone della storia che conta, lui, in persona, Tarzan, che in questa faccenda della storia del mondo ha le mani in pasta un po’ ovunque. Leggere per credere:

“Sono stato sposato molte volte, e sono stato padre di molti bambini. Ognuno di voi è mio discendente. Direi che praticamente tutti gli esseri umani che sono vissuti dopo il 5.000 a. C. sono miei discendenti. Io sono molte e molte volte il mio stesso antenato… Ho passato complessivamente mille anni nel cuore dell’Africa selvaggia, e altri mille anni in Asia e nell’America precolombiana… ho trascorso molto tempo in Egitto e in Mesopotamia, e nella valle dell’Indo, e sul fiume Giallo, e nell’antica Creta, e in Grecia. E un tempo sono stato Quetzalcoatl…”
(Farmer, 1974).

Casomai qualcuno lo prendesse per un megalomane, Gribarsdun documenta tutto con reportage fotografici:

“Troverete delle fotografie, prese di nascosto, naturalmente, dell’originale storico di Ercole…io… di Nabuschadeznar, del Mosé storico… non io… di Giulio Cesare, Shakespeare, Eric il Rosso… una foto che ho scattato da dietro un arbusto, dopo aver aspettato per sei mesi il suo sbarco… dell’Odisseo storico, della vera città di Troia, del primo Faraone, di numerosi tra i primi imperatori della Cina, di Kublai Khan e di Marco Polo. Ci sono inoltre le foto di Gesù, di Budda, e di Maometto, di Carlo Magno, del Saladino, del Beowulf storico e una foto di gruppo dei veri fondatori di Roma. Mi dispiace dire che non sono mai esistiti, in realtà, i leggendari Romolo e Remo”
(ibidem).

Farmer non si tira mai indietro quando si tratta di esagerare e Tarzan è l’esagerazione per eccellenza, per questo si presta al gioco e alla parodia. L’immaginifico Gribarsdun non basta allo scrittore dell’Indiana che si rifà al classico “l’unione fa la forza” e inizia a mescolare le carte, incrociando Tarzan e un altro eroe pulp, Doc Savage. I due, secondo Farmer sono mezzi fratelli, entrambi figli di Jack lo Squartatore e si ritrovano a farne di tutti i colori, con erezioni e orgasmi puntuali ogni qual volta ammazzano e altre avventure e amenità del genere nel cuore della classica foresta e poi se le danno di santa ragione. Il romanzo è Festa di morte (1969) cellula seminale del Wold Newton, più che una storia alternativa, un dietro le quinte, dove Farmer ricostruisce vicende storiche e letterarie, svelandone imposture, trame segrete, connessioni apparentemente impossibili e altri giochi del genere ad opera di una famiglia di super eroi mutanti, la Wold Newton Family, appunto. Per sorreggere la tesi, scrive due biografie, Tarzan Alive (mai tradotto in Italia) e Doc Savage: una biografia apocalittica. Qui si spiega, in appendice, l’origine del Wold Newton:

“Doc Savage non solo ha molti antenati famosi, ma ha anche molti cugini celebri, tutti originari di un piccolo villaggio inglese, Wold Newton, nello Yorkshire, famoso soprattutto per il meteorite che cadde nelle sue vicinanze nel 1795… al momento dell’impatto, transitavano a poca distanza da quel punto due grosse diligenze con quattordici passeggeri e quattro vetturini. Tutti questi furono esposti alle radiazioni ionizzanti sprigionatesi dal minerale di cui era composto il meteorite. Tra i discendenti di quelle diciotto persone si riscontra un impressionante numero di grandi esploratori, scienziati e nemici del crimine. Un numero così elevato, in effetti, che l’unica spiegazione ragionevole è che la radiazione del meteorite abbia portato a una mutazione benefica dei geni di coloro che sono stati esposti a essa”
(Farmer, 1992b).

Ecco quindi che ci troviamo a scoprire che Doc Savage, Tarzan, Sherlock Holmes, Sam Spade, Fu Manchu e anche James Bond sono tutti parenti. Da questo filone nasce Il diario segreto di Phileas Fogg (1990), riscrittura del Giro del mondo in ottanta giorni, dove si svela la missione segreta di Fogg. Da qui arriva anche The Adventure of the Peerless Peer (1974), storia pubblicata come un inedito di Watson in cui Sherlock Holmes e Tarzan si ritrovano insieme in Africa a combattere i tedeschi durante la Prima guerra mondiale.
Il Tarzangame non si esaurisce qui, Farmer si prende anche una vacanza dalla fantascienza più o meno iconoclasta per dedicarsi ad una saga extragenere, il Ciclo di Opar (Tarzan’s Africa) che inaugura con il romanzo Opar, la città immortale (1989).

La rivisitazione della città perduta si è interrotta dopo due puntate, ma il gioco non ha subito interruzioni. Farmer nel 1999 corona un sogno: scrivere una storia di Tarzan. Il libro inedito in Italia è The Dark Heart of Time: A Tarzan Novel, storia tutta d’azione che sviluppa un gioco vertiginoso di specchi riflettenti l’immagine di Tarzan da quello scritto da Burroughs a quello riscritto da Farmer a quello da lui scritto, ma nelle vesti di Burroughs. L’uomo scimmia ne viene fuori rinvigorito, guadagnando in immortalità, in vitalità. Il giovane lord inglese ne esce bene anche dal più duro dei trattamenti a cui Farmer lo ha sottoposto: l’uso intensivo di diverse droghe pesanti. Il Tarzan fulminato dalla chimica di Il dannato figlio della giungla impasticcato (1976) è un altro doppio salto mortale, dove si immagina che a scrivere le note vicende dell’inglesino nella giungla sia stato l’altro Burroughs, William, il visionario autore de Il pasto nudo, La scimmia sulla schiena, Nova Express e tutti gli altri deliranti reportage da un mondo apparentemente altro, probabilmente quello reale che abitiamo. Se deve essere selvaggio, sia, sembra essersi detto Farmer mentre schizzava ritratti di tal fatta:

 “Grosse zampe pelose, forti, come quelle di uno spacciatore di Old Jungle, strapazzano Clayton a terra e in aria. Respiro puzzolente. Deve fumare bucce di banana. Tuut! Tuut! L’Espresso Gorilla ding-dong s’infila nel nero tunnel del mio retto. Emorroidi infrante come pomodori schiacciati, con un lieve sospiro. Morte vieni. E vieni. Orgasmi spaventosi e sanguinosi”
(Farmer, 1976).

Quando c’è da andarci giù pesante, Farmer non si tira indietro, di lui si potrebbe dire come in cronaca nera che è stato sempre invischiato in torbide storie di sesso. Il romanzo che lo impose sulla scena, Un amore a Siddo (The Lovers, 1952), turbò non poco l’ambiente dei fan del genere narrando del ménage tra l’umano Hal Yarrow e l’aliena Jeanette, metà donna e metà insetto. Il bigotto mondo della science fiction della puritana America, della castigata e ipocrita classe media si scandalizzò e l’etichetta di scrittore osé si incollò per sempre sulla carriera dello scrittore dell’Indiana.

Di bizzarre relazioni aliene raccontò anche in vari racconti poi raccolti in Relazioni aliene (Strange Relations, 1960), scatenò la libido collettiva nel mini ciclo Notte di luce imperniato sul personaggio di Padre Carmody (Night of Light, 1957) e di sesso impregnò anche il paganesimo dominante in Sole nero (Flesh, 1960). Oggi queste storie non solleticano più come allora, ma in fondo l’intento di Farmer non era quello di épater le bourgeois. Farmer è un bricoleur dedito alla creazione di mondi fatti a sua immagine e somiglianza, che modella con i materiali più disparati, scelti con cura, come si è detto, recuperati da tutta la letteratura, preferibilmente quella incontrata in gioventù: le sue letture adorate, i suoi eroi, le avventure che lo hanno rapito e fatto sognare a occhi aperti. Mescolando assai le carte, affinché nel lettore risorga di continuo la sensazione di stupore della prima volta. A una condizione, ed è il più emblematico dei personaggi farmeriani a indicarci quale:

 “Non potevamo dirgli tutta la verità, ed è più facile inventare una completa bugia che una mezza verità. E poi, io sono Kickaha, il «kickaha»», l’ingannatore, il creatore di fantasie e di realtà, io sono l’uomo che i confini non possono trattenere… Me ne vado, e dove appaio e quale sarà il mio nome lo sanno in pochi!”
(Farmer, 1974).

Intanto, mentre noi riflettiamo su questa completa bugia, sul Mondo del fiume se la spassano. Lì un certo Philip José Farmer, da North Terre Haute, Indiana, continua a inventare storie.

Letture
  • Roberto Bolaño, Lo spirito della fantascienza, Adelphi, Milano, 2018.
  • Philip José Farmer, Relazioni aliene, Fanucci Editore, Roma, 1973.
  • Philip José Farmer, L’ultimo dono del tempo, Libra, Bologna, 1974a.
  • Philip José Farmer, Fabbricanti di universi (Il fabbricante di universi, I cancelli dell’universo, Un universo tutto per noi, Le muraglie della Terra), Editrice Nord, Milano 1974b.
  • Philip José Farmer, Il dannato figlio della giungla impasticcato, in Cristalli di futuro, (a cura di) Norman Spinrad, La Tribuna, Piacenza, 1976.
  • Philip José Farmer, Il mondo di Lavalite, Nord, Milano 1979 (quinto romanzo della serie Fabbricanti d’universi).
  • Philip José Farmer, Il mondo di Philip José Farmer (racconti ambientati nel ciclo del Mondo del Fiume), Editrice Nord, Milano 1981.
  • Philip José Farmer, Pianeta d’aria, Fanucci, Roma, 1988.
  • Philip José Farmer, Cristo marziano, Mondadori, Milano, 1991.
  • Philip José Farmer, Lord Tyger, in I Massimi della Fantascienza, Mondadori, Milano 1992a.
  • Philip José Farmer, Doc Savage: una biografia apocalittica (Doc Savage: His Apocalyptic Life, 1972) in I Massimi della Fantascienza, Mondadori, Milano, 1992b.
  • Philip José Farmer, L’inferno a rovescio, in I Massimi della Fantascienza, Mondadori, Milano 1992b.
  • Philip José Farmer, Primo contatto, Editrice Nord, Milano, 1993.
  • Philip José Farmer, La macchina della creazione, Editrice Nord, Milano 1994 (sesto romanzo della serie Fabbricanti d’universi).
  • Philip José Farmer, Gli avventurieri di Riverworld (racconti ambientati nel ciclo del Mondo del Fiume), Editrice Nord, Milano, 1994.
  • Philip José Farmer, L’immagine della bestia, Fanucci, Roma, 1994.
  • Philip José Farmer, La rabbia di Orc il Rosso, Fanucci, Roma, 1995 (libro collegato alla serie Fabbricanti di universi).
  • Philip José Farmer, Nelle rovine della mente, Fanucci, Roma, 1995.
  • Philip José Farmer, Il diario segreto di Phileas Fogg, Mondadori, Milano, 1999.
  • Philip José Farmer, Venere sulla conchiglia (inizialmente pubblicato sotto lo pseudonimo Kilgore Trout), Mondadori, Milano, 2004.
  • Philip José Farmer, Notte di luce, Mondadori, Milano, 2007.
  • Philip José Farmer, Gli amanti di Siddo, Mondadori, Milano, 2008.
  • Philip José Farmer, Il mondo del Fiume (volumi separati: Il fiume della vita, Alle sorgenti del fiume, Il grande disegno, Il labirinto magico, Gli dei del fiume), Fanucci, Roma, 2012.
  • Paul Walker, Intervista con Philip J. Farmer, in Un amore a Siddo, La Tribuna, Piacenza, 1978.